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Bogotà39: Nuova narrativa latinoamericana
Bogotà39: Nuova narrativa latinoamericana
Bogotà39: Nuova narrativa latinoamericana
E-book344 pagine5 ore

Bogotà39: Nuova narrativa latinoamericana

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Info su questo ebook


Quella che il lettore si appresta a leggere è una selezione di 39 tra i migliori scrittori di narrativa fino a 39 anni, provenienti da tutta l’America Latina, che intende celebrare la buona letteratura e mettere in risalto il talento e la diversità della produzione letteraria nella regione. Alcuni di loro sono già stati tradotti in varie lingue, mentre altri hanno appena iniziato a pubblicare opere nel proprio paese. Nel loro insieme, testimoniano la varietà di voci che è possibile ascoltare in tutto il continente, grazie alla loro ricchezza e profondità. C. M. Álvarez, F. Báez, N. B. Polesso, G. Caputo, J. Cárdenas, M. J. Cárdenas, M. J. Caro, M. F. Castagnet, L. C., J. E. Constaín, L. Copacabana, G. Eltesch, D. Erlan, D. Ferreira, C. M. Fonseca, D. G. Bertolino, S. G. Negrón, G. Jauregui, L. Jufresa, M. Libertella, B. Lozano, V. Luiselli, A. Mills, E. Monge, M. Ojeda, E. Plaza, E. Rabasa, F. R. Pombo, J. M. Robles, C. Romero, J. P. Roncone, D. S. París, S. Schweblin, J. M. Soto, L. Sousa, M. Torres, V. Trujillo, C. U. Donoso e D. Zúñiga.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2019
ISBN9788899958114
Bogotà39: Nuova narrativa latinoamericana

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    Anteprima del libro

    Bogotà39 - AA VV

    Simonetti

    Notizie di seconda mano

    Carlos Manuel Álvarez

    Ho ventidue anni, i capelli neri e lisci, il naso sottile. Sono alto più di un metro e ottanta. Sono figlio di genitori divorziati. Mio padre vive a Miami, se ne è andato qualche mese fa, mentre mia madre sverna ancora, insieme alla mia sorellina, in una cittadina malata nella zona interna di Cuba. In genere faccio loro visita un fine settimana ogni mese, mese e mezzo, ma parliamo al telefono quasi tutti i giorni. Ho quasi sempre fame, anche se la fame non è una mia condizione peculiare, bensì una costante dei giovani cubani.

    I giovani cubani condividono una carnagione anemica, propria della fame che non si placa, i tratti secchi, una certa espressione cinerea, i gesti languidi e un atteggiamento vivace, insistentemente felice, che si impegnano a coltivare e che contraddice tutto il resto. I giovani cubani vivono nuotando contro la corrente del fiume dei loro corpi.

    Oggi è martedì 20 dell’anno 16, nei saloni ricoperti da mura della fortezza Morro-Cabaña, ai piedi di quella pozza contaminata che è la baia dell’Avana, dove nessuna luna si azzarda a specchiarsi. La casa editrice Gobierno Arte y Literatura sta per pubblicare il romanzo 1984 dell’autore inglese George Orwell, decisione che sembra aver preso tutti in contropiede, visto che le dittature, dicono, non accettano di pubblicare una feroce accusa ideata per smascherarle.

    Lo scrivo qui perché nel mio periodico non posso farlo. Alla fine, è un punto su cui bisogna insistere. È la Settimana della lettura e Remy Alfonso, a capo del reparto informativo del Grandpa, mi ha tolto dal reparto nazionale per rimpolpare le fila della squadra di cultura. Devo occuparmi del lancio del libro.

    Grandpa è l’organo ufficiale del partito. Suona piuttosto tremebondo ma, per quanto mi riguarda, posso dire con piena fiducia che non lo è. Sono trascorse due settimane da quando mi sono laureato e ho iniziato a lavorare per il periodico. Poteva toccarmi una stazione radiofonica, un canale televisivo o un supplemento della gioventù comunista. Mi è toccato Grandpa, in modo piuttosto casuale. È falso che siano richiesti requisiti speciali per entrare in uno di questi luoghi. Mio padre, come ho detto, si trova a Miami, mantengo con lui una regolare corrispondenza, ed eccomi qui, nell’apparato di propaganda più longevo del mondo occidentale. Nessuno pensa che io sia pericoloso o un potenziale paria.

