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Legami al buio
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E-book255 pagine3 ore

Legami al buio

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Info su questo ebook

Legami al buio indaga le cose della vita attraverso lo sguardo intelligente di Tancredi, dodicenne complessato e spesso bullizzato dai compagni, alle prese con una famiglia difficile, nella quale si intrecciano segreti e narrazioni distorte. È solo grazie all’arrivo di una nonna sconosciuta e stravagante con al seguito Hagrid, il suo anziano gatto sornione, che passato e presente iniziano, finalmente, a svelare i loro nessi. È l’inizio di un dialogo familiare, di un racconto che si dipana lungo decenni, apartire dalla generazione nata nel primo dopoguerra e che ripercorre gli anni della contestazione giovanile, del terrorismo e della rivoluzione sessuale. I veri protagonisti della storia, che di giorno in giorno prende forma attraverso i racconti e la testimonianza di vecchie lettere ritrovate, sono i Lobello. Personaggi che hanno fondato le loro certezze su legami che si rivelano fragili, e che vengono spazzati via e stravolti dall’irrompere della verità.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2023
ISBN9791222431635
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    Anteprima del libro

    Legami al buio - Bruna Manzoni

    I

    È la prima volta che vedo Sara, la nuova sorellina. Quasi non credo ai miei occhi. Nove mesi di attesa per questo mostriciattolo grinzoso e violaceo che pare un lombrico? Chissà se toccandola si attorciglierà e contorcerà come fanno i vermi del parco.

    Mi avvicino lentamente alla culla foderata di rosa che la contiene come una sorpresa nell’uovo di cioccolata e la guardo più da vicino sotto gli occhi attenti di Lucia, la fidanzata di papà e adesso mamma di mia sorella, insomma la mia matrigna.

    Forse ora dovrei smetterla di chiamarla così. Scandisco mentalmente: ma-tri-gna. Le sillabe inciampano tra i denti come noccioli amari, hanno un suono cattivo.

    Lucia continua a tenermi gli occhi addosso mentre scruto il piccolo lombrico addormentato, il suo sguardo preoccupato mi brucia sulle spalle. Ma non mi lascio distrarre, esamino la faccina gonfia, la fronte aggrottata e sfuggente, il naso minuscolo e schiacciato di Sara: la bocca non si vede bene perché è nascosta da una manina rugosa. Le dita sono aperte, lunghe, lunghissime, con in cima delle microscopiche unghie trasparenti come veli di cipolla.

    Improvvisamente muove la mano con uno scatto involontario e si graffia. Un sottile, quasi invisibile scarabocchio rosso si disegna su quella specie di naso. Faccio un salto indietro, poco ci manca che mi metta a strillare che non è colpa mia.

    Lucia accorre e srotola con delicatezza le maniche della tutina fino a far scomparire del tutto i due minuscoli pugni dagli artigli di gatto. Finalmente posso osservare Lucia mentre è china sulla culla.

    I suoi bellissimi capelli biondi, sempre lisci e lucidi come quelli di Barbie, le spiovono sul viso in ciocche crespe e appiccicose. Sotto gli occhi e sulle guance, una ragnatela di capillari viola le chiazza il viso pallido e stanco, ma quello che mi stupisce di più è lo sguardo. Sembra aver perso la sicurezza e la prepotenza di sempre. È triste e spento.

    Forse sarà dispiaciuta che sua figlia sia così brutta, mentre papà ha sempre detto che io ero bellissimo appena nato.

    Si aspetta che io dica qualcosa, ma io apro bocca solo per chiedere a papà se posso avere una coca. Ho sete, in questa stanza d’ospedale si soffoca e il golfino blu che papà ha voluto farmi mettere per forza mi pizzica da tutte le parti. Anzi, inizio a grattarmi così furiosamente che Lucia, col suo tono più acido, mi chiede se ho le pulci.

    «Io no. E tu invece? Che c’hai? Perché hai ancora la pancia? Mi avevate detto che sarebbe nata una sorella. E ora ne nascerà un’altra ancora?»

    Lucia spalanca la bocca come per dire qualcosa, ma rimane lì a labbra aperte, la mascella giù, le braccia come due stracci.

    Papà si mette a ridere, mi rifila uno scappellotto.

    «Ma no, ma no – esclama allegro – una basta e avanza! Andiamo dai, che qui fuori c’è un distributore, ci facciamo una coca.».

    Usciamo insieme dalla stanza, papà avanti, col suo passo elastico e scattante, io dietro, a testa bassa mentre continuo a grattarmi il collo e la schiena.

    «Allora?» Mi fa papà davanti al distributore mentre ci scoliamo la bibita gelata.

