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E-book235 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Il regalo più grande, che una madre fa a un figlio, è quello di accompagnarlo a nascere, ma il regalo più importante che facciamo a noi stessi è quello della scelta più opportuna. Tratto da un storia vera, narrata all’autore, questo libro vi sorprenderà per quanto vi rivelerà sulla vita. Siamo certi che viviamo sempre nel presente e che il passato non esista più? Sapete quanto sia determinante, per la vita o...
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2019
ISBN9788831651691
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    Anteprima del libro

    La scelta - Raffaele Spera

    633/1941.

    Introduzione

    Viag­gia­vo sen­za me­ta, la­scian­do die­tro di me il mio pas­sa­to, non po­te­vo an­nul­lar­lo, ne rin­ne­gar­lo, ma do­ve­vo ab­ban­do­nar­lo, non mi ap­par­te­ne­va più. La mia au­to an­da­va ad an­da­tu­ra so­ste­nu­ta, con me so­lo la mu­si­ca che ama­vo, ave­vo la­scia­to die­tro ogni ri­cor­do. La mia non era una fu­ga ma un viag­gio ver­so qual­co­sa, che avreb­be ri­da­to un si­gni­fi­ca­to al­la mia pre­sen­za in que­sta real­tà. Vo­le­vo po­ter ca­pi­re il si­gni­fi­ca­to di que­sta pa­ro­la che mi ac­com­pa­gna da sem­pre, real­tà. La mia vi­ta mi ap­par­tie­ne, e nes­su­no po­trà mai dir­mi co­sa c’è ol­tre il li­mi­te del rea­le. Io vo­le­vo sco­prir­lo, ed ero pron­to a tut­to, pur di vi­ve­re que­sta espe­rien­za che mi avreb­be cam­bia­to la vi­ta. In que­sta not­te il­lu­mi­na­ta so­lo dai so­li­ti pen­sie­ri, re­sto spen­to, chiu­so, a re­spi­ra­re pia­no l’aria di un mag­gio, fred­do e spo­glio, co­me me. Mi fer­mo den­tro que­sta not­te mai dav­ve­ro so­lo, una mu­si­ca mi av­vol­ge, non mi ri­tro­vo mai do­ve mi la­scio, è trop­po tem­po che ca­sa non è più ca­sa, è trop­po tem­po che io non so­no più io. La mia mu­si­ca è dol­ce, pio­ve ma nes­su­no sen­te, nes­su­no sa. Gui­do per tor­na­re ma mi tro­vo al­tro­ve, sen­za stra­de e sen­za por­te, e quel­lo che mi tor­na, non ha più ani­ma, per­ché non ha brac­cia cui tor­na­re.

