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Storie di letteratura e cecità: Borges, Cabral, Joyce
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Storie di letteratura e cecità: Borges, Cabral, Joyce
E-book179 pagine1 ora

Storie di letteratura e cecità: Borges, Cabral, Joyce

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STORIE DI LETTERATURA E CECITÀ è un ibrido tra saggio e narrativa. A partire dalla vita e dalle opere degli scrittori Jorge Luis Borges, João Cabral de Melo Neto e James Joyce, Julián Fuks riunisce piccoli frammenti di vita di ciascuno degli autori, che condividono il tema della cecità, precoce o tardiva. Scene della creazione di poesie, racconti, saggi e romanzi sono affrontate in modo insolito e originale, come una narrativa che racconta un’altra narrativa. Nelle parole dell’autore, “ciò che queste storie trasmettono è l’esistenza di un rapporto molto personale, privato e particolare con la cecità. C’è chi riesce a rendere tale condizione quasi un attributo, una condizione che offre una peculiarità (e pertanto quasi apprezzabile, in un mondo così omogeneo) e chi si lascia abbattere dalle impossibilità che provoca, senza mai riuscire a superare tale frustrazione”.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2017
ISBN9788899958008
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    Anteprima del libro

    Storie di letteratura e cecità - Julián Fuks

    Note

    Prologo necessario

    Le storie devono essere raccontate, devono essere lette, devono essere ascoltate. Le storie sono snaturate quando vengono rinchiuse nelle pagine di un libro che si perde nelle file infinite di una biblioteca. Sono snaturate quando vengono relegate in una valigetta che non verrà più aperta. Sono snaturate quando, pur essendo visibili, si lasciano dimenticare in un angolo di un tavolo in disordine, o in una pila sul comodino. Sono snaturate anche quando la mano dell’autore si interrompe a metà, nel bel mezzo di una frase, non ritenendo che in esse si celi alcuna letteratura. Sono snaturate, senza scopo alcuno, quando nessuno le vede, quando nessuno le immagina, quando nessuno compie alcunché dell’atto, del fatto, del pensiero.

    Un foglio che nella camera vuota, alzatosi per il vento, si stacca dalla scrivania e finisce per distendersi sul pavimento, per ricorrere a una metafora, esiste nello spazio, ma è privo di occhi che ne testimonino l’esistenza. Non sarà una storia se nessuno assisterà a quelle ondulazioni in aria, alle ascensioni e cadute riluttanti, se nessuno comprenderà le oscillazioni e gli ulteriori fenomeni propri di quel foglio e di quel vento. Analogamente, un corpo non sarà un corpo che attraversa un corridoio — come quello di un disteso Borges, di un esile Joyce o di un fragile João Cabral — se la mente che si colloca al suo interno non è attenta al ritmo dei passi compiuti, allo spostamento graduale dei piedi e delle ginocchia, all’equilibrio dei fianchi. E anche se in quell’istante fosse un corpo, non sarà una storia se quella mente non badasse a ricordarsi dei passi e, una volta svanita, non li trasformasse in parole e lettere, o magari in suoni. Non sarà una storia, di nuovo, se un’altra mente non la adotterà come tale e non porterà a termine gli stessi passaggi.

    Le storie sono tanto passeggere quanto ripetitive, oppure si ripetono solo per non accettare la transitorietà della propria esistenza. Questo foglio già citato, questo stesso foglio, non avendo io recitato i versi tracciati al suo interno, è già decollato un numero infinito di volte dal tavolo e per infinite volte si è già disteso sullo stesso pavimento. La varietà di parole utilizzate per descrivere questo movimento fa sì che si scinda in diverse storie che tuttavia non saranno mai infinite. In un qualche momento del processo narrativo, considerandolo come atto collettivo, non sono importanti le parole prese in prestito per descrivere il foglio, esso tornerà a essere lo stesso foglio nella stessa storia, dato che le sue ondulazioni, per lo meno ai nostri occhi, saranno le stesse di qualsiasi altro volo.

    Quanto al corpo, la variabilità delle informazioni acquisite in quel movimento sarà maggiore rispetto al foglio, sia per una questione matematica — più possibilità di combinazione tra elementi — sia per il fatto che un corpo non sarà mai uguale a un altro, e il camminare di João Cabral o di Borges non sarà mai quello di Joyce, considerando tutte le possibili variazioni. Tali corpi dovranno affrontare le pene di un’altra restrizione: la finitezza delle parole necessarie per descriverli. Poiché, se non sono finite le metafore aleatorie e le elucubrazioni della mente, lo sono le buone metafore e le elucubrazioni adatte. Quello che voglio dire è che le parole, e tutto ciò che si può costruire con esse, sono infinite solo al netto della dose di coerenza e verosimiglianza a loro tanto cara, o di qualsiasi dose di bellezza.

    Tali limitazioni, affiancate alla vertigine che provoca l’insorgere eterno delle storie e la loro scomparsa così improvvisa, possono essere fonte di disperazione per lo scrittore dilettante, intimidito davanti al foglio bianco. Non saranno poche le volte in cui si arrenderà a storie prive di interesse — in generale, giudicandole straordinarie — o in cui le affonderà con parole che ritiene inedite, originali ma che trasmettono tale impressione solo in quanto generalmente inappropriate. Di contro, il bravo scrittore è cosciente del carattere ineluttabile di tali limitazioni, pertanto — a differenza di quanto si potrebbe immaginare — fa sua la leggerezza e non il peso della sconfitta annunciata: si libera dell’obbligo di sorprendere e passa ad avere al suo servizio tutte le storie banali e tutte le parole banali mai spedite per il mondo.