    «Che te ne pare?» Sorride, ma gli occhi no.

    Stringe nervosamente tra le dita la lattina, che si accartoccia facendo traboccare schizzi di coca sulle sue scarpe nuove.

    «Maledizione! Si mangerà tutto il colore!»

    Il cellulare di papà squilla e lui si immerge in un particolareggiato resoconto del parto, su quanto è stato difficile, doloroso e così via. Manco avesse partorito lui! Mi annoio.

    Lungo il corridoio si trascinano alcune signore in vestaglia, hanno tutte lo stesso aspetto sfatto, camminano dondolando sulle ciabatte, sottobraccio a parenti e amici come se non fossero più capaci di camminare da sole. Alcune hanno pance enormi, anche più grosse di quella di Lucia che già mi sembrava un pallone. Provo a guardarle da dietro fingendo di non sapere che hanno la pancia.

    Chiudo un occhio come per mirare meglio, controllo se l’illusione funziona, ma no. Hanno una camminata troppo buffa, barcollano come pinguini, impossibile farle sembrare donne normali.

    Se non fossimo in ospedale prenderei a calci la lattina, il lunghissimo corridoio è una tentazione… Resisto, l’accartoccio e a malincuore la infilo nella feritoia dell’apposito raccoglitore.

    La noia è una crema appiccicosa, come quella solare che Lucia mi spalma prima di lasciarmi allontanare dall’ombrellone. Ti rimane addosso, e se corri e sudi la sabbia si incolla e non se ne va più, nemmeno in acqua. Odio la crema e odio annoiarmi. L’anno scorso quando sono stato un paio di giorni in vacanza con mamma lei non mi rompeva per proteggermi dal sole, mi ha chiesto una sola volta se volevo mettere la crema, io sono scappato a riva a giocare e lei ha calato i grandi occhiali scuri senza insistere.

    La sera però le spalle andavano a fuoco e la notte il materasso pareva imbottito di puntine da disegno che si conficcavano nella pelle a ogni movimento. Ma non ho chiamato la mamma, non è il tipo che si alza di notte a spalmarti il doposole.

    Il pavimento di linoleum verde fa delle bolle qua e là, le calpesto a una a una per vedere se la bolla cammina. In alcuni punti di giuntura le lastre sono rovinate e i bordi sollevati. Cincischio con la punta della scarpa per vedere se si scolla. In quel mentre mio padre mi raggiunge e mi strattona il braccio.

    «Ma che fai?! Già quest’ospedale casca a pezzi, ti metti pure a fare il vandalo? Andiamo. Dobbiamo passare alla stazione a prendere la nonna.»

    Quale nonna? Improvvisamente esco dall’apatia e drizzo le antenne incuriosito. Nonna Ada, la mamma di mamma, abita abbastanza vicino a noi e non mi risulta sia mai partita e, quindi, nemmeno tornata.

    Deve trattarsi della misteriosa nonna Andrea, quella col nome da maschio, la mamma di papà, che non ho mai visto. Anzi, per la precisione lei ha visto me, appena nato, ma poi non ci siamo più incontrati. Papà non la nomina mai, e io ho imparato da un pezzo a non fare domande sulle questioni che i grandi evitano.

    Stavolta però non resisto e bombardo mio padre: «Pa’, quanto resta? Dove dorme? In camera mia o nel divano letto dello studio?»

    Nella cameretta nuova con gli orsetti e i palloncini colorati alle pareti no di certo, Lucia non vorrebbe, non ci fa entrare nessuno, a parte le sue amiche del cuore.

    Sono eccitatissimo. L’arrivo di una nonna misteriosa e piena di segreti è molto più interessante della nascita di un lombrico… Ops! Sorella.

    La strada fino alla stazione è breve, ma a me sembra lunghissima. Papà invece è silenzioso, imbronciato, nonostante il mio continuo chiacchierare e domandare.

    Arrivati al parcheggio spegne il motore, e prima di scendere riempie rumorosamente d’aria i polmoni come se si preparasse a tuffarsi dal trampolino.

    Soffia via l’aria di colpo, con un sibilo nervoso, poi salta fuori dall’auto con naturale eleganza; mentre io cerco di imitarlo, la portiera del passeggero si chiude, rimbalza di peso sul mio ginocchio facendomi venire le lacrime agli occhi dal dolore.

    «Salame!» È l’immancabile commento di papà.

    Di Andrea so pochissimo, ma certo in gioventù dev’essere stata una tipa stravagante e fuori dal comune. Per quel poco che ho potuto origliare dai discorsi dei grandi, ne ha fatte delle belle! Abbandonare marito e figlio per fare la musicista o la cantante, non so bene… L’artista da strapazzo borbottava mio nonno, cioè suo marito, che è morto l’anno scorso.

