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Bull Pine Grove
Bull Pine Grove
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E-book353 pagine4 ore

Bull Pine Grove

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Info su questo ebook

1859, Territorio del Nuovo Mexico, attuale Arizona. Misteriose morti sconvolgono Bull Pine Grove, cittadina di frontiera situata sul versante meridionale dei San Francisco Peaks. Sul corpo delle vittime sembrano evidenti i segni di attacchi animali, ma il decesso avviene solo dopo attimi di agonia e con sintomi che sembrano ricondurre a una malattia epidemica. Una banda di fuorilegge, un bottino sepolto, sospetti, bugie, tradimenti, le vicende dei protagonisti si congiungeranno sotto un’unica linea di morte e paura, che li condurrà alla soluzione del mistero.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2019
ISBN9788835347064
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    Anteprima del libro

    Bull Pine Grove - Stefano Roi

    Grove

    San Francisco Peaks.

    Territorio del Nuovo Messico.

    0

    (Principio)

    Il vento che soffiava dalle Montagne Sacre cessò di colpo. L'aria era immobile, le nubi lasciavano scoperto solo uno scorcio di cielo dal quale filtrava forte il sole del mezzogiorno. Mokiwii lo sentiva scottare sulla pelle mentre osservava l’uomo incappucciato.

    Il condannato piangeva, mormorii indistinti, acuti come gli squittii di un topo. Stava pregando. Ma Mokiwii sapeva che il dio dei bianchi non avrebbe ascoltato. Nessun dio ascoltava mai.

    Uno dei corvi appollaiati su un salice morto volò sul patibolo. Roteava gli occhi e la testa e osservava la folla.

    Si teneva in disparte, sebbene ai bianchi non sembrava importare che fosse lì. E nemmeno a lui importava dei bilaagana. Aveva smesso di odiarli quando aveva smesso di chiedersi chi fosse. Era la natura raminga del suo animo che lo spingeva a tenersi a distanza, la stessa che lo costringeva a un costante peregrinare per i Dookʼoʼoosłííd, le Montagne Sacre, e che quel giorno lo aveva condotto in quel villaggio senza nome, come in molti altri prima.

    Il marshal era un uomo grasso, non molto alto e con due folte basette che si univano sotto il naso. Quando strappò il cappuccio dalla testa del condannato, due occhi infiammati ammiccarono alla luce.

    L’uomo era vecchio, le ossa sporgevano su tutto il corpo e i capelli lasciavano scoperte macchie ed escoriazioni che non avrebbero avuto tempo di rimarginarsi. Una linea divideva la fronte in due parti, una bianca come il latte, l’altra cotta dal sole e dal vento e dal duro lavoro. Era stato un uomo prestante. Forse aveva combattuto. Magari contro il Popolo. Si chiese se ne avesse uccisi, di Navajo, e quanti. Si chiese se fosse stato là quella mattina. Ma cosa importava? Avrebbe potuto farlo sentire meglio? Non più. Forse un tempo.

    Un filo di muco oscillava dal naso dell'uomo fin oltre il mento come una ragnatela d’argento. Messa a fuoco la vista, emise un singhiozzo e sgranò gli occhi. Cadde in ginocchio. Non pregava più. Mokiwii vide sul suo volto la paura, una paura folle. In quel momento capì che a volte la realtà riesce a superare anche il più nero dei cappucci neri.

    Il condannato iniziò a urlare, farneticava di diavoli e voci nella testa, allora il marshal lo colpì per farlo smettere. L’uomo tacque, ma non smise di piangere.

    Mokiwii sentì un tocco alla gamba; un gatto gli si strusciava addosso con la schiena inarcata e la coda dritta. Il pelo era arruffato e sudicio e increspato da pezzetti di sporcizia. Era magro come uno scheletro. Lo allontanò senza cattiveria, poi tornò a osservare la scena.