    Ricordo il giorno delle assegnazioni lavorative all’università. È lo stesso ricordo condiviso da tutti quelli che hanno studiato giornalismo all’Avana negli ultimi quarant’anni. Erano le nove di mattina e mi ero reso conto che stava per succedere qualcosa di speciale. A differenza del resto, questo è un momento che, una volta passato, non ritorna più. Sono davvero pochi secondi, ma sufficienti per conferire al fluire dell’universo la sua condizione di infallibilità.

    Sapevo che non c’era alcun motivo che giustificasse l’ansia, ma agiamo e crediamo come se veramente le cose fossero sotto il nostro controllo. Non è un qualcosa che deve essere necessariamente triste o condannabile. Voglio dire, chi vuole davvero una responsabilità così grande come avere il controllo della propria esistenza o sapere che i propri atti dipendono unicamente ed esclusivamente da se stesso? Avendo visto la fine che fanno le persone che si prendono carico di sé, non credo di desiderare un impegno del genere per me, sinceramente.

    Ma eccomi al giorno delle assegnazioni lavorative. Ero molto nervoso, come se ci fosse davvero una qualche differenza reale tra le possibili destinazioni. Mi nascosi nel mio angolino e a nessuno gliene importò nulla, francamente. La facoltà di giornalismo era un brulicare di studenti spensierati e felici, oltre che stupidi. Verso mezzogiorno, dopo una lunga sfilata di compagni di studi, qualcuno pronunciò il mio nome. Avanzai lentamente, senza alcuna espressione sul volto. Aprii la porta dell’ufficio e vidi una scrivania con un vaso di fiori a pois, una tovaglia ricoperta da una filigrana rosa, documenti raccolti in dossier, tre funzionari dietro la scrivania, intenti a chiacchierare tra loro, e davanti una sedia nera, vuota, quasi un trono per chi ci si sedesse.

    Mi invitarono a mettermi comodo. Notai immediatamente il funzionario che sembrava presiedere le operazioni. Gli fissai profondamente i baffi, come un piano sequenza che si dissolve fino a non mettere più nulla a fuoco. Quando la sua bocca si aprì e il funzionario disse dove avevano deciso di mandarmi, i baffi si mossero come un sopracciglio gigante. Sul volto delle persone con i baffi nulla acquisisce più vita dei baffi stessi.

    Cosa dovrò fare? domandai.

    Scriverai sui temi nazionali rispose.

    Mi piacerebbe scrivere di sport.

    Ti piace lo sport?

    Sì, certo.

    D’accordo, lo terremo presente, fece una pausa, ma per il momento non possiamo soddisfare la tua richiesta. Scriverai sulla pagina nazionale.

    Attesi un istante, ma non mi sembrò che dovesse dire altro.

    D’accordo accettai alla fine.

    Mi alzai e gli strinsi la mano. Iniziai a pensare. Stavo recitando, è logico. Qui si recita soprattutto dalla testa verso l’interno. Sei il tuo stesso pubblico. Ero felice di non essere stato spedito in qualche emittente di campagna. Però, subito dopo, non appena uscii in strada, fui pugnalato dalla fame. Non riuscii a pensare ad altro fino a quando, poco dopo, non misi qualcosa sotto i denti. Forse un pezzo di pane, o magari una pagnotta intera.

    ***

    Non perderò tempo con i dettagli sui miei primi giorni al Grandpa, visto che sospetto che siano uguali alle settimane, ai mesi o agli anni che mi aspettano, e non intendo raccontare le stesse cose due volte. Sono le tre del pomeriggio, il sudore mi appiccica la camicia alla schiena e mi aggiro per le stradine selciate di La Cabaña. Manca ancora mezz’ora all’inizio della presentazione di 1984 in una delle sale principali. Ho quindi tempo per descrivere un po’ questo luogo, in modo da darvi un’idea.

    Si tratta di una fortificazione coloniale posta in cima a una collina ripida, ai piedi della baia della città, e i suoi alti padiglioni pieni di umidità e luce, che tre secoli fa proteggevano i soldati della metropoli, incaricati di difendere l’Avana dagli attacchi di filibustieri e pirati, oggi accolgono la Settimana della lettura.

    Ogni giorno alle nove di sera un gruppo di poveri diavoli adolescenti, che compiono il servizio militare obbligatorio, si veste come il plotone cerimoniale della metropoli, tutto molto spagnolo e molto monarchico, con sciabole, parrucche, uniformi e giubbe elaborate con dettagli in damasco e seta, avete capito, e poi con un vecchio cannone spara un proiettile di cartone verso la baia.