    Nonno non mi piaceva tanto, sempre accigliato, di poche parole, sapeva di polvere e medicine così come tutta la sua casa; quando lo andavamo a trovare quella puzza di vecchio mi riempiva le narici già dall’ingresso buio e stretto; le pareti erano coperte da ingombranti mobili in legno scuro, quasi neri, intagliati con foglie, riccioli e colonnine attorcigliate come serpenti.

    In sala, buffet, tavoli e tavolini erano occupati da vasi, gingilli d’argento e statuette di porcellana, tutte ricoperte da un velo grigio. Ce n’erano ovunque: pastorelle, angioletti e damine con gonne gonfie ai lati come avessero uno zaino per fianco. Le grandi specchiere dorate alle pareti li riflettevano aumentando l’effetto di essere circondati da un esercito di mummie.

    Dopo pochi minuti, mi partiva una raffica di starnuti che stizzivano molto il nonno, convinto che fossi lì per attaccargli l’influenza o chissà che. Papà diceva sempre che andavamo per passare un po’ di tempo col suo vecchio, ma sono convinto che quando mi mettevo a starnutire era sollevato all’idea di dovercene andare in fretta e furia.

    Apriva il portafoglio, dava i soldi del mese a Dakila, il ragazzo filippino che badava al nonno, e dopo averlo rimproverato per la troppa polvere e promesso al padre di tornare presto mi strizzava l’occhio, mi agguantava per la collottola e uscivamo quasi di corsa da quell’appartamento opprimente. Ce ne andavamo per mano fino alla gelateria sotto casa, tappa fissa, dove ci aspettava un cono da quattro palle con panna di cui, era sottinteso, Lucia non avrebbe mai dovuto sapere.

    Non ci capita spesso di divertirci insieme, io e papà. Ma ogni volta che scappavamo da casa di nonno era così, avevo solo voglia di ridere e saltare e lui faceva lo scemo per farmi ridere di più.

    In fondo, penso mentre mi massaggio il ginocchio ancora indolenzito, forse anche Andrea, quando era giovane, era fuggita da nonno perché le faceva paura.

    E poi, cosa c’è da vergognarsi a scappare? Tutti bravi a dire che non si deve fuggire di fronte ai problemi, che lo fanno solo i vigliacchi e così via... Ma, dico, avete mai visto una gazzella affrontare un leone? La verità è che se non corre più forte, muore. Secondo me ‘sta storia del coraggio è decisamente sopravvalutata.

    Quando quei due stronzi dei gemelli Materazzi mi sfottono, e poi si avvicinano con quelle facce da terminator, vorrei vedere chi non avrebbe voglia di darsela a gambe!

    Siamo fermi davanti al tabellone luminoso dove scorrono le informazioni sui treni in arrivo e in partenza. L’incubo dei fratelli Materazzi, come una nuvola spazzata dal vento, si dilegua dai miei pensieri mentre papà borbotta: «Ecco, è in arrivo al binario tre, sbrigati dobbiamo avviarci al sottopasso.»

    Zoppico vistosamente, arranco appresso a lui facendo le scale una per volta; nel frattempo papà è già arrivato al binario senza voltarsi indietro. Ci manca solo di perdermi in mezzo al traffico di persone che affollano il corridoio sotterraneo trascinando di fretta valigie e trolley in entrambe le direzioni o di finire per terra investito da qualcuna di queste mine vaganti.

    Finalmente sbuco sul marciapiede del binario mentre il treno entra rumorosamente in stazione, i freni fischiano nelle orecchie e la locomotiva, spostando l’aria che sa di ruggine, sorpassa abbondantemente il punto dove sono fermo. La gente inizia a scendere e io, dimenticato il dolore al ginocchio, saltello tra la folla alla ricerca di una fisionomia che non conosco.

    Di mia nonna Andrea ho visto pochissime foto, per lo più di quando lei era molto giovane, immagini in bianco e nero e sempre prese da lontano. Non so nemmeno io cosa aspettarmi. Nel preciso istante in cui scannerizzo le facce della gente a caccia del volto di mia nonna, scommetto con me stesso che se sarò capace di rintracciare i segni del legame di sangue che ci unisce, noi due saremo amici.

    Nell’istante in cui mi convinco che il richiamo del DNA mi butterà dritto dritto tra le braccia di mia nonna, poso lo sguardo sulla figura elegante e ancora slanciata di una signora dai capelli grigio argento che si guarda intorno all’evidente ricerca di qualcuno. Le sorrido, lei risponde al mio sorriso e avanza verso di me con lo stesso passo elastico di mio padre. Ecco, è lei, per forza.