    Il marshal si tolse il cappello dalla testa, si asciugò la fronte con l’avambraccio, poi rimise il cappello sulla testa e prese un foglio dalla tasca della camicia. Lo dispiegò, si schiarì la voce e iniziò a leggere. La folla ascoltava come una schiera di statue, immobile nell’aria immobile. Le nubi si chiusero e la luce si incupì. Mokiwii spostò il peso da una gamba all’altra. Era a disagio. Minacciava pioggia.

    Il vecchio aveva trascinato una giovane donna nei boschi, l'aveva seviziata e morsa e alcuni segni erano profondi fino all’osso. Era stato trovato a vegliarla, inginocchiato in una pozza di sangue. Lo stesso sangue scuro e ormai secco che gli imbrattava i pantaloni.

    Il marshal era pallido, aveva gli occhi arrossati, la mano che reggeva il foglio iniziò a tremare. Faceva un caldo d'inferno quel giorno. Richiuso il foglio, si strofinò il naso e la bocca come per scacciare un saporaccio. Infine tirò in piedi l’uomo afferrandolo per il collo.

    Il vecchio gridò per lo spavento e i corvi si alzarono in volo come brace sopra le fiamme. Mentre il marshal lo spingeva verso il cappio, iniziò a strillare. Le sue parole erano proiettili di sabbia contro la folla, ma non per Mokiwii. C'era un motivo se si trovava lì. Le parole dell'uomo erano parole che aveva già sentito, non lontano, non molto tempo prima, parole appena sussurrate. Strane storie provenivano da quel versante delle Montagne Sacre, storie di stregoneria e magia e vecchie profezie.

    Quando il marshal lo posizionò sulla botola, la vescica del condannato cedette. Anche le sue gambe cedettero e alcuni dovettero accorrere per permettere alla giustizia di fare il suo corso.

    Poco lontano da Mokiwii una donna si voltò, incapace di guardare. Il suo uomo le cinse le spalle e con fare gentile la costrinse a girarsi, sussurrandole qualcosa all’orecchio. Quella annuì, reticente tra i singhiozzi, ma non distolse più lo sguardo.

    Il marshal infilò la corda al collo dell’uomo. Quando pronunciò la condanna, il popolo si pronunciò con lui.

    Calciò il perno e la botola si aprì.

    Un colpo secco, il collo si spezzò, poi solo silenzio e il gemito della canapa, come una risata maligna.

    Il corvo, l’unico rimasto, osservò un po’ il morto, poi mosse gli occhi sulla gente. Emise un unico verso roco, infine dispiegò le ali e volò verso la cima delle Montagne Sacre. Mokiwii ne seguì la traiettoria e, quando fu sparito, rimase a osservare la mole nera e incombente della cima più alta.

    Parte prima.

    1

    (L'incauto John)

    Quando Carter uscì sulla veranda, quella mattina, un’aria piacevolmente fresca soffiava da est e faceva fumare il caffè che aveva tra le mani. Osservò la foschia alzarsi dai boschi e il primo sole riflettersi nelle pozzanghere lasciate sulla strada dall’acquazzone della sera precedente, tra le baracche che odoravano di segatura nell'aria ancora umida dei Peaks.

    Alcuni taglialegna andavano verso i boschi, attrezzi in spalla e passo pesante, mentre la brezza accarezzava le pelli appese fuori dalla conceria di O’Connell e un filo di fumo usciva dalla fucina di Porter più giù, in fondo alla strada.

    Il caffè era forte e nero, come piaceva a lui.

    Essere marshal di un villaggio nel Territorio del Nuovo Messico poteva essere complicato, e lo era, ma lì a Bull Pine Grove era diverso. Era come se quell’angolo di mondo fosse rimasto isolato, protetto dalle montagne, l’ultimo pezzo di terra pacifica in quel nido di serpenti. Era stato un avamposto minerario, prima che tonnellate di terra seppellissero una decina di persone e lo trasformassero in un quieto rifugio per sega alberi, scortica roditori e predicatori. Ricordava di aver pensato che fosse un bel posto in cui fermarsi a riflettere, la prima volta che ci aveva messo piede. E non si era sbagliato. Bull Pine Grove era un bel posto in cui vivere. E un ottimo posto per gestire gli affari.

