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DREAM: Quando un sogno diventa realtà
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DREAM: Quando un sogno diventa realtà
E-book765 pagine11 ore

DREAM: Quando un sogno diventa realtà

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Info su questo ebook

Diana Lovebell è una venticinquenne con alle spalle una vita travagliata. Dopo aver perso il padre per una malattia cardiaca, perde anche la madre in un incidente stradale. Diana viene salvata da angeli misteriosi, le cui voci le rimangono impresse nella memoria indelebilmente; incomincia così, a ricercare quelle persone, che erano a bordo dell'ambulanza. Da questo momento la vita di Diana cambia radicalmente: immersa nelle sue ansie, nei sensi di colpa, nella rabbia e nella tristezza più assoluta, la protagonista dovrà imparare a bypassare gli ostacoli che la vita le pone dinnanzi, dovrà cercare di accettare il passato, per vivere al meglio ogni giorno. Solo cinque anni più tardi, avverrà un evento fatale che rimetterà al loro posto i pezzi del puzzle: un uomo affascinante, intelligente e amministratore delegato di una catena di hotel internazionale, sua sorella e sua madre le sconvolgeranno la vita. Un libro che racconta la storia di una persona che dal passato, deve evolversi, trasformarsi in un'adulta, capace di assorbire il dolore e renderlo invece gioia, determinazione, lealtà e felicità. Una storia che unisce lo psicologico, il thriller, l'amore e l'importanza di un'amicizia, della tenacia e della caparbietà, della lealtà e del coraggio. Una storia che mette in mostra le invidie, le gelosie altrui, che nuociono al mondo di oggi. Mistero, crimine, malvagità di uniscono ad una sorpresa finale che vi lascerà senza fiato.
LinguaItaliano
EditoreLunar
Data di uscita9 set 2018
ISBN9788829506804
DREAM: Quando un sogno diventa realtà

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    Anteprima del libro

    DREAM - Rosalba Rimoldi

      PROLOGO

    Cinque anni prima

    Era una sera fredda e ventosa di fine agosto.

    Cupe e oscure nubi si stagliavano sulla volta celeste, coprendo a intermittenza una bellissima ma angosciante luna piena.

    Le stelle, che di solito in questo periodo dell’anno risplendono brillanti e vivaci nell’etereo cielo, faticavano a farsi strada tra le nuvole, le quali sembravano correre l’una dietro l’altra, come se si inseguissero in una staffetta infinita, senza vincitori né vinti.

    L’aria era ghiacciata, quasi come se, invece di essere nel mese di agosto, si fosse in pieno inverno, con dieci gradi sotto zero. L’inquietudine creata da quel clima insolito non faceva altro che rispecchiare e amplificare il sentimento di panico estremo e di shock che provavo in quei frangenti. Mi guardavo in giro, a destra e poi a sinistra, e ancora a destra, cercando di capire cosa fosse successo. Era tutto ovattato, non sentivo rumori, suoni o voci; non percepivo nient’altro che vuoto misto a terrore, con una sfumatura di incredulità.

    Un tocco leggero e continuo sulla mia spalla destra mi svegliò da quello stato di trance in cui ero caduta. In quel momento fu come se al posto del nulla, del silenzio, la mia testa si fosse risvegliata di colpo, le mie orecchie si fossero riaperte, i miei occhi si fossero accesi; un’emicrania fortissima mi colpì in pieno, facendomi strizzare occhi e fronte, non sentivo nient’altro che un rumore simile ad un trapano che mi perforava il cranio.

    Un dolore allucinante...

    Una voce mi chiese se stessi bene, io non feci altro che annuire, e poi scuotere il capo come se avessi dentro una bomba ad orologeria pronta ad esplodere nel cervello.

    A quel punto capii che probabilmente non stavo bene per niente, tentai di far mente locale e capire ciò che era successo, ma niente, sembrava che la mia testa non riuscisse a connettere.