    È una tradizione a cui nessuno presta molto interesse. Al massimo, vi assistono quattro gatti annoiati: una coppia di medici da poco sposati e senza soldi per andare altrove, un gruppo di studenti urlanti che hanno appena iniziato l’università, o un saccopelista svizzero con dieci dollari in tasca. Lo spettacolo è deprimente e monotono. Ad eccezione dei primi giorni di gennaio della Settimana di lettura, la fortezza di La Cabaña è un palazzo morto.

    Oggi invece, è pieno zeppo. Ci sono tende e stand di libri in ogni zolla del prato. Ma la gente qui non viene a leggere. Fa bene. Nemmeno io leggo, non lo sopporto. Dopo un paio di brevi incursioni, una volta iniziai a leggere sul serio, ma non durai a lungo, ma si tratta di un aneddoto che adesso non ha importanza e che posso benissimo riservarmi per dopo. Se trovo un momento per raccontarlo, lo faccio. Altrimenti, me lo tengo per me.

    La gente si prende la briga di venire fino qui per comprare da mangiare a poco, ricoprirsi le mani di grasso con una coscia riscaldata di pollo fritto e poi succhiarsi le dita e pulirsele nel risvolto della camicia senza farsi vedere. Al Grandpa abbiamo pubblicato foto dei partecipanti, affermando che la gente ama leggere, ma se non si trattasse di libri, bensì di pirografie, la gente verrebbe lo stesso, visto che in questa città non c’è nessun altro luogo in cui andare, né nient’altro da fare.

    Non c’è molto da dire su La Cabaña. Se volete vi riassumo come sono finito qui. Non sono convinto che ne dovremmo parlare, ma proviamo con un paio di paragrafi.

    La stampa non mi interessa particolarmente. Mi sono iscritto a giornalismo perché volevo conoscere L’Avana. Sono arrivato qui a diciotto anni e non ho smesso di pensare a quell’assioma che dice che esistono solo due storie. 1: uomo che intraprende un viaggio. 2: uomo che giunge in un villaggio sconosciuto. Mi manca un po’ chi ero, chi sarei diventato. La città mi sembrava piena di promesse e molto presto ho iniziato a percorrerla a piedi, circospetto, credendo che in qualsiasi momento avrei potuto essere assalito.

    Vedevo il giornalismo come una fase di passaggio, un motel in cui ripararmi e attendere che la tempesta si placasse e che gli astri si allineassero, in modo da potermi dedicare alla mia vita. Ma non arrivò la mia vita. Arrivò il Grandpa, ed è lì che sono rimasto. Non fraintendetemi, starci o non starci per me non fa assolutamente alcuna differenza. Non so perché ho iniziato a raccontarvi tutto questo. Se domani mi annoio, la smetto qui.

    La stampa straniera affermò di non aver creduto al fatto che a Cuba avrebbero pubblicato un libro come 1984. Io non avevo mai sentito parlare di questo Orwell. Era inglese, pensate. Che può saperne un inglese? Ho sentito dire che lo leggono nei circoli segreti di lettura del paese. È considerato una specie di precursore. Remy Alfonso mi ha consegnato quattro giorni fa una copia di Arte y Literatura inviata appositamente al periodico e mi ha detto di leggerla, perché dovevo occuparmi del lancio del libro. Quello che credo, dopo averla letta, è che tutto lo scompiglio che si è creato è inutile e piuttosto stupido.

    Pensate a questo: Orwell non ha incluso nel suo romanzo, né ha nemmeno accennato alla possibilità, che il Ministero della Verità pubblicasse sulle pagine del suo periodico la recensione di un’opera come la sua. Ed è proprio quello che è appena successo. Ma vi dico di più. Orwell si concentra sull’efficienza ma non dice nulla sulla goffaggine. Ad ogni modo, mi sto annoiando. Camminerò ancora un po’. Il caldo oggi è un vecchio tizio verde che mi bacia la pelle.

    Ministero dell’Amore? Io ho il Ministero dell’Edilizia davanti al mio appartamento. Io sì che posso dirvi cos’è un ministero.

    ***

    Il lancio di 1984 ha richiesto quindici minuti. I presentatori lo hanno annunciato con eccessiva naturalezza, come se fosse una novità letteraria scritta il giorno prima. Fine della storia.