    «Come andiamo, marshal?»

    Carter sistemò la stella sul petto e sollevò lo sguardo sulla donna che si affacciava dall’ Admiral. «Sembra essere un buon giorno, Odette.»

    «Sembra esserlo, sperando in Dio.» La locandiera ricambiò il sorriso, prima di ritirarsi. I capelli scuri avevano da poco iniziato a striarsi di grigio e il suo fisico sembrava a disagio nel corpetto troppo stretto. Eppure Carter non avrebbe scambiato quel sorriso per nessun altro sorriso al mondo. Ecco, quella era una di quelle cose che facevano iniziare la giornata con il piede giusto. Insieme al suo caffè.

    Quando il sole tracciò una linea sul prato increspato di onde, più a valle, Carter posò la tazza e prese la cipolla dal taschino del gilet. Le otto in punto. Tutto era tranquillo nella cara, solita, Bull Pine Grove.

    Quando stava ormai per rientrare, sentì delle voci in strada. Intanto, James Shelley si avvicinava con i pollici infilati nelle bretelle e gli occhi ridotti a due fessure dal sole del mattino.

    «Marshal, signore» salutò James accompagnando le parole con un cenno della testa.

    Carter alzò gli occhi al cielo. Si conoscevano da una vita ed erano arrivati a Bull Pine Grove insieme, tempo prima, eppure tutte le volte che erano in presenza di qualcuno gli si doveva rivolgere con quel tono, come a rimarcare che era lui, Carter, il marshal di Bull Pine Grove e il timido James Shelley solo il suo vice. James rise. Carter, scacciando l’aria con una mano, si girò a guardare verso il crinale meridionale, dove qualcuno cavalcava verso il villaggio.

    La gente era scesa in strada. Alcuni fischiarono, altri batterono le mani. Ogni evento che esulava dalla quotidianità era un evento maledettamente importante lì, a Bull Pine Grove.

    «Pony Express!» urlò un uomo in cima alla strada, sventolando il cappello. «Pony Express!»

    «Da come corre, sembra fuggire da un branco di lupi» disse James con un sorriso, pronto a godersi lo spettacolo.

    «O da una donna.»

    Il ragazzo cavalcava come il vento; teneva il cappello con una mano e stringeva le redini con l’altra. Quella pista attraversava i San Francisco Peaks tagliandoli da nord a sud e non era una via semplice, anche se era la più veloce. Era raro vedere un Pony percorrerla, tanto più con quella fretta.

    A meno di notizie urgenti.

    Il Pony Express non si fermò. La folla si aprì per permettergli di passare, fu un istante, e di lui rimase solo un turbine di polvere nell’aria satura di urla, fischi e battiti di mani.

    Il volto di Carter si incupì. Qualcosa lo aveva turbato, ma era stato tutto così veloce, così rapido da non permettergli di coglierne il motivo.

    «Sembrava… era spaventato?» chiese James, lì vicino.

    Carter si grattò il mento. Rifletté un istante, poi decise di non voler farsi condizionare. Era una così bella giornata, perché rovinarla? «Sarà stato stanco. O forse aveva della polvere negli occhi. Magari scappava davvero da una donna. Santo cielo, James, che vuoi che ti dica? Non preoccuparti sempre per niente.» Ma è incredibile quanto una piccolezza, anche soltanto una leggera percezione, possa avere risvolti inimmaginabili. E l’espressione del giovane aveva rivoltato l’umore di Carter con la forza di un conato improvviso.

    «Andiamo, lo spettacolo è finito. Tornate ai vostri affari.» Mentre la folla si disperdeva, il marshal si rivolse al vecchio uscito dalle prigioni. «Tutto in ordine questa notte, Melvin?»

    «Sissignore.» L’uomo, visibilmente intontito dall’alcol, si grattò la testa. Roteava gli occhi cisposi e arrossati, cercando di capire cosa si fosse perso.

    «Va’ a riposare.»

    «Sissignore» ripeté il vecchio.

    «Già, sarà esausto» fece James a fior di labbra.

