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Racconti Italiani
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E-book147 pagine2 ore

Racconti Italiani

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Info su questo ebook

L’autore Marco Salvario ha selezionato e raccolto in questa piccola antologia ventuno dei suoi più bei racconti scritti tra il 2002 e il 2017, rivedendoli e aggiornandoli, ma senza togliere nulla della loro ironia, vivacità e forza di denuncia. La galleria di personaggi, di storie e di emozioni, che caratterizzano un mondo in parte attuale e in parte perduto, regalerà al lettore divertimento e spunti amari su cui riflettere. Racconti italiani e di italiani, con qualche sguardo a quella America che amiamo e insieme odiamo.
LinguaItaliano
EditoreSalvario
Data di uscita1 gen 2018
ISBN9788827543689
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    Anteprima del libro

    Racconti Italiani - Marco Salvario

    coincidenza.

    Introduzione

    Racconti italiani è un’antologia di mie opere brevi composte in circa quindici anni, dal 2002 al 2017, e che sono state iscritte a concorsi letterari o pubblicate su siti di scrittura. Si tratta di una produzione potenzialmente molto vasta, che ho provveduto a sfoltire selezionando i lavori che hanno ottenuto più riconoscimenti o più interesse. Con il materiale scartato, a volte solo perché ripetitivo, non attuale o semplicemente non più di mio gusto, avrei potuto preparare almeno altre tre raccolte che, lo prometto, per il prossimo futuro terrò nei miei cassetti.

    Tutti i lavori sono stati rivisti e profondamente riesaminati, attualizzandoli e modernizzandoli nell’impostazione e nella scrittura.

    Nel loro insieme le storie affrontano, con ironia oppure con amarezza, aspetti e momenti di un recente passato italiano, che è e vuole essere la base per pensare e giudicare, comprendendolo meglio, il nostro presente. Ovviamente si tratta del mio modo personale di vedere le cose e il lettore non sempre lo condividerà. Quello che spero è che, quando avrete letto l’ultima pagina, un po’ di me rimanga con lui come una piacevole compagnia.

    Marco Salvario

    Il lago

    Non ricordavo fosse così scivolosa e ripida la salita. Non ho più le gambe dei miei vent’anni, soprattutto è il ginocchio sinistro che, quando lo piego, protesta con un dolore acuto e continuo.

    Faccio una pausa, fingendo di interessarmi al panorama. Elena si è fermata prima di me e scruta rabbiosa il suo smartphone, che io mi ostino a chiamare telefonino. «Non c’è campo!»

    «Come no? Guardati intorno: quanto verde, quante piante, quanti campi. Forse più boschi che campi, ma questa è la montagna.»

    «Nonno! Sai benissimo cosa voglio dire!»

    Allargo le braccia. «Nipotina mia, vivi e goditi la natura. Non sarà così grave, se per qualche minuto, non telefoni.»

    «Io non telefono.»

    «Giusto, tu mandi messaggini.»

    «WhatsApp

    La correzione è detta tra i denti, minacciosa e per me misteriosa. Ha provato ieri a spiegarmi in cosa consista questa novità tecnologica e mi ha solo convinto che sono sempre inutili e banali messaggini, magari con una foto allegata o una musica o un filmato. Che Elena mandi in giro sue foto a troppi amici, che amici non so quanto siano, non mi piace, però sua madre mi ha detto che le ragazze lo fanno tutte ed io resto zitto.

    «Perdonami, tesoro! Nella vita bisogna rassegnarsi, prima o poi, a qualche dolorosa rinuncia. Oggi dovrai limitarti a guardare il paesaggio e respirare aria pulita, finché il campo non tornerà. A chi volevi scrivere?»

    «A nessuno.»

    «E cosa gli dovevi scrivere?»

    «Nulla!»

    Sapevo che avrebbe risposto così. Nessuno è Gianni, un amico a cui scrive qualche nulla ogni minuto, poi c’è tutta la sua tribù di perditempo che non sanno scrivere, non sanno parlare e riescono a comunicare solo per sigle e faccine, senza avere il coraggio di guardarsi negli occhi.