    ***

    Sono già nella redazione del Grandpa, ad attendere in piedi la revisione di Remy dopo aver redatto l’articolo. Ci ho messo un’ora ad attraversare la città. Una moltitudine molesta si è lanciata sulla strada 101. Sono riuscito a entrare per la porta di mezzo. Qualcuno ha gridato di non investirci tra noi, che dall’alto volevano che ci sterminassimo tra simili. Ci siamo messi a ridere. A volte succede. La gente all’Avana si comporta come una famiglia, è un appartamento gigante di settecento chilometri quadrati in cui non c’è nessuna vita sufficientemente lontana dall’altra perché due persone qualunque non si riconoscano anche solo guardandosi.

    L’autobus ha attraversato la galleria della baia e costeggiato l’avenida del Puerto, poi ha superato la stazione ferroviaria e proseguito verso calle Reina. Durante il tragitto sono salite e scese decine di passeggeri. Ci sono momenti in cui è quasi impossibile respirare sull’autobus. Momenti in cui ti calpestano i piedi, ti spettinano e ti colpiscono e un uomo alza il gomito senza farsi notare per infilartelo nelle costole e allontanarti un po’. I ragazzi si accertano che nessun pervertito si avvicini troppo al sedere delle loro ragazze e le donne tengono d’occhio le borsette. La cautela è percettibile, tutti sono all’erta. I passeggeri sanno che gli altri passeggeri sono loro nemici e che anche i conducenti lo sono.

    C’è anche il volontario distrofico che occupa il primo posto, a un metro dall’autista. Raccoglie il denaro e ordina come e dove dobbiamo metterci, uno sfortunato che per venti minuti o mezz’ora ha il controllo delle nostre vite e che fa sì che affiori il nostro lato oscuro e selvaggio. I furti, il sudore, lo sporco, le liti, l’asfissia, il ritardo, le piccolezze quotidiane, il consueto tran-tran. I passeggeri non sembrano avere colpa. I conducenti nemmeno.

    Di mattina presto, però, gli autobus dell’Avana sono generalmente vuoti. C’è sempre una corsa, ogni giorno, in cui i conducenti sono soli, giustificati dall’eventualità di trovare qualcuno. Però non dev’esserci necessariamente qualcuno in attesa. Dopo tanto chiasso, tanto trambusto, a cosa pensa il conducente? Vuole andare avanti così, per sempre? Cosa pensa della prima persona che sale sull’autobus a invadere il suo territorio? Come lo vede? Come un nemico? Come un balsamo? Come un sole distante?

    Il viaggio dei conducenti all’Avana è, davvero, un viaggio circolare, senza fermate, come se portassero su una roccia fino alla punta della montagna per poi lasciarla cadere. Nella strada 101, ogni conducente è stato passeggero e ogni passeggero è stato almeno una volta il volontario distrofico.

    È su questo genere di cose che meditavo, cullato dalla fisarmonica dell’autobus, prima di scendere alla fermata del periodico. Il Grandpa si trova all’angolo tra General Suárez e Territorial, un edificio di quattro piani in cui le piante si arrampicano sulle pareti e cespugli di areca si riposano dentro a vasi rettangolari in cemento. A ogni piano si notano i vetri marroni, che lo fanno sembrare un acquario oleoso, e in ogni vetro due pezzi di scotch evitano che si scheggi, se mai un ciclone dovesse passare per l’Avana. Qualcosa che per fortuna o per disgrazia non è avvenuto.

    Così conobbi la neve

    Frank Báez

    La notte in cui atterrai a Chicago la temperatura era di venti gradi sotto zero. Avevo appena lasciato la soleggiata Repubblica Dominicana per studiare statistica all’Università dell’Illinois. In quel periodo lavoravo come supervisore di sondaggi e avevo attraversato il paese facendo studi e indagini, ma prima di ricevere la borsa di studio non avevo idea che tutto quello che avevo fatto potesse essere materia di studio.

    Anche Diógenes Lamarche, un collega insieme al quale collaboravo con varie ONG, aveva ricevuto una borsa di studio. Né io né lui eravamo mai stati a Chicago. Ci era stata la mia ex, che continuava a dirmi che in mezzo alla città c’era un fagiolo gigantesco. Così, quando il pilota annunciò che stavamo per atterrare, ci incollammo al finestrino e cercammo di scorgerlo, ma riuscimmo a vedere soltanto i grattacieli e la città che risplendeva come oro. Prima di scendere dall’aereo, tornammo a guardare dal finestrino e questa volta vedemmo vari addetti coperti come eschimesi attraversare la pista, e ci domandammo se fossimo atterrati al Polo Nord.