    Carter seguì Melvin con lo sguardo fino all’ Admiral, sapendo bene che non avrebbe seguito il suo consiglio. Andava a cercare qualcuno che per pochi spicci condividesse ciò che rimaneva della bottiglia che aveva in mano; si sarebbe potuto pensare che affidare la custodia della prigione a un uomo così non fosse la scelta più oculata del mondo, anche lì, a Bull Pine Grove. In realtà il vecchio Melvin non faceva nulla, se non bere tutta la notte, ma quel poco di responsabilità era il modo migliore per tenerlo a bada. E Carter non voleva guai a Bull Pine Grove, specialmente quel giorno: aveva delle cose da sistemare, cose che con ogni probabilità gli avrebbero assicurato una vecchiaia agiata, ed era impaziente di mettersi al lavoro. Fermarsi a pensare lì aveva dato i suoi frutti, dopotutto. Erano frutti non proprio in linea con la stella opaca che appuntava ogni mattino sulla camicia, e proprio per questo frutti belli succosi. Un centinaio di capi da trasferire illegalmente oltre il confine, marchiare, e poi rivendere come merce da importazione. Quella sera, dopo aver messo a punto gli ultimi dettagli, sarebbe partito per non fare più ritorno. Ma il destino sembrava non volerne sapere; era appena rientrato che sentì chiamare: «Marshal. Marshal!»

    Fuori, appoggiato con una spalla a una colonna e con i pollici infilati nel cinturone, guardò James con aria condiscendente. «Che c'è ancora James?» Sospirò. Sempre a preoccuparsi per niente, il caro James. La prima volta che l’aveva visto si stava facendo infinocchiare dai discorsi di un predicatore, ad Abilene. E lui, canaglia incallita, lo aveva adocchiato come un serpente adocchia uno scoiattolo. Era giovane allora, ma non era cambiato molto.

    James indicò il crinale. La direzione era la stessa da cui era arrivato il Pony Express. Adesso un cavallo scendeva verso il centro abitato.

    Il pelo della bestia era intriso di sudore. Il collo ciondolava su e giù e spruzzava schiuma dalle froge. Ne perdeva anche dagli angoli della bocca, lunghe strisce tremolanti nell’aria. Il suo respiro era il rumore di una vecchia sega arrugginita.

    Carter raggiunse James in strada.

    Il vento era sceso e il silenzio era calato sulla città.

    John Farnsworth era conosciuto da tutti per essere un tantino tardo, ma non tanto da non essere in grado di mungere una vacca. Indicò l’animale. «Non è brado» disse, indicando i finimenti e la sella. Questa era girata sul fianco, come se il cavaliere fosse caduto.

    Il cavallo sfilò lungo la strada, ruotando gli occhi colmi di orrore in ogni direzione. Il rantolo si fece più intenso, la schiuma che gli ricopriva la bocca più copiosa, il ventre era gonfio come sul punto di esplodere. Con un ultimo nitrito stramazzò al suolo. Una nuvola di polvere si alzò nell’aria.

    «S-sta morendo?» chiese John, nel silenzio più totale.

    Carter fu il primo a scuotersi e a trovare la forza di avvicinarsi. James lo seguì, tenendosi però più indietro, a sua volta tallonato dal giovane Farnsworth. Poteva sentire gli sguardi della gente pesare sulle spalle.

    «Sono stati i pellerossa, o una frana, o magari i banditi? Cosa facciamo, marshal?»

    «Vuoi chiudere il becco, ragazzo?»

    L’animale sbuffava e gemeva in modo straziante.

    Si divisero; James si avvicinò da un lato, Carter e Johnny dall’altro. Improvvisamente il cavallo emise un lungo rantolo e smise di respirare, il grosso occhio fissò il cielo in un’eterna posa di terrore.

    «È morto» sentenziò John, mentre si chinava a osservare da vicino il muso dell’animale, segnato da profonde piaghe. Allungò una mano proprio nel momento in cui il ventre si contraeva un’ultima volta. Le labbra della bestia si tirarono sui denti e la bocca si spalancò sotto la pressione del getto di sangue che gli eruttò dallo stomaco.