    Riprendiamo a salire. Elena raccoglie un sasso e lo lancia davanti a sé. Voleva centrare un tronco e lo manca. Quando avevo la sua età, io lo avrei colpito da una distanza doppia: erano altri tempi ed io ero un ragazzaccio di campagna che con la fionda riusciva a colpire un passerotto in volo.

    «Che cosa volevi scrivere a Gianni?»

    «Che mi annoio!»

    Ridacchio. «È importante farglielo sapere.»

    Il sentiero ora è pianeggiante e si cammina meglio. Il dolore al ginocchio si stabilizza. La mia automobile è parcheggiata cinquanta metri più in basso, gli alberi la nascondono e neppure lasciano distinguere la strada asfaltata. Ogni tanto ci arriva il rumore di un motore che cambia marcia prima di affrontare la curva in salita e subito si allontana.

    Mi piace questo posto e il cattivo umore di Elena quando è trascinata fuori di casa, non mi contagia. Sei mesi fa ho percorso questo sentiero chiedendomi se, per l’età e gli acciacchi, non fosse l’ultima occasione in cui lo avrei percorso e oggi, eccomi qua, con la mia scontenta nipotina, dai jeans elastici che ne fasciano le gambe agili e ben modellate e la camicetta che lascia intravedere un accenno di seno. Sono fiero di lei almeno quanto lei è annoiata di me.

    Punto la mano indicando i ruderi di un cascinale sul versante opposto: «Vedi quei muri bruciati?»

    Elena alza gli occhi al cielo. «Nonno, me l’hai già raccontato un milione di volte. Sono stati i tedeschi per stanare i partigiani.»

    «Non puoi sopportare che lo racconti ancora una, l’ultima?»

    Non infierisco, il mio fiato è prezioso. Elena ha trovato sorprendentemente abbastanza campo da inviare il suo messaggio e accenna un sorriso. Probabilmente sorride per un messaggio di Gianni.

    «Vuoi andare al laghetto?» Provo a proporle.

    «Allo stagno?»

    Faccio finta di arrabbiarmi: «La sai la differenza tra uno stagno e un lago?»

    Elena allarga le braccia ed io, dopo un po’, ripropongo: «Andiamo al laghetto?»

    Un’alzata di spalle che interpreto per una risposta affermativa. Continuiamo in silenzio fino a quando un breve motivetto annuncia l’arrivo di un messaggio per Elena. «Cosa ti scrive, il tuo amico?»

    «Che si annoia. Come me.»

    «Anche lui è a passeggio col nonno?»

    «E poi non è mio amico.»

    «Si annoia perché non sei con lui?»

    «No!»

    «No?»

    Elena non risponde. Svoltiamo dove un cartello di legno grezzo, quasi illeggibile, indica di proseguire dritti per il rifugio e di girare a destra per il lago Azzurro. Non ricordavo si chiamasse lago Azzurro, non sapevo avesse un nome.

    L’erba è alta e il sentiero poco battuto si confonde in certi punti con i prati. Non lo ammetto, ma mi sto perdendo. Elena mi dice di avere visto uno scoiattolo arrampicarsi ed io confermo, purtroppo è una bugia. Un corvo mi deride e la sua voce sembra preannunziare quella di mia nipote: «Il lago si è prosciugato!»

    Elena si arrampica agile su uno spuntone per farmi vedere un fungo che poi lasciamo lì, non sapendo se è commestibile. D’improvviso punta il dito e mi comunica la buona notizia: «Eccolo il tuo stagno, e non è neppure così male.»

    Infatti, il lago è lì e specchia il bosco, confondendosi con esso. Non così male? È bellissimo, è poesia pura!

    Mi ritrovo a raccontare il passato e mi commuovo. «Sai, Elena? Oggi tu sei qui con tuo nonno e, tanti anni fa, io ci vedevo con il mio.»

    «Nonno Piero?»

    «Piero era mio padre: il padre di mio padre, Alfonso. Morto in uno scontro a fuoco quando era militare in Libia.»

    Elena dà due sguardi al telefonino e uno al lago: «Deve essere troppo freddo per farci il bagno.»