    Recuperammo le valigie, tirammo fuori i cappotti e attendemmo Nora Bonnin, un’argentina che ci avrebbe introdotti in città. Quando ci vide ci fece dei gesti con un braccio e la prima cosa che ci chiese fu se avessimo portato dei vestiti invernali.

    Li stiamo indossando le rispondemmo.

    Non riuscì a trattenere le risate quando vide le giacche e le felpe che avevamo comprato in un centro commerciale di Santo Domingo.

    Ragazzi, questa roba non vi servirà a nulla contro il freddo. Non è che sia brutta, è solo che qui fa un freddo micidiale. Ho portato con me dei cappotti di mio marito, indossateli fino a quando non comprerete i vostri.

    Oltre alle giacche, avevamo portato anche calzini di lana, jeans di fustagno, sciarpe, berretti e quei pantaloncini lunghi attillati che i gringos chiamano long johns. Eravamo sicuri che quella roba sarebbe stata sufficiente per sopravvivere all’inverno nella città dei venti.

    Aspettatemi a quella fermata dell’autobus con le valigie, corro a prendere la macchina.

    Prima di uscire di corsa, Nora indossò i guanti, si tirò su la zip del cappotto fino a sopra il collo e si sistemò il cappuccio. La vedemmo sprintare diretta ai parcheggi. Seguendo il suo esempio, attraversammo la porta automatica e, non appena usciti, il freddo ci colpì con una tale forza da buttarci quasi a terra.

    Benvenuti a Chicago disse Nora con sarcasmo quando chiudemmo gli sportelli dell’Audi.

    Il giorno dopo ci portò a vedere vari appartamenti e alla fine decidemmo di prenderne in affitto uno con tre camere a Little Italy. Il proprietario era Pete, un degno rappresentante dei wasp, che oltre all’appartamento ci mostrò la terrazza e la lavanderia. Stipammo a fatica nell’Audi di Nora dei materassi acquistati in un negozio di Greek Town. Ordinammo, pulimmo e disinfettammo l’appartamento. Poi salimmo in terrazza a goderci la vista del quartiere e dei grattaceli del loop, che davano l’impressione di fumare e tossire.

    Cenammo in un ristorante tailandese guardando le signorine passare con sciarpe colorate e cappotti costosi. Quando tornammo nell’appartamento sembrò che fossimo entrati nella cella frigorifera di una macelleria. Nonostante avessi acceso il vetusto scaldino come ci aveva indicato Pete, l’appartamento continuava a essere gelido e non la smettevamo di tremare. A notte fonda decidemmo di spostare i materassi in sala, per stare più vicini allo scaldino che ogni mezz’ora si accendeva come per magia.

    All’alba ci rendemmo conto che il freddo filtrava da tre finestre rotte. A mezzogiorno avevamo appuntamento da Pete per firmare il contratto nel suo ufficio, avremmo sfruttato l’occasione per richiedere la riparazione delle finestre. Ma lo trovammo di pessimo umore, non fece che parlarci di Sammy Sosa e del suo incidente con la mazza di sughero. Pur essendo accaduto anni prima, il fan dei Chicago Cubs ce l’aveva ancora a morte con il dominicano, soprattutto dopo che aveva annunciato di voler lasciare la squadra. Pete, usando come esempio la mazza di legno che teneva sotto la scrivania, ci mostrò la differenza tra una mazza con l’anima in sughero e una regolamentare. Poi ricostruì minuziosamente la famosa partita dei Cubs contro Tampa Bay, quella in cui la mazza di Sammy Sosa si ruppe. Nessuno aveva dato molta importanza al fatto. Nelle partite delle leghe più importanti le mazze si rompono spessissimo. Solo che quella volta, uno degli arbitri aveva notato che tra i pezzi della mazza spuntava del sughero, così aveva radunato gli altri e insieme avevano deciso di espellerlo. Sammy fu sanzionato da un comitato e lui sì giustificò spiegando che era stata una semplice svista, visto che invece che usare la sua mazza regolamentare aveva battuto con quella usata negli allenamenti.