    Anche io le vado incontro ma le labbra si paralizzano non appena realizzo che lo sguardo della signora si dirige abbondantemente sopra la mia spalla. Appena in tempo! La signora sta già abbracciando una sconosciuta proprio dietro di me. Non so che fare delle mie braccia sollevate, le abbasso lentamente, le faccio dondolare come un bambino piccolo, mi sforzo di avere un’aria indifferente mentre controllo che nessuno, intorno a me, abbia visto la scena.

    Ma papà dov’è finito? Finalmente lo inquadro nel via vai dei viaggiatori lungo la banchina, sta discutendo animatamente con una tipa il cui DNA, nemmeno con la più sfrenata fantasia, potrebbe avvicinarsi al nostro albero genealogico.

    Non so che fare, se avvicinarmi o restarmene alla larga.

    Meglio la seconda, sto da una parte mimetizzato tra la folla mentre il tono di mio padre, di solito educato e gentile, si alza sopra il vociare della stazione al punto che qualche passante si gira allarmato a guardare.

    Vorrei sparire come Harry Potter sotto il mantello dell’invisibilità, ma non c’è scampo. La tipa – a questo punto dev’essere lei, mia nonna – mi adocchia da lontano e, piantando mio padre nel bel mezzo della sua sparata, punta con passo deciso verso di me trascinandosi dietro un borsone scolorito e sformato che barcolla su minuscole ruote, ondeggiando pericolosamente di qua e di là. A tracolla ha innumerevoli borse, uno zainetto, e in mano un cesto che ha tutta l’aria di contenere un gatto. Lucia è allergica al pelo di gatto. Improvvisamente comprendo la furia di papà e prevedo lo scenario catastrofico in arrivo.

    La tipa si avvicina decisa, si vede che a lei il mio DNA risulta familiare. Molla la presa su tutto il bagaglio, che le si sparpaglia intorno, salvo il gatto che viene posato a terra con una certa delicatezza; mi afferra il mento con due dita sollevandomi il viso per guardarmi meglio dritto negli occhi.

    «Caspiterina, per fortuna non rassomigli troppo a tuo padre! Sì, hai gli occhi di tua madre. Sono necessari questi occhiali? Non ti donano affatto.»

    So che Andrea è mia nonna, ma è proprio l’opposto dalle altre nonne che conosco. Quella del mio compagno di banco Giacomo, per esempio, nemmeno somiglia ad una nonna: è sempre elegante e quando ride le vengono due fossette sulle guance che la fanno sembrare giovane.

    Andrea invece non sembra né giovane né vecchia, è semplicemente diversa e molto, molto strana. Ha un caschetto di capelli scuri con delle ciocche blu sulla fronte, grandi occhiali da sole e un rossetto scuro, quasi nero, che contrasta col bianco della pelle. Ha l’aria di un vampiro, penso tra me.

    Il corpo è magro, anche se è difficile capire cosa si nasconda sotto quell’accozzaglia di vestiti messi a casaccio uno sopra l’altro… Ha dei leggings neri infilati in stivaletti da cowboy, sopra indossa un maglione nero lungo fino a metà gamba da cui spunta una maglietta bianca ancora più lunga, un gilet di pelle dal taglio asimmetrico e, avvolto intorno alle spalle, uno scialle di lana traforato con grandi fiori colorati e lunghe frange gialle. Papà si avvicina, sembra stia per esplodere, la mascella si muove come se masticasse una gomma a denti stretti.

    «Andiamo!»

    È un ordine secco, il tono è tornato basso, impugna la maniglia del borsone più pesante, lasciando ad Andrea il cesto del gatto, le borse e le sacche che ha a tracolla. Li seguo e vedendoli insieme da dietro colgo il primo segno di familiarità: le spalle. Hanno lo stesso modo, tra lo spavaldo e l’atletico, di buttarle avanti camminando. Quando passano, tutti capiscono che loro hanno una corsia preferenziale.

    Io invece le spalle le tengo sempre curve, e anche il collo, ed è per questo che Lucia mi rimprovera, dice che presto la cervicale mi farà male come se avessi ottant’anni. Non sa che mi fa male già. Un bruciore tra collo e scapole, specialmente quando mi costringe a fare i compiti in cucina, appollaiato su quello scomodo sgabello alto che per scrivere devo stare tutto gobbo.

    Mentre ci avviamo alla macchina la nonna si volta, abbassa leggermente la testa per guardarmi da sotto gli occhialoni tondi che le scivolano sulla punta del naso.