    John Farnsworth, il Giovane, il Lento, il Curioso e da quel momento in poi l’Incauto John Farnsworth, ne fu investito.

    In un altro frangente la scena avrebbe scatenato l’ilarità dei presenti, ma non quel giorno. Quel giorno solo gemiti d’orrore echeggiarono nel silenzio più assoluto.

    Il povero John gemette. Il sangue schiumoso gli imbrattava il volto e i vestiti, colando sul terreno dalle braccia spalancate.

    «Aiuto. Aiutatemi!»

    «Diamine, ragazzo, non ci morirai mica. Dovrai solo andare giù al fiume a darti una bella lavata. So che questo potrebbe essere un trauma, ma dovrai farlo» disse Carter, nel tentativo di mantenere un’aria sicura, poi tornò a osservare il cavallo. Lo stomaco si era completamente afflosciato ora, un sacco vuotato di tutte le viscere, la pelle era grinzosa, appesa alle ossa, come se muscoli, tendini e organi fossero scomparsi. «Melvin!» gridò. La montagna restituì ululati striduli, come a volersi prendere gioco di lui.

    Il vecchio Buchanan, guardiano delle prigioni di Bull Pine Grove, si affacciò alla finestra dell’ Admiral, nudo e con un sigaro tra i denti. «Che c’è, marshal?»

    «Scendi un po’, che ho bisogno qui!»

    «Sono occupato adesso, marshal.» Il vecchio stirò le labbra in un sorriso e fece un gesto osceno.

    «Ti ordino di scendere, vecchia spugna del cazzo, o ti sbatto in cella per il resto della vita!»

    «Arrivo, arrivo, va bene. Mi spiace tesoro, devo andare» disse Melvin, rivolto a qualcuno nella camera.

    «Tu» disse Carter a un giovane che osservava la scena con apprensione. «Sei Danny McLore, non è vero?»

    «S-sì marshal, signore.»

    «Accompagnalo al torrente a darsi una lavata» disse, indicando Farnsworth, «E bada che non ci finisca dentro bell’e disteso.»

    Intanto il vice marshal James Shelley continuava a osservare il cavallo e le profonde piaghe che aveva sul muso e tutto il corpo. L’occhio era piatto e rifletteva la luce in un modo strano. Raccolse un legnetto da terra e lo conficcò nella pupilla dell’animale. Affondò, quasi l’occhio fosse liquido. Nel ritrarlo si portò dietro un po’ di sostanza molle, che gocciolò a terra.

    «Pensi possa essere qualcosa di contagioso per noi, Jimi?» chiese Carter sottovoce.

    «Io…»

    «Marshal! Marshal! Marshal!» Danny McLore urlava come un matto, gesticolando nel tentativo di attirare l’attenzione. James e Carter si avvicinarono di corsa.

    «Che diavolo gli è preso?»

    «Non lo so, marshal. Facevo come mi avete detto voi e d’un tratto è caduto e… ha iniziato a fare così!»

    John Farnsworth si contorceva a terra, digrignando i denti. Carter guardò James.

    Nel frattempo si erano ritirati quasi tutti all’interno delle baracche, limitandosi a osservare la scena dalle finestre dietro segni scaramantici.

    Melvin attraversò la strada ciondolando sulle gambe storte.

    «Vai a chiamare Reynolds, Melvin. Riferisci che la situazione è della massima urgenza, va’! Muoviti!»

    Melvin corse alla rimessa, trascinò un ronzino e lo assicurò ai finimenti, poi salì con fatica sul calesse. Le ruote cigolano mentre si metteva farraginosamente in marcia verso valle.

    «Ci avrei messo la metà del tempo» disse James.

    Carter fece di no. Lo osservò, in silenzio. Era spaventato, lo era sempre il caro Jimi, faceva parte del suo modo di essere. Ed era un insicuro e uno sciocco e un ingenuo e si era approfittato di lui oltremodo per anni. Eppure sentiva di aver bisogno di lui in quel momento, di lui e di nessun altro.