    Ma Pete non se l’era bevuta, e aveva tirato fuori tutta quella storia perché sicuramente non credeva nemmeno a noi che eravamo compatrioti di Sammy Sosa oltre che i suoi nuovi inquilini. Prima di firmare il contratto lo informammo del problema delle finestre e lui ci assicurò che le avrebbe fatte riparare quella sera stessa. Tuttavia, quando tornammo dopo le lezioni le finestre erano ancora senza vetri. Provammo a chiuderle con della plastica, ma il vento continuava a infiltrarsi e non potemmo fare altro se non dormire accanto allo scaldino.

    Dovemmo attendere due settimane per avere i vetri mancanti. Una mattina arrivò un nuyoricano sulla cinquantina, che salì su una sedia e smontò i vetri rotti, per poi rimontarne di nuovi con l’aiuto di un cacciavite. Quando ebbe finito gli offrii un succo di frutta.

    Che gusto è? chiese.

    Arándano.

    Che?

    Cranberry.

    Ah, beh. Da’ qua.

    Se lo bevve in due sorsate.

    "E la furnitura?" chiese.

    Furnitura?

    "Sì, il tavolo, le sedie e il couch."

    Ah sì, dobbiamo ancora comprarli.

    Lo rivedemmo una settimana dopo.

    Quisqueyanos! Quisqueyanos! ci urlava dal marciapiede.

    Che c’è? gridai quando riuscii ad aprire la finestra.

    Ho un tavolo per voi. Venite giù a prenderlo.

    Quando lo ringraziammo per il gesto, ci spiegò che lo aveva mandato Pete e che non dovevamo considerarlo un favore, visto che era incluso nel contratto. Con il tavolo e delle sedie che avevamo trovato, il look dell’appartamento migliorò. Tuttavia, ci mancava ancora il couch di cui ci aveva parlato il nuyoricano. Passammo da alcuni negozi di seconda mano ed entrammo in contatto con studenti che vendevano cose su Craigslist. I prezzi superavano di gran lunga il nostro budget limitato. Fino a che, una mattina in cui stavo stampando dei documenti nell’ufficio di Nora, Diógenes mi chiamò per dirmi che aveva trovato un couch.

    Mentre andava all’università lo aveva notato in un vicolo. Era stato amore a prima vista. Nero, in vera pelle e praticamente nuovo. Aveva chiesto a uno studente che passava di lì se quel divano appartenesse a qualcuno, e lui gli aveva risposto che se si trovava lì era perché lo avevano buttato.

    Così mi dimenticai cosa stavo stampando e corsi a dare una mano a Diógenes. Per resistere al freddo polare mi misi a correre a grandi falcate. Attraversai vie, studentati, il parco pieno di scoiattoli e la statua di un Colombo obeso come John Goodman. Una volta incrociata la Loomis, riuscii a vedere il vicolo e, poco oltre, Diógenes appoggiato al divano. Era enorme. Compresi che sarebbe stato come caricarci in spalla un ippopotamo. Ed eravamo a più di quattro isolati dal nostro palazzo.

    Sull’isola uno di questi costa ventimila pesos dissi prima di lanciarmici sopra.

    Ma sei matto? Vale molto di più! rispose Diógenes. Quarantamila pesos!

    Ci preparammo a trasportarlo. Prima di prenderlo ognuno da un’estremità, stirammo e flettemmo i muscoli.

    Uno, due, tre gridammo all’unisono.

    Lo trasportammo per soli quattro metri.

    Per arrivare al palazzo ci vorrà una settimana.

    A quanto pare sì risposi senza fiato.

    Dopo svariati tentativi, arrivammo fino all’ingresso del vicolo che portava al nostro palazzo. Eravamo a quasi novanta metri. Sfiniti, ansimavamo e discutevamo su dove lo avremmo disposto nell’appartamento. Eravamo messi così quando si avvicinò una coppia di anziani, sicuramente discendenti degli immigranti italiani che fondarono il quartiere.

    I proprietari mormorò Diógenes.

    L’anziana se ne restò a distanza, mentre il vecchio diede una botta al mobile con il bastone e chiese, guardandoci con gli occhi verdastri da matto:

    You guys aren’t gonna leave that there, are you?

    Spiegammo che volevamo portarlo nel nostro appartamento ma l’anziana ebbe un attacco di tosse. Lo prendemmo come un segnale per riprovare a spostarlo. Questa volta avanzammo di sette metri. Poi sentimmo della musica ranchera sparata a tutto volume, seguita da una frenata e da un colpo di clacson. Al successivo colpo di clacson, appoggiammo a terra il divano e ci voltammo.