    Riuscii ad agitare un braccio e toccarmi la tempia destra, per poi far ricadere la mano verso il suolo, sporca di sangue. Il mio sangue. Allora ricordai a frammenti che non ero sola in quella che un tempo era stata una macchina, e in quel momento, invece, non era altro che un ammasso informe di rottami. Non riuscii a guardarmi in giro per molto, perché il dolore alla testa era troppo forte.

    Probabilmente morirò, me lo sento.

    Incominciai a concentrarmi su cosa stava succedendo intorno a me, tentai di aprire di più gli occhi, che sentivo gonfi, troppo gonfi, e comunque non riuscivo a vederci nitidamente. Udii rumori assordanti provenire da ogni lato, non capivo se a destra, o sinistra, o sopra; percepii tocchi e movimenti di persone – forse angeli – che tentavano di riportarmi alla luce. Erano soccorritori del primo soccorso, intuii grazie alle tute rosse e bianche catarifrangenti che indossavano, probabilmente arrivati a sirene spiegate poco prima, e circondati da luci blu e illuminati da fari bianchi e accecanti. Sembrava di essere in paradiso e contemporaneamente all’inferno.

    Gli angeli – come li soprannominai – mi aiutarono a muovermi e mi sfilarono pian piano dall’abitacolo della vettura ( o meglio, di ciò che ne restava), e notai un mormorio sorpreso e preoccupato al tempo stesso, ma non capii se stavano parlando di me.

    Non capivo molto, in quel frangente. Arrivai però ad una conclusione, che ero grata a Dio di aver salva la vita. In quell’ammasso di rottami fumanti fui l’unica ad essere stata estratta viva. Un ragazzo vestito di rosso continuava a sussurrarmi parole calme, serene, quasi piccole preghiere, dandomi ogni tanto anche dei piccoli tocchi alla spalla, mentre mi avevano caricata su una barella pronta per essere trasportata urgentemente al pronto soccorso più vicino con un’ambulanza. Non ricordo i lineamenti, i tratti fisici di quel ragazzo; non memorizzai purtroppo il nome, né qualsiasi altra informazione utile. Anzi, probabilmente non capii nulla di ciò che mi aveva detto per tutto quel tempo, era come se mi sentissi su una trave alta 10 mila metri, pronta a eseguire la figura dell’angelo, sospesa nel vuoto, un baratro infinito; se fossi caduta, non sarei sopravvissuta. Ma c’erano molte persone che sussurravano e mantenevano viva quella poca attenzione che ancora riuscivo ad avere, e soprattutto quel ragazzo che cercava di mantenermi sveglia.

    Sentivo intanto dolori allucinanti lungo tutto il corpo – probabilmente mi stavano bloccando sulla barella -  e capii che dovevo resistere ancora per un po’, quando qualcuno mi allacciò un collare rigido per far sì che la mia testa non fosse sbalzata di qua e di la nel trasporto verso la salvezza.

    A tratti sentii come se fossi sul punto di svenire, ma cercavo di tenere duro, affidandomi al ragazzo che continuava a sussurrare parole o nenie e ad una signora che dal tono di voce doveva essere più matura, che continuava a farmi domande incomprensibili, ad armeggiare con strani e orribili strumenti per poi scrivere o annotare qualcosa su una specie di quaderno o blocco che reggeva sulle gambe. Ebbi una strana sensazione, tra il dolore puro, fisico e il piacere, l’essere felice di aver vicino delle persone preoccupate per me.

    Purtroppo andare in ambulanza a cento chilometri orari non fu una bella esperienza da quel poco che mi posso ricordare. So solo che ebbi un moto di vomito improvviso, e mi trattenni per un pò, ma alla fine non riuscii ad essere forte.

    Non ero coraggiosa per niente, eppure ero circondata da angeli: loro mi dettero la forza di resistere e di sopravvivere fino a quando, stanca, spossata, sofferente e dolorante, non crollai e vidi completamente nero.