    Capitolo I

    Viag­gia­re è bel­lo per­ché è sco­pri­re nel ri­sco­prir­si, co­no­sce­re nuo­vi oriz­zon­ti, nuo­ve abi­tu­di­ni, al­tre per­so­ne … ma­ga­ri ri­tro­var­si. Viag­gia­re co­steg­gian­do la ri­va del ma­re è fan­ta­sti­co, il suo co­lo­re, il suo mo­vi­men­to si­nuo­so, ele­gan­te, sen­sua­le, mi ren­de il viag­gio co­me una pas­seg­gia­ta. Por­ta via i miei pen­sie­ri e re­cu­pe­ra un sor­ri­so dal mio pro­fon­do, è co­me scor­re­re un rio che viag­gia ver­so il suo fiu­me e di lì al suo del­ta. Que­sta è la vi­ta di ognu­no di noi, si na­sce goc­cia, lim­pi­da e pu­ra ma non si sa mai, do­ve sfo­ce­re­mo e co­sa ne sa­rà del­la no­stra pu­rez­za. Ro­ber­to Sen­si, co­steg­gia­va il ma­re sen­za una me­ta ben de­fi­ni­ta, per ades­so ave­va nel­la sua ani­ma un so­lo mo­do di vi­ve­re quel viag­gio, la ri­cer­ca del­la real­tà. Un con­cet­to per nien­te astrat­to, ma in to­ta­li­ta­ria espres­sio­ne, in­ti­ma­men­te con­nes­sa con il suo Se in­te­rio­re. Una de­fi­ni­zio­ne, da una pri­ma let­tu­ra al­quan­to com­ples­sa, ma è tut­to dif­fi­ci­le quan­do non sap­pia­mo in­ter­pre­ta­re le pa­ro­le. Ro­ber­to era so­lo, si la­scia­va al­le spal­le un pas­sa­to, un mon­do, sto­rie che lo ave­va­no se­gna­to, ma­tu­ra­to, for­gia­to, ma non tra­sfor­ma­to, lui era sem­pre la stes­sa per­so­na con i suoi pro­po­si­ti, le sue am­bi­zio­ni, i suoi so­gni che non ave­va mai com­pre­so e che an­co­ra rin­cor­re­va. Que­sta era la sua for­za, cre­de­re in se stes­so. Viag­gia­re di not­te è an­che pia­ce­vo­le, ma quan­do la stan­chez­za si fa sen­ti­re, è buo­na abi­tu­di­ne ral­len­ta­re e fer­mar­si al pri­mo au­to­grill per un buon caf­fè, il buo­no è sem­pre un toc­co di spe­ran­za, il caf­fè è uno dei se­gre­ti del pia­ce­re. Par­cheg­giò la sua au­to e si av­viò al bar dell’au­to­grill, era­no le due e cin­quan­ta­set­te di not­te, su di un’au­to­stra­da qual­sia­si, di un po­sto qua­lun­que. En­trò e si por­tò al­la cas­sa sen­za nean­che guar­da­re chi ci fos­se, quan­do un pro­fu­mo at­ti­rò uno dei suoi sen­si e si gi­rò per per­ce­pir­ne le ori­gi­ni e la no­tò. Fa­scia­ta in un tu­bi­no ele­gan­te, co­sto­so, co­me le scar­pe e il pro­fu­mo am­bra­to e spe­zia­to che gli sol­le­ti­ca­va le na­ri­ci, non gli pa­re­va il ti­po di don­na che se ne an­da­va in gi­ro di sa­ba­to not­te con det­ta­gli fuo­ri po­sto. Lo in­cu­rio­si­va, era co­me una lu­ce che ri­schia­ra­va il buio e lo at­trae­va a sé, su­sci­tan­do in lui la sen­sa­zio­ne di es­se­re null'al­tro che una pic­co­la e in­si­gni­fi­can­te fa­le­na il cui de­sti­no era or­mai già scrit­to. Av­ver­ti­va per­si­no il ca­lo­re e lo sfri­go­lio del fuo­co sul­le ali. Per quan­to, a pen­sar­ci be­ne, la sco­no­sciu­ta era una crea­tu­ra che ap­par­te­ne­va al­le te­ne­bre più che al­la lu­ce: la por­ta­va den­tro, co­me la not­te più cu­pa e tor­bi­da.

    In­sie­me al caf­fè de­ci­se di pren­de­re una bot­ti­gli­na di ac­qua na­tu­ra­le e di se­der­si in un ta­vo­lo at­ti­guo, a quel­lo di quel­la don­na. Vo­le­va so­lo os­ser­var­la, pe­ne­tra­re nei suoi pen­sie­ri, sco­prir­la sen­za sve­stir­la, era una sua am­bi­zio­ne da sem­pre, quel­la di ca­pi­re gli al­tri, sen­za nul­la nuo­ce­re o in­ter­fe­ri­re nel­la lo­ro vi­ta. Sor­seg­gia­va il caf­fè, aspi­ra­va con le na­ri­ci il suo pro­fu­mo e si de­li­zia­va la vi­sta am­mi­ran­do­la, ma sen­za far­le pe­sa­re nul­la, era già og­get­to di trop­pi sguar­di, per nul­la in­ge­nui e per nien­te in­cu­rio­si­ti … la spo­glia­va­no con gli oc­chi. La lo­ro cu­rio­si­tà era il suo cor­po, non il suo con­te­nu­to. La­sciò che il tem­po gli sci­vo­las­se fra i pen­sie­ri, la­scian­do­si viag­gia­re al­la ri­cer­ca di una di­men­sio­ne in cui, non si sa­reb­be più po­sto do­man­de, aven­do scel­to di vi­ve­re sen­za tem­po, sen­za luo­go, sen­za pia­ni­fi­ca­re la sua vi­ta. Lan­ciò un ul­ti­mo sguar­do al­la si­len­zio­sa, don­na, bru­na, con ca­pel­li ca­sta­ni scu­ri, lab­bra pen­nel­la­te, sul suo vi­so ova­le, con oc­chi da gia­gua­ro, adat­ta­ti al­la vi­ta not­tur­na, aspi­rò il suo pro­fu­mo e si al­zò per por­tar­si ver­so l’usci­ta. All’im­prov­vi­so il cie­lo di­ven­ne cu­po e sì il­lu­mi­nò a gior­no, uno die­tro l’al­tro una se­rie di ful­mi­ni e di lì a po­co i tuo­ni, a rul­lo di tam­bu­ro per av­vi­sa­re, che un for­te tem­po­ra­le era al­le por­te, per cui do­po aver rag­giun­to la por­ta dell’usci­ta, Ro­ber­to de­si­stet­te e tor­nò in­die­tro. Era il mo­men­to me­no adat­to per ri­par­ti­re.