    Improvvisamente il ventre di Johnny iniziò a gonfiarsi e contrarsi, come poco prima quello del cavallo, e una bava schiumosa gli affiorò dalle labbra e dalle narici.

    Robert Gilliam si fece il segno della croce e corse a chiudersi nella sua falegnameria.

    Il rantolo si fece rapido e violento. Johnny si contorceva a terra frustando la polvere con le scarpe. Con le mani si teneva il petto, le dita artigliavano la camicia. Poi, d’un tratto, come era stato per il cavallo, emise un lungo gemito e smise di respirare. Gli occhi rimasero fissi e il ventre si rilassò.

    Il corpo ebbe uno spasmo, la pancia si contrasse, la bocca si spalancò, il getto esplose con veemenza.

    Uno schizzo disordinato imbrattò la terra davanti a John Farnsworth, il Morto.

    2

    (Sam Hill)

    Melvin batté ogni più rosea aspettativa coprendo la distanza in meno di mezzora. Seduto al suo fianco, sulla panca del calesse, un ometto smilzo, con pochi capelli e un paio di occhiali tondi appoggiati sul naso. Quando furono a pochi passi, il dottore saltò giù dal carro.

    «Cosa gli è capitato?»

    «Vorrei tanto sentirlo da voi, doc.» Carter alzò il cappello sulla fronte con due dita.

    «Da quanto è successo?»

    Carter prese un sacchetto di cuoio dalla tasca del gilet, pizzicò una quantità di tabacco tra pollice e indice e, dopo averla arrotolata tra le dita e pressata per bene, la infilò tra la guancia e la gengiva. «Poco. Vi dice niente… questo?»

    «Non saprei. A occhio non credo di aver mai visto nulla del genere.» Toccò il ventre del ragazzo.

    «Esiste una malattia con questi sintomi? È contagiosa? Dobbiamo…»

    «Prendete una coperta e avvicinate il carretto. Vorrei anche un barattolo di vetro, se possibile. Lo portiamo nel mio studio.»

    Carter lanciò uno sguardo a James Shelley. James entrò di corsa nel saloon. La sua ombra venne assorbita da una nuvola che coprì il sole. Quando uscì, la luce era ancora livida, oscurata da quell’unica piccola chiazza che sembrava proiettare un’ombra sul mondo intero.

    Nel frattempo Danny McLore aveva steso una coperta di fianco al corpo di Johnny e Melvin aveva avvicinato il calesse. Il dottor Reynolds raccolse un po’ della sostanza nel barattolo. «Aiutatemi a sollevarlo. Infilatevi tutti dei guanti, mi raccomando.»

    Il corpo era leggero come un mucchio di vecchie ossa. Reynolds tagliò la camicia di Johnny e scoprì la pancia. La pelle pendeva dalle costole, un cencio grinzoso e pallido, svuotato degli organi e privato dei muscoli a sorreggerlo.

    Danny si voltò e fece il segno della croce. Quando alzò lo sguardo, le vette sembravano aver assorbito parte del livore dell’aria. «C’è qualcuno!» disse, indicando la stessa direzione da cui era arrivato il cavallo. «Lì. C’è qualcuno!»

    Il caldo si era fatto insopportabile. Il segnavento era immobile. Quattro figure scendevano verso valle.

    James si asciugò la fronte con la manica della camicia. In cielo non c’era più nessuna nuvola e il sole era libero di splendere, ma non c’erano ombre.

    Carter sputò un getto marrone di saliva e tabacco, le mani piantate nei fianchi.

    «Vittime di un’imboscata» disse qualcuno. «Sorpresi da dei fuorilegge, o dai pellerossa. Stanno tornando alla carica quei bastardi.» L’espansione di frontiera aveva sradicato dalle loro terre clan Navajo, Hopi, Hvasupai e Yavapai, spingendoli a muoversi verso sud e verso ovest. L’equilibrio che era venuto a crearsi si reggeva su un filo sottilissimo e non era raro assistere a piccole scorribande isolate. Non c’erano leggi lì. Tuttavia quel versante dei San Francisco Peaks era sempre stato un posto pacifico, incredibilmente pacifico, e quell’affermazione suonava come un maldestro tentativo di riportare la cosa all’interno dei confini della razionalità.