    Mi svegliai dopo quello che mi sembrò un’eternità, rintontita, come se fossi stata sulle montagne russe di un parco divertimenti per circa un intero pomeriggio; cercai di muovermi e in effetti, riuscii a muovere solo la testa, verso destra.

    Vidi tutto bianco, pareti bianche, persone vestite di bianco.

    Feci mente locale per capire dove potevo essere, e ad un certo punto mi venne in mente che forse ero in ospedale; ero stata trasportata lì dopo l’incidente.

    L’incidente!

    Tentai di riportare alla mente i ricordi di quel bruttissimo momento, ma non ci riuscii; mi sentivo la testa che girava, che martellava. Un’emicrania fortissima, come se qualcuno mi avesse dato una bastonata direttamente in testa, e allora ricordai... sangue.

    Incidente. Angeli. Ambulanza. Rottami.

    Feci due più due.

    Ero viva.

    Improvvisamente vidi entrare a passi calmi, fluttuanti, quasi come se camminasse su un materassino gonfiabile – pensai di essere completamente rintronata a quel punto – una donna dai capelli biondo cenere, molto giovane, e sorrideva. Ricambiai leggermente il sorriso, ma riuscii a malapena ad accennarlo; mi sentivo le labbra gonfie come se mi avesse punto un insetto; deglutii piano, perché mi faceva male persino respirare – mi accorsi che avevo il respiratore d’ossigeno nelle narici del naso – e sentii un sapore metallico, forte, acidulo, ma saporito in bocca.

    Sangue.

    La donna arrivò vicina al mio letto, mi salutò con un cenno, ma io non ero lucida, per niente. Lei mi disse con calma vicina al mio orecchio, quasi come se fosse un sussurro, non preoccuparti, sei viva, ti abbiamo salvato. Si, salvato... La donna angelo che avevo visto a frammenti quando mi avevano estratta dai rottami della macchina era lei?

    Non riuscivo a distinguere bene i suoi lineamenti, gli occhi pungevano e lacrimavano copiosamente. La donna mise una mano calda sul mio braccio fasciato e pieno di cerotti e in quel preciso istante mi sembrò come se mi avesse iniettato nella flebo, al posto di varie sostanze trasparenti, un siero per la tranquillità e la pace. Mi sentii meglio, volevo parlare, ma non vi riuscii. Tuttavia tentai di aguzzare le orecchie cercando di ascoltare o meglio, afferrare più parole possibili che la donna mi poneva. Volevo chiederle molte cose, per esempio.... Non mi ricordavo.

    Una sensazione di panico mi avvolse.

    Non ricordavo assolutamente nulla di tutto ciò che era precedente all’impatto. Quando la donna vide che mi stavo agitando a letto, e non dovevo assolutamente muovermi, mi pose il palmo della sua mano calda sulla fronte, cercando di infondermi ancora un po’ di pace, poi mi sussurrò non preoccuparti, ci siamo noi. Sei salva. Ma non era quello che volevo sapere....

    Mi sentii confusa, non riuscivo a parlare, non emettevo suoni, non riuscivo a muovere un dannato muscolo, un dito, nulla.

    Ero ferma, sdraiata inerme su un letto d’ospedale, con chissà quali ferite sul corpo. Ma quello che mi spaventava era il non ricordarmi assolutamente nulla dell’incidente e di tutto quello che era avvenuto prima.

    Mi accoccolai ormai esausta e assuefatta dal panico sul lenzuolo, morbido, fresco, che sapeva di disinfettante; chiusi gli occhi per un minuto, credo, poi mi rigirai verso destra, per incontrare gli occhi della donna, ma.... non c’era più nessuno. Come era entrata molto silenziosamente e con calma poco prima nella stanza, ora se n’era andata altrettanto silenziosamente.