    Uno de­gli ad­det­ti all’au­to­grill, no­tan­do la sua in­de­ci­sio­ne gli dis­se:

    «Se vuo­le, può so­sta­re e ri­par­ti­re do­ma­ni mat­ti­na con cal­ma, ab­bia­mo del­le ca­me­re, sa­rà cer­ta­men­te un tem­po­ra­le for­te e viag­gia­re, non è la co­sa mi­glio­re in que­sto mo­men­to.»

    «La rin­gra­zio, vor­rei at­ten­de­re an­co­ra un po’ per ve­ri­fi­ca­re se è il ca­so o me­no, al­tri­men­ti se­guo il suo con­si­glio.» Ri­spo­se Ro­ber­to men­tre ri­tor­na­va al ta­vo­li­no da do­ve si era al­za­to e ne ap­pro­fit­tò per chie­de­re una taz­za di or­zo, an­che se suo­na­va stra­no do­po un caf­fè.

    La si­gno­ra sor­seg­gia­va una taz­za fu­man­te di un qual­co­sa dal co­lo­ri­to scu­ro. Ave­va un vol­to de­ci­so, uno sguar­do im­per­tur­ba­bi­le, e sem­bra­va es­se­re pre­sen­te so­lo fi­si­ca­men­te, per­ché tut­to quel­lo che ac­ca­de­va non lo av­ver­ti­va, a giu­di­ca­re dal­la sua sta­ti­ci­tà emo­ti­va. Ema­na­va un fa­sci­no mi­ste­rio­so, che non la ren­de­va per nien­te an­ti­pa­ti­ca, tutt’al­tro mol­to in­te­res­san­te.

    Io la os­ser­va­vo sal­tua­ria­men­te, men­tre mi ri­scal­da­vo lo sto­ma­co con quel­la taz­za di or­zo, la tem­pe­ra­tu­ra era crol­la­ta im­prov­vi­sa­men­te e il mal­tem­po non sem­bra­va pre­sa­gi­re nien­te di buo­no. La scel­ta mi­glio­re era so­sta­re e ri­po­sa­re, ma pri­ma di far­lo m’in­cu­rio­si­va quel­la don­na, che ci fa­ce­va tut­ta so­la qui, for­se aspet­ta­va qual­cu­no?

    Le do­man­de sen­za ri­spo­sta era­no odio­se per Ro­ber­to, sa­reb­be sta­to più uti­le fre­na­re la sua cu­rio­si­tà, an­che se non era una sua pre­ro­ga­ti­va, ma in quel mo­men­to le sue at­ten­zio­ni era­no ri­vol­te a quel­la don­na. Il tem­po scor­re­va ve­lo­ce­men­te e il tem­po­ra­le, sem­bra­va se­dar­si, la­scian­do pre­sa­gi­re un mi­glio­ra­men­to a bre­ve del­le con­di­zio­ni cli­ma­ti­che. Il suo or­zo era fi­ni­to da un po’, ma lui mec­ca­ni­ca­men­te con­ti­nua­va por­ta­re la taz­za, vuo­ta, dell’or­zo al­le sue lab­bra e ci vol­le­ro più ten­ta­ti­vi per ren­der­si con­to, che era vuo­ta. La sua men­te era co­me svuo­ta­ta, il tem­po era una co­stan­te as­sen­te per lui, che ri­fiu­ta­va di guar­dar­si in­die­tro per­ché sa­pe­va che la sua vi­ta era da qual­che par­te, avan­ti a lui, an­che se non sa­pe­va esat­ta­men­te do­ve, ma c’èra.

    «Il tem­po­ra­le sem­bra pas­sa­to, or­mai ci stia­mo tro­pi­ca­liz­zan­do.» Ro­ber­to lan­ciò que­sta fra­se, men­tre fin­se di fi­ni­re di svuo­ta­re la sua taz­za, vuo­ta. Un ten­ta­ti­vo fu­ti­le, di rom­pe­re il si­len­zio con quel­la mi­ste­rio­sa don­na, che non rac­col­se e con­ti­nuò a es­se­re co­me as­sen­te nel­la sua pre­sen­za.