    «Qui c’è sotto dell’altro» disse James avanzando di qualche passo.

    Melvin, sceso dal carro, tracannò un po’ di whiskey dalla bottiglia ed emise un rutto che avrebbe incendiato l’aria, se non fosse già stata rovente. «Per me sono sporchi pellerossa. Saranno così ubriachi da aver perso la via delle loro luride capanne.»

    Carter non lo ascoltò. Non riusciva a togliere gli occhi dai quattro che scendevano dalla montagna. Erano nudi, a eccezione di una tuba sulla testa del più alto dei quattro.

    «Lo dicevo che sono pellerossa. Guardate.»

    Ma la pelle degli uomini era scura perché coperta di terra e sangue; sotto la lordura era di un bianco spettrale.

    L’uomo con la tuba aveva una pancia tonda che stonava con la magrezza del resto del corpo. Al suo fianco un uomo basso e tarchiato, ricoperto di peli che il sangue appiccicava alla pelle, e un uomo allampanato con i capelli grigi tutti aggrovigliati. Alla sinistra di quest’ultimo, camminava una donna. I capelli incrostati le coprivano il volto e un graffio violaceo le attraversava il ventre. Il seno sinistro pendeva sullo stomaco come una bisaccia. In un primo momento Carter pensò fosse armata, poi, guardando meglio, vide che quello che aveva scambiato per un fucile era in realtà il braccio sinistro, staccato dal corpo, che si trascinava dietro.

    Sembravano camminare più per inerzia che per volontà, come quattro fantasmi.

    «Chi siete? E da dove venite?» urlò il marshal non appena furono a portata di voce, senza che quelli dessero segno di averlo udito. Sbuffò dalle narici e corse a prendere il fucile. Fermo a gambe divaricate al centro della strada, alzò il Remington. «Fermi dove siete!»

    Nessun segnale.

    «Sono Jeremiah Carter, marshal di Bull Pine Grove e vi ordino di non procedere oltre.»

    James si avvicinò, ma rimase un passo dietro di lui. «Forse non hanno cattive intenzioni. Forse hanno solo bisogno di aiuto, marshal» gli disse all’orecchio.

    Il solito Jimi. Non aveva la pelle abbastanza spessa per sfangarla in quell’inferno di mondo. Ma se c’era qualcuno che avrebbe voluto al suo fianco in quel momento era proprio lui.

    I quattro erano ormai a pochi passi. L’aria si era fatta pesante.

    «Maledetti figli di puttana» ringhiò Carter tra i denti. Armò fucile e sparò un colpo a terra. Lo sbuffo di polvere si dissolse in uno spettro rosso.

    Il quartetto sfilò come un corteo funebre per la strada silenziosa.

    «Che nessuno si avvicini, per nessun motivo.»

    «Ehi, guardate quello alto! La cosa che ha in mezzo alle gambe! Sembra la coda di un pesce rosso» disse Melvin ridendo.

    Mentre il vecchio si sganasciava, l’uomo tarchiato rovinò a terra.

    «Vuoi chiudere quella fogna, vecchio idiota!» tuonò Carter, e Melvin per poco non si strozzò per lo spavento.

    «No!» James trattenne Reynolds per la giacca mentre si apprestava a soccorrere lo sventurato. L'altro si girò a guardarlo con occhi sgranati. Mentre ancora l'eco risuonava nel silenzio, l’uomo esplose il getto di sangue.

    «Qui c’è di mezzo il vecchio Sam Hill, marshal, signore.»

    «Non credo nel diavolo, Melvin.» Carter teneva lo sguardo fisso sui forestieri, la canna del Remington puntata verso terra. Sputò saliva carica di tabacco. «Ma che io sia dannato se riesco a darmi una spiegazione.»

    Caddero anche gli altri due uomini. Mentre i loro corpi si

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