    Non so quanti giorni passarono da quel momento, forse un paio, o forse di più. Quando mi svegliai, l’emicrania si era attenuata, non guarita, ma almeno riuscivo a capire qualcosa di più; potevo girare la testa a destra e a sinistra, sentendo un dolore molto più affievolito a quello provato in quel terribile momento; potevo guardare intorno più nitidamente con gli occhi, anche se bruciavano ancora, e potevo udire ciò che mi veniva detto.

    Ovviamente vicino a me, nessuno.

    Nella stanza c’ero solo io, un letto, un’asta per le flebo, un piccolo tavolinetto con delle medicine, e un comodino con armadio annesso, dove erano poggiate delle bende, un bicchiere con dell’acqua e poche altre cose, che al momento risultavano a me inutili.

    Sentii il vociare proveniente dai corridoi, ma la mia stanza era chiusa, quindi provai a schiacciare il pulsante rosso di una specie di interfono a muro vicino al cuscino per chiamare qualcuno. Arrivò presto un’infermiera che mi guardò con apprensione, poi prese il misuratore della pressione sanguigna e lo stetoscopio, e infine, dopo aver accertato che la mia situazione non era gravissima, mi sorrise. Andò verso il corridoio e chiamò un dottore ad alta voce; quello arrivò a passo veloce e quando mi vide con gli occhi aperti, che respiravo in maniera regolare, e che sembravo lucida a livello mentale, mi sorrise come aveva fatto l’infermiera. Mi salutò – come se a me importasse il saluto – e mi chiese se stavo bene, così da potermi parlare.

    Annuii e lui, con voce calma, non molto alta, mi disse: « Signorina Lovebell, sono contento che lei stia bene. Se continua così si rimetterà presto. Sicuramente vorrà sapere cosa le abbiamo fatto. Bene, dunque, deve sapere che è arrivata con un’emorragia interna in corso, e un grave trauma cranico. La commozione cerebrale probabilmente è dovuta all’impatto, che non è stato lieve, anzi. Per l’emorragia, non si preoccupi, abbiamo risolto tutto, con un’operazione urgente. Ora è fuori pericolo e si sta rimettendo in sesto molto velocemente, da quello che posso vedere sulla sua cartella medica».

    Vedendo la mia espressione rasserenata, continuò: «Le dico un’altra cosa, e per questo deve essere comprensiva, pazientare e vedrà che tutto si risolverà. Se per caso lei non si ricorda di ciò che è avvenuto dal momento dell’incidente a ritroso, è una cosa normale. Lei sta soffrendo di amnesia temporanea, una conseguenza frequente in casi di trauma cranico grave. Le ripeto, non è grave, se siamo fortunati nel giro di poco tempo, la memoria ritornerà».

    Dovetti trattenere la mia frustrazione in quel momento, stringendo fortissimo le lenzuola con le dita della mano che potevo muovere. Il dottore mi garantì, prima di andarsene, che tutto sarebbe migliorato, e infatti così fu.

    Da quel momento, fu tutto un percorso in salita. Ma nel cuore continuavo a portare un senso di nostalgia, di preoccupazione, di ansia, non riuscivo ancora con precisione a definirlo. Volevo riportare alla mente i ricordi dell’incidente, ma non ci riuscivo. Cercai allo stesso tempo di rievocare quegli angeli che mi avevano salvata, ma anche in quel caso, niente.

    Allora mi sentii completamente sola, non sapevo se avevo una famiglia, degli amici, se studiavo o lavoravo, non sapevo dove abitavo, nulla.

    Desiderai solamente recuperare la memoria al più presto.

    CAPITOLO 1

    Oggi

    «Sophia, come puoi permetterti questo vestito elegante? Guadagni così tanto a lavorare nel reparto catering?» domando con un ghigno sorridente alla mia migliore amica nonché coinquilina, Sophia Goodkind.

    L’ho sempre invidiata, è una bellissima ragazza, dai capelli color rosso fuoco, corti e lisci, ha dei fantastici e magnetici occhi verdi che attirano lo sguardo di tutti i ragazzi, e una bocca piena rosea. Con la sua forma longilinea e magra, sembra una modella uscita da una rivista patinata di moda.