    «La cu­rio­si­tà non mi è mai ap­par­te­nu­ta, ma vor­rei es­se­re par­te dei suoi pen­sie­ri, per fa­re il suo viag­gio.»

    Esor­dì all’im­prov­vi­so Ro­ber­to ri­vol­gen­do­si al­la si­gno­ra con tu­bi­no ne­ro fa­scia­to, che al­la do­man­da di Ro­ber­to, non si scom­po­ne per nul­la, lo guar­dò con in­dif­fe­ren­za e sen­za espri­me­re nul­la sul suo vi­so gli ri­spon­de:

    «Ognu­no di noi ha una sua stra­da da per­cor­re­re, io ho la mia, lei va­da per la sua. Ho già fat­to il pie­no del­la mia vi­ta, se avan­za qual­co­sa, glie­lo ce­do vo­len­tie­ri ma non so­no al­la ri­cer­ca di nul­la, sto be­ne con me stes­sa. Ora se mi vuo­le scu­sa­re, le sa­rei gra­to se non m’im­por­tu­nas­se più.»

    «Vo­glia­te scu­sar­mi, non in­ten­de­vo re­car­le al­cun fa­sti­dio. Pen­so di es­se­re sta­to frain­te­so nel­le mie in­ten­zio­ni. Io ri­pren­do la mia stra­da, il tem­po è mi­glio­ra­to, an­che se non so do­ve mi con­dur­rà e nean­che m’in­te­res­sa.»

    Ro­ber­to si con­ge­dò e si av­vio ver­so l’usci­ta, do­po aver ri­spo­sto con to­no sec­co ma gar­ba­to al­la mi­ste­rio­sa don­na. Ave­va ap­pe­na mes­so la ma­no de­stra sul­la bar­ra an­ti­pa­ni­co di aper­tu­ra, quan­do sen­tì un ru­mo­re die­tro di se e si gi­rò di scat­to, per ve­de­re chi ci fos­se che lo sta­va se­guen­do, con stu­po­re no­tò la don­na con tu­bi­no, che si sta­va av­vi­ci­nan­do a lui con una ma­no te­sa.

    «Vo­glia scu­sar­mi, per la mia ri­spo­sta ma l’edu­ca­zio­ne è una ca­rat­te­ri­sti­ca di po­chi e vi­ven­do con­ti­nua­men­te in di­fe­sa, non si con­si­de­ra più chi ti ri­vol­ge la pa­ro­la per uno scam­bio di opi­nio­ni, da chi cer­ca di ri­mor­chiar­ti. Mi chia­mo Ali­ce Rea­le.»

    «Io Ro­ber­to Sen­si, mi di­spia­ce per l’equi­vo­co e so­no con­ten­to che ci sia­mo chia­ri­ti.»

    «La rin­gra­zio, ci te­ne­vo a dir­glie­lo, l’ho os­ser­va­ta men­tre sor­seg­gia­va la sua taz­za d’or­zo, che è la mia be­van­da pre­fe­ri­ta.»

    «Le con­fes­so che la os­ser­va­vo, men­tre era con la men­te che spa­zia­va per chis­sà do­ve.»

    Ri­spo­se Ro­ber­to ab­boz­zan­do un sor­ri­so, per ad­dol­ci­re il to­no del­la con­ver­sa­zio­ne.

    «Mi pia­ce viag­gia­re e spes­so m’iso­lo dal­la real­tà in cui so­no tem­po­ra­nea­men­te pre­sen­te e mi la­scio an­da­re, sen­za ren­der­me­ne con­to. Po­co fa era uno di que­sti mo­men­ti.»

    Ri­spo­se Ali­ce, ri­cam­bian­do il sor­ri­so ma non sen­za un lie­ve mor­so al lab­bro in­fe­rio­re. Det­ta­glio che non sfug­gi a Ro­ber­to, che la os­ser­va­va con am­mi­ra­zio­ne.

    «Il no­stro er­ro­re è guar­dar­ci die­tro, ci li­mi­tia­mo e fre­nia­mo il no­stro de­si­de­rio mag­gio­re … la sco­per­ta.  Le chie­do scu­sa ma po­trem­mo con­ti­nua­re que­sto no­stro dia­lo­go, se­du­ti da­van­ti a una bel­la ti­sa­na, vi­sta l’ora tar­da.» re­pli­cò Ro­ber­to.