    Questo dev’essere per forza il proprietario dissi a Diógenes.

    Il conducente del furgoncino spense la radio, abbassò il finestrino e ci chiese in spagnolo se ci servisse una mano.

    Lo dobbiamo portare fino al palazzo che sta in fondo al vicolo spiegò Diógenes.

    Forza, prendetelo. Mettetelo dentro!

    Ci aiutò a metterlo nel retro del furgone. In meno di un minuto, lo scaricammo davanti al nostro palazzo.

    Mi chiamo Jesús disse il conducente.

    Ma non cogliemmo alcun segnale religioso nel suo nome né nel modo in cui ci aveva dato una mano. Più che altro, notammo subito la forte somiglianza con Quico, il personaggio della serie Chavo del ocho. Al posto di un cappello invernale indossava un berretto dei White Sox. Non appena gli dicemmo che eravamo dominicani iniziò a elencarci le sue bachatas preferite.

    A che piano state? chiese all’improvviso.

    Al terzo rispose Diógenes.

    "Cazzo vorrei darvi una mano, ma devo fare una delivery." Lavoro al ristorante messicano.

    Il Pancho Villa? domandai.

    Esatto.

    Allora ci vediamo lì rispose Diógenes.

    Sistemammo il divano in sala verso le cinque. Dall’istante in cui Diogene lo aveva visto in un vicolo al momento in cui riuscimmo a metterlo nell’appartamento, erano trascorse sette ore. Avevamo fatto anche una pausa per mangiare e, come Diógenes aveva promesso a Jesús, eravamo andati al Pancho Villa, a ordinare dei burritos giganti che innaffiammo con la Coca-Cola. Quando chiedemmo di Jesús alla cameriera, lei rispose che si occupava delle delivery e che dava una mano in cucina.

    Mi chiamo María, al vostro servizio.

    Stiamo passando una giornata assurda disse Diógenes tra i denti.

    Come dici?

    Niente, risposi. Jesús ci ha dato una mano a trasportare un divano nel nostro appartamento.

    Ah, ce l’avete fatta?

    Per ora siamo arrivati al secondo piano.

    Invece di portarci il conto, María tornò con dei burritos rimasti avvolti in un pacchetto. Quando le chiedemmo perché, disse che dovevamo risparmiare per comprare dei libri.

    Costano un occhio della testa, aggiunse.

    Prima di sparecchiare ci consigliò di portare su il divano il prima possibile, perché su Telemundo avevano detto che quella notte era prevista la prima nevicata dell’anno. Così tornammo dal divano e, dopo vari tentativi infruttuosi, raggiungemmo il terzo piano. Pensammo che sarebbe stato impossibile farlo passare per la porta di cucina, ma con molta determinazione e l’aiuto dei nostri vicini indù, ci riuscimmo.

    Ormai notte, mi sedetti sul divano con una bottiglia di rum in mano. Era l’ultima che avevamo. Me ne ero portate molte da regalare, ma dato che non avevo conosciuto nessuno degno di riceverle, me le stavo bevendo io. Diógenes friggeva qualcosa in cucina. Da lì indicò il divano e disse che eravamo come quei cavernicoli che passavano il giorno a cacciare e che tornavano alla caverna trascinando la preda. Era così che mi sentivo, come uno di quei lontani antenati, bevendo rum dalla bottiglia e guardando la sala, la cucina e il pavimento che avevo spazzato e ripulito con una spugna per togliere lo sporco. Nonostante la mancanza di ornamenti e di quadri alle pareti, provai per la prima volta la sensazione di avere una casa a Chicago. Andai in camera mia e cercai la musica che mi ero portato, ma trovai soltanto un cd masterizzato di Raulín Rodríguez che mio zio mi aveva messo in valigia per non scordarmi le mie origini.

    Non appena partì la prima bachata iniziò a nevicare. Era la prima volta che io e Diógenes vedevamo la neve. All’inizio caddero pochi fiocchi, ma quando Diógenes aprì la finestra, cominciò a scendere per davvero. Presto si accumulò sui marciapiedi, sulle vie e sui tetti. Quando Diógenes propose di uscire a giocare con la neve, mi ero scolato tutta la bottiglia. Cercai il cappotto e andai con lui.

    Forse un animale

    Natalia Borges Polesso

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