    Ciononostante — e qui le sinuosità di questo prologo raggiungono il culmine — nulla impedisce a uno scrittore dilettante (con ambizioni di diventare un bravo scrittore) di avvalersi della leggerezza e della libertà raggiunte da altri, questi sì bravi scrittori. Niente glielo impedisce perché, se le storie e le parole per raccontarle sono finite, non ha senso stabilire una proprietà sul loro utilizzo, a meno di non desiderare, in un futuro prossimo o distante, la fine di ogni possibile letteratura che combatta tale proprietà. Pertanto, vale la pena prescindere almeno in parte dal carattere assoluto della condizione di autore, in modo da dare un qualche riconoscimento, grande o piccolo che sia, all’autore-plagiario.

    Non mi riferisco ai criminali, ai soggetti privi di scrupoli, né a una nuova categoria di astuti ladri di lettere. Parlo di chi, con pudore e coscienza, prende in prestito un’espressione che lo seduce, si permette di inserire la parola abituale di un altro in mezzo alle proprie, si concede di riposizionare una buona frase qua, un’idea interessante là, nella misura esatta affinché esprimano tutto ciò che egli non è riuscito a dire, e nulla più. In altre parole, parlo di chi — nel bel mezzo di storie che ricostruisce, adatta o inventa — adotta le soluzioni di chi ammira, ben sapendo che la propria narrativa imprecisa e traballante non le avrebbe mai incontrate.

    È giusto che l’autore ne tragga un valore, dato che non è piccola la funzione che compie, né sono poche le storie racchiuse nelle pagine di libri che si perdono nelle file infinite delle biblioteche, le storie relegate in valigette mai più aperte e le storie che si lasciano dimenticare in un angolo di un tavolo in disordine, o in una pila sul comodino.

    Per quanto riguarda le cecità, caro lettore, se le prendo come piacevole filo conduttore e pretesto prezioso per i ritratti che sto per iniziare, non è per l’incapacità che provocarono ai tre di vedere i fogli cadere a terra o i corpi attraversare i corridoi ma perché, raccontate, devono essere storie.

    Il lettore incapace di contenere la curiosità di fronte a espressioni e frasi già lette potrà consultare alla fine del libro un elenco dettagliato di riferimenti. A chi si preoccupa dalla precisione delle informazioni o del grado di veridicità di quanto narrato, si raccomanda di non preoccuparsi o di chiudere il libro: in queste pagine c’è spazio per ciò che si è convenuto chiamare reale, ma anche per le speculazioni del probabile e i limiti del possibile. In mancanza di uno qualsiasi di questi elementi, si è fatto ricorso al verosimile, tanto caro alle opere di narrativa.

    Borges

    I

    Lo squillo stridente del telefono assale il silenzio, attraversa le pareti e provoca successivi echi, inudibili. Molecola dopo molecola, si trascina per l’aria sonnolenta fino ad arrivare, senza carezze contrastanti, alle orecchie del professor Jaime Alazraki. Solo quando dà per terminata la sua frase più recente, relativa a un saggio su Borges per un’enciclopedia latino-americana, si decide a intraprendere il movimento in senso contrario a quello del suono intermittente, per restituire infine il silenzio all’aria.

    È successo, Jaime. È morto. È quanto gli annuncia la voce inerme di María Kodama, prescindendo da eventuali dettagli e facendogli ritirare la prima risposta che gli affiora alle labbra. Mormora qualche frase triviale, interrotta, che non verrà registrata in alcuna memoria, poi si vede solitario nella sera di Barcellona. Borges è ora un corpo inutile, come mai fu possibile immaginarlo. Nella sua mente, non si sottrae alcun pensiero, non si diffonde alcuna parola. Ha senso che sia morto, trasformato com’era in un signore pallido e grigiastro, investito dai suoi riconoscibili 86 anni.

    Quando si fa buio, Alazraki si trova già a Ginevra, dove il corpo verrà vegliato. Guarda le proprie scarpe percorrere a stento la strada che avevano attraversato un mese prima, durante il suo più recente incontro con lo scrittore. L’ultimo, comprende, nella sera nuvolosa in cui camminò per le strade di Ginevra in direzione dell’hotel in cui alloggiavano Borges e la Kodama. Si ricorda di come, a passi lenti, attraversò la città ai margini del verde Rodano, tentando di sentirla come Borges. Osservò piazze, guardò gli alberi, misurò archi, cortili e ogni ponte diverso dall’altro, per poi comprendere che Borges non poteva percepirli allo stesso modo. Chiuse gli occhi e continuò a camminare per quanto poteva, tastando le pareti aspre e facendo attenzione ai rumori, agli odori, ai venti e alle temperature.

    Sempre che le sue palpebre, tendine a coprire lo scenario, non lo stessero ingannando: quella non era più la Ginevra di Borges. Per lo scrittore Ginevra, così come la sua Buenos Aires, era una città antica, priva dei rumori e degli strepiti tipici delle tecnologie più recenti. Era quella dove aveva passato i suoi anni di gioventù, a fianco dei suoi compagni di collegio e dove aveva fatto le sue letture più importanti, da Verlaine a Virgilio, come avrebbe scoperto e confessato con il passare dei decenni. Quella era la Ginevra di Borges, quella del 1919, l’ultima che vide. Quando vi ritornò, mezzo secolo dopo, ormai non vedeva più e la città si mostrava identica agli altri sensi.

    Jaime Alazraki batte le nocche delle dita contro una porta dell’hotel L’Arbalète. In quella seconda occasione, nessun passo si lascia ascoltare dall’altro lato, e solo più tardi verrà informato del trasferimento di Borges e della Kodama tre giorni prima del decesso. Davanti alla porta ocra, gli occhi si fissano contro il legno scuro, e quel cerchietto di vetro che non lascia intravedere nulla gli è quasi sufficiente per osservare ciò che era avvenuto un mese prima. La Kodama

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