    Rido di gusto. «Puoi dirlo forte! Quando mio nonno mi ha portato qui, vietandomi di allontanarmi e di arrampicarmi come volevo, io mi sono svestito, mi sono tuffato e l’ho attraversato a nuoto. Avrò avuto quattordici anni e ti assicuro che l’acqua è ancora più gelata di quanto pensi.»

    «Ti sei ammalato?»

    «No, solo un livido allo zigomo per il ceffone di mio nonno quando sono uscito dal lago».

    Elena mi scruta curiosa. «Perché l’hai fatto?»

    Rifletto un attimo. «Per sfida a me stesso e per capire i miei limiti. Allora eravamo meno viziati e pigri di voi. E più robusti.»

    «Per sfida a te stesso?»

    «Anche per dimostrare a mio nonno che potevo farlo. E, dopo lo schiaffo, mio nonno mi abbracciò e mi disse che ero un uomo e non solo un bambino.»

    Siamo arrivati al lago ed Elena immerge la mano nell’acqua limpida. «Accidenti!»

    «È un lago di montagna. Una dozzina di anni fa eravamo venuti qua, ricordi? Io, tua madre, tu e zia Eva. Un gruppo di ragazzi tedeschi si tuffava in acqua e nuotava.»

    Elena si guarda intorno e annuisce. «Me lo ricordo.»

    «Eri molto piccola.»

    Lei ride. «Erano tutti maschi e si tuffavano nudi.»

    «Lo ricordi davvero!»

    Elena arrossisce. Io siedo su una pietra e massaggio il ginocchio sinistro: mi hanno operato al menisco e qualche problema l’ho ancora e me lo porterò dietro fino alla tomba. Il sole che attraversa i rami non riesce a scaldarmi. Sono stanco. Ammetto a mezza voce, senza sapere se Elena mi sente: «Non è stata una grande idea venire quassù.»

    Mi risponde uno sciacquio strano. Elena si è sfilata in un attimo i vestiti ed è entrata in acqua fino ai polpacci. Schiena sottile e gambe snelle. Si gira verso di me, le braccia strette al petto, e strilla: «Quanto è fredda!»

    Il suo corpo nudo, bianco, magro e fragile come un fenicottero, scivola e affonda in acqua. Mi alzo in piedi e caracollo fino alla riva. «Elena, non farlo! Aspetta!»

    Non la vedo più! Un gioco di riflessi spezzati sulla superficie dell’acqua.

    Per qualche istante penso con terrore che il freddo la ucciderà, che morirò anch’io tuffandomi per salvarla e, invece, Elena riemerge scalciando e avanzando con bracciate frenetiche. Il mio tono vuole essere imperioso è, invece, suona complice: «Esci da lì! Subito!»

    Non mi sente oppure non vuole sentirmi e la sua nuotata percorre una curva che la fa ritornare indietro, molto prima di essere arrivata a metà del laghetto: «Pazza! Esci!»

    Elena è sempre stata una brava nuotatrice, elegante, mentre il freddo la fa muovere con movimenti violenti e strappati. Quando esce dall’acqua, la sorreggo e le butto addosso il mio cappotto. Elena trema senza controllo e mi si stringe al petto: «Hai visto che l’ho fatto? Sono tutta gelata! Che male!»

    Per scaldarla la strofino forte, la stringo e le bacio i capelli: «Stupida! Stupida!»

    «L’ho fatto! Non sai come sono felice! Volevo attraversare il lago, però è troppo gelato. Sono felice così!»

    Cerco di rimproverarla mentre le passo la mano tra i capelli per fare scivolare via l’acqua gelida: «Dovrei prenderti a ceffoni, come ha fatto mio nonno con me!»

    «Non lo farai!»

    «Allora ti sculaccio!» E lo faccio, una volta sola.

    «Ahi!»

    Credo che si lascerebbe sculacciare ancora, le riattiverebbe la circolazione, ma io ho paura di prenderci gusto.

    «Torniamo all’auto. Accenderò il riscaldamento al massimo.»

    Elena si riveste caoticamente e saltella. «Freddo, freddo, freddo!»

    Le strofino sempre con forza i capelli e massaggio la schiena: «Sei bella! Non sai quanto ti voglio bene!»

    Mi

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