    «Ot­ti­ma idea, ma du­bi­to che pos­sa­no ave­re una ti­sa­na di mio gra­di­men­to per cui le pro­pon­go una nuo­va taz­za d’or­zo, co­sì non re­ste­re­mo de­lu­si en­tram­bi.»

    Ali­ce e Ro­ber­to, si por­ta­ro­no al ta­vo­li­no, do­ve pri­ma era se­du­ta lei, c’èra an­co­ra la sua taz­za d’or­zo vuo­ta sul ta­vo­li­no. Ro­ber­to or­di­nò due taz­ze d’or­zo che lui per­so­nal­men­te por­tò al ta­vo­li­no chie­den­do ad Ali­ce se gra­di­va qual­che dol­ci­no di pa­sta frol­la, che non fu ac­cet­ta­to.

    «Ali­ce, le di­spia­ce se ci dia­mo del tu?» Ro­ber­to con to­no cal­mo.

    «Nes­sun pro­ble­ma Ro­ber­to, sia­mo ab­ba­stan­za adul­ti da po­ter ge­sti­re le no­stre scel­te.»

    «Gra­zie Ali­ce, ri­co­no­sco di es­se­re un per­fet­to sco­no­sciu­to, ma mi ri­ten­go an­che una per­so­na mol­to af­fi­da­bi­le. Mi so­no fer­ma­to a que­st’au­to­grill per ca­so, uno va­le­va l’al­tro per me, so­no in viag­gio da al­cu­ne ore, sve­glio da que­sta mat­ti­na pre­sto, quan­do mi so­no al­za­to e non ho tro­va­to più me stes­so nel­la real­tà, che vi­ve­vo. Ho sti­pa­to il ne­ces­sa­rio in un trol­ley, aper­to la por­ta e an­da­to via. Do­ve non lo so an­co­ra, ma lo sco­pri­rò viag­gian­do, una co­sa ne so­no cer­to, de­vo tro­va­re la mia iden­ti­tà di vi­ta.»

    «Hai fat­to una sin­te­si per­fet­ta, in po­che pa­ro­le dei tuoi pro­get­ti e con­si­de­ran­do che il tem­po è il no­stro ne­mi­co, di­rei che hai avu­to un bel co­rag­gio per cam­bia­re la tua vi­ta, sem­pli­ce­men­te gi­ran­do la pa­gi­na di un li­bro.» Re­pli­cò Ali­ce.

    «Esat­ta­men­te! La vi­ta ci do­na sem­pre, in qual­sia­si istan­te la pos­si­bi­li­tà di cam­bia­re, sta a noi sce­glie­re o con­ti­nua­re. La mia è una fi­lo­so­fia per­so­na­le, che non im­pon­go a nes­su­no, si può cam­mi­na­re da so­li o in com­pa­gnia, ba­sta sce­glie­re.»

    «Tu co­sa hai scel­to.» Ri­spo­se con uno sguar­do si­bil­li­no Ali­ce, ac­ca­val­lan­do le gam­be e gio­can­do con una cioc­ca dei suoi ca­pel­li men­tre lo fis­sa­va ne­gli oc­chi, per scru­tar­lo den­tro.

    «Ti con­fes­so che al mo­men­to viag­gio da so­lo, quel­lo che ac­ca­drà non lo so e non me lo do­man­do, sa­rà al mo­men­to che fa­rò le mie scel­te, ho cam­bia­to ot­ti­ca del­la mia vi­ta. Una vi­ta sche­ma­ti­ca, pro­gram­ma­ta, sta­ti­ca, non era più per me, era ar­ri­va­to il mo­men­to di cam­bia­re, per co­sa, non lo so ma lo sco­pri­rò.»

    «Mo­stri co­rag­gio, ed è lo­de­vo­le ma in fon­do ti ca­pi­sco. Io ero qui per mo­ti­vi di­ver­si, di cui non amo par­lar­ne e sta­vo ri­flet­ten­do, sul mio vis­su­to e guar­da ca­so in­con­tro te, che sei un pas­so da­van­ti a me … tu hai fat­to la scel­ta che mi man­ca­va.» Ri­spo­se Ali­ce, la­scian­do li­be­ra la cioc­ca di ca­pel­li con cui gio­ca­va.

    «Vuoi dir­mi che io ti ho aiu­ta­to a sce­glie­re?»