    «Puoi chiamarmi Andrea, oppure come più ti piace, naturalmente.»

    «Sì, nonna!»

    Mi mordo il labbro, ho ripreso a zoppicare; cerco, se non la sua simpatia, almeno la sua compassione, ma lei prosegue col suo passo spedito e leggermente storto senza dar segno di aver sentito. Una volta saliti in auto mi nascondo in un angolo del sedile posteriore sperando di essere lasciato in pace, ma Andrea ha pensato bene di sistemare, proprio accanto a me, la cesta del gatto e lui, tra le sbarre, non ha occhi che per me.

    Non riesco a vederlo per intero attraverso la feritoia del trasportino ma nel suo sguardo verde smeraldo balena una luce ad ogni scossone dell’auto, mentre le punte baffute delle orecchie hanno piccoli scatti nervosi. A momenti strizza le palpebre in due strette linee nere. Sembra schiacciare un pisolino, ma sono certo che non smette di tenermi d’occhio. Non vado d’accordo coi gatti, non mi fido del loro passo silenzioso e dei loro pensieri imprevedibili. Infilo tra le sbarre una biro che ho trovato nella tasca della portiera per vedere se dorme davvero, ma lo scatto delle due zampe anteriori è così fulmineo che, spaventato, mollo la presa. E ora la penna è sua, imprigionata tra le unghie del sornione che mi guarda con aria di sfida mentre agita la coda dal fondo della gabbietta.

    «Si chiama Hagrid», dice mia nonna in un soffio.

    «Hagrid? Come quell’Hagrid?» Chiedo sbalordito.

    «Sììì-sììì», risponde lei strascicando le i.

    «Chi sarebbe questo Hagrid?» Interviene papà, seccato che si parli di qualcosa che non conosce.

    «Niente... Citazioni da Harry Potter, roba che naturalmente non esisteva ai tuoi tempi.» Ribatte la nonna con aria di sufficienza. Hagrid ora è irrequieto e strapazza la penna facendo più rumore di una lavatrice. Guardando la sua facciona baffuta e rotonda non posso fare a meno di riconoscere che la somiglianza col guardiacaccia di Hogwarts è strepitosa.

    Figurarsi che succederà quando Lucia verrà a sapere del gatto! Un finimondo! Una volta ha fatto una scenata pazzesca per un pulcino vinto alle giostre.

    Ero con mamma quella volta, durante uno di quei pochi fine settimana in cui non è all’estero e si ricorda di me. Forse per farsi perdonare una lunga serie di rinvii per contrattempi e impegni dell’ultimo momento, mi portò al Luna Park.

    Al chiosco della pesca non mi andava nemmeno di fermarmi, ma lei sapeva come insistere, sfidandomi a chi faceva più punti. Mia madre non ama le giostre troppo movimentate, quelle che lo stomaco ti fa un occhio nero dice lei, e siccome all’epoca ero troppo piccolo per salirci da solo mi voleva convincere a fare altri giochi, più tranquilli.

    Per una volta sembrava così eccitata di giocare con me che alla fine cedetti e restammo a pescare ochette di plastica per almeno un’ora, e per almeno 20 euro di gettoni.

    Mamma barava, così alla fine ci toccò un premio a scelta: o un pupazzo o un pulcino vero. Scelsi il secondo in barba alla regola che in casa gli animali non sono ammessi, al massimo quelli di peluche.

    La proprietaria del banco di pesca, una zingara dai capelli rosso fiamma, affondò le mani in un cesto di plastica pieno di pulcini, alcuni gialli, altri chiazzati di bianco come se avesse appena nevicato.

    «Guarda, questo è il più bello e sano di tutti!» E sollevò le braccia facendo tintinnare i braccialetti come campanelli. Tra i palmi chiusi a guscio spuntava un batuffolo di pelo giallo che infilò soddisfatta in una piccola scatola traforata e sfoderando un sorriso a cui mancava qualche dente, me lo consegnò complimentandosi ancora per la vincita.

    Mentre camminavamo verso la macchina tenevo la scatolina tra le mani, sobbalzando a ogni suo sobbalzo; il pulcino era spaventato, avrei voluto fermarmi ad accarezzarlo, ma mia madre mi stava tirando per la manica, stufa del Luna Park e ormai completamente assorbita da una telefonata di lavoro.

    Solo in auto, nella semioscurità del sedile posteriore, mi ero azzardato a sollevare il coperchio di cartone quel tanto che bastava ad introdurre una mano all’interno e toccare finalmente il mio piccolo trofeo. Ma seppure era stretto in uno spazio minuscolo il pulcino si dibatteva, agitava zampe

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