    «As­so­lu­ta­men­te no, ma tu mi hai mo­stra­to la stra­da da per­cor­re­re e a me man­ca so­lo il co­rag­gio di per­cor­rer­la. Tu hai una men­te mol­to aper­ta che spa­zia ol­tre la per­ce­zio­ne del pre­sen­te, una per­so­na fuo­ri dai nor­ma­li sche­mi dot­tri­na­li. Hai un tuo la­to te­ne­bro­so e se­gre­to, co­me d’al­tron­de io, ma tu non lo la­sci in­ci­de­re sul­le tue scel­te, io an­co­ra non ci rie­sco.»

    «Ali­ce, for­se non ti ren­di con­to che io so­no sull’au­to­stra­da e tu sei sul­la stra­da ma puoi rag­giun­ger­mi, se lo vuoi. Tut­to que­sto non è un di­scor­so astrat­to ma è uno scam­bio di opi­nio­ni tra due per­so­ne de­lu­se.»

    «Hai cen­tra­to per­fet­ta­men­te il pro­ble­ma.»

    Re­pli­cò Ali­ce, mo­stran­do un cer­to stu­po­re per l’af­fer­ma­zio­ne di Ro­ber­to. Pre­se la taz­za di or­zo fu­man­te e co­min­ciò a sor­seg­giar­la, era mol­to cal­do men­tre fuo­ri la tem­pe­sta si era pla­ca­ta e den­tro di se un rag­gio di lu­ce ave­va fat­to ca­po­li­no, ol­tre lo scon­for­to in cui si era im­bat­tu­ta po­co pri­ma. Con­ti­nua­ro­no a di­scu­te­re in­cu­ran­ti di quan­to ac­ca­des­se at­tor­no a lo­ro e an­che del tem­po, sin quan­do le pri­me lu­ci dell’al­ba, di­chia­ra­ro­no l’ini­zio di un nuo­vo gior­no. La stan­chez­za era scom­par­sa, il lo­ro scam­bio ave­va aper­to due mon­di com­ple­ta­men­te sco­no­sciu­ti fi­no a po­che ore pri­ma, ora non più, ave­va­no qual­co­sa che li ac­co­mu­na­va che an­co­ra non co­no­sce­va­no.

    «Ti chie­do scu­sa Ali­ce ma con le mie chiac­chie­re ti ho ru­ba­to una par­te del tuo tem­po, è sta­to pia­ce­vo­le con­fron­tar­mi con te e non mi di­spia­ce­reb­be per nien­te, ri­ve­der­ti ma mi ren­do con­to che sia­mo due me­teo­re al­la de­ri­va nell’uni­ver­so. Una scel­ta o una ca­sua­li­tà? Io cre­do che non lo sa­pre­mo mai, sem­pli­ce­men­te per­ché non de­si­de­ria­mo sa­per­lo. Il da­re ri­spo­ste a vol­te ol­trag­gia la ve­ri­tà e ci por­ta ver­so l’in­fe­li­ci­tà.»

    «Scu­sar­ti di co­sa, se non gra­di­vo la tua com­pa­gnia, è su­per­fluo di­re che non mi sa­rei nean­che pre­sen­ta­ta. In me­ri­to al­la tua de­fi­ni­zio­ne dell’im­por­tan­za del­le ri­spo­ste, non so­no mol­to d’ac­cor­do ma non ri­ten­go sia il mo­men­to mi­glio­re per di­scu­ter­ne. Io non so qua­le sia la tua me­ta, ma spe­ro di in­cro­ciar­ti sul­la mia stra­da, an­co­ra una vol­ta, sen­za por­re con­di­zio­ni a quan­do e do­ve.»

    «Se vo­glia­mo ri­ve­der­ci, ba­sta scam­biar­ci il nu­me­ro di cel­lu­la­re, sa­rà una ten­ta­zio­ne co­stan­te. A noi la scel­ta di ac­cet­ta­re o no.» Ri­spo­se Ro­ber­to con un sor­ri­so.

    «Hai un mo­do ele­gan­te di chie­de­re le co­se, lo de­ve am­met­te­re e dir­ti di no, è dif­fi­ci­le per­ché è co­me na­scon­de­re un’emo­zio­ne e que­sto non aiu­ta a vi­ve­re ma a sop­pri­me­re. Quin­di nes­su­na dif­fi­col­tà al­lo scam­bio.»

    Ro­ber­to e Ali­ce si scam­bia­ro­no i cel­lu­la­ri, una stret­ta di ma­no e uno sguar­do. Ro­ber­to con pas­so len­to si av­viò ver­so l’usci­ta, non le ave­va chie­sto, do­ve fos­se di­ret­ta, e nul­la ine­ren­te al suo pas­sa­to non chie­se nul­la se non

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