    Devo ricordarmi di comprarle Vogue, penso – visto che è la sua rivista preferita, se non passo in edicola a comprarla ogni settimana, sarebbe capace di togliermi il saluto, visto la sua testardaggine e la sua grinta e determinatezza.

    Io invece non credo proprio di essere una modella anzi, mi pare di essere una semplice ragazza acqua e sapone, uscita dal bagno di prima mattina, con i capelli castani molto lunghi, con la frangia che non sta mai al suo posto, e ogni giorno di forma diversa, a volte sono mossi, a volte sono lisci.

    Credo sia in parte anche dipeso dal mio umore, a volte mi alzo con una incredibile voglia di domare la mia massa di capelli, che diciamocelo francamente, ritengo la parte fisica più bella di me. Se mi tagliassero i capelli, sarei come Sansone, perderei tutte le mie forze. Ed è per questo che odio il parrucchiere, se vado una volta l’anno è già sufficiente. Ho dei normalissimi occhi nocciola grandi, folte ciglia, un viso di carnagione chiara che si contrappone nettamente ai miei capelli castano-mogano, facendomi apparire come una ragazza che di certo non appartiene al lato sud del mondo, anzi, tutt’altro.

    Spesso mi son ritrovata persone che mi chiedevano da dove provenivo, se dall’Europa dell’est, dalla Russia o dalla Scandinavia. Non sono filiforme, ma sono molto alta, sono una ragazza con delle curve e sono contenta di questo. Francamente preferisco rimanere nell’ombra, piuttosto che apparire sotto i riflettori ogni singolo giorno, al contrario della mia amica; non amo molto i social network in quanto secondo me sono solo un misero spreco di tempo e di energie. Pensare a tutti i messaggi, a tutte le informazioni, a tutti quei mi piace o non mi piace, condividi o smile di vario genere, mi viene la pelle d’oca a dir poco.

    Non capisco perché la gente passi ore o giorni interi sui social network, ma magari mi sbaglio io, forse sono io una ragazza un po’ all’antica.

    Eppure Sophia, iscritta in tutti i maggiori e più famosi social network, da Facebook a Instagram, è sempre aggiornata su tutto e tutti: è lei il mio telegiornale quotidiano, io evito di accendere la TV tanto so che c’è lei che mi aggiornerà sugli eventi successi e che accadono in giornata. A parte questo suo lato, diciamo, social, è una bravissima ragazza, molto gentile, sempre altruista e carina, ha dei bei modi di comportarsi, è frizzante e allegra, sociale, espansiva, solare, un po’ pazzerella, grintosa, forte come una pantera, ma sa essere dolce come un panda – le dico io. E lei arrossisce e dice che è fatta così.

    La ringrazio e la ringrazierò finché vivrò per quello che ha fatto per me.

    Noi ci conosciamo dai tempi del liceo, dapprima siamo state compagne di banco, poi di vita – che belli gli anni del liceo! Magari potessi ritornare a quei tempi! Mi ha sempre aiutata e supportata  nei bei e nei brutti momenti, soprattutto: è questa l’amicizia secondo me.

    L’amicizia è un concetto astratto che non si può definire a parole, perché troppo complesso; forse potrei dire che equivale ad un rapporto fra due persone, di sesso uguale o anche di sesso diverso ( non è quello l’importante), che si basa sull’altruismo, sulla fiducia e sull’onestà, e soprattutto... la comprensione. Molti ragazzi dicono che hanno una miriade di amici, ma questo secondo me non è vero al cento per cento, perché i veri amici, quelli di cui tu ti puoi fidare ciecamente, li puoi contare sulla punta delle dita. O perlomeno è quello che penso, e francamente a me è sufficiente così.

    «A proposito, Diana... Sei andata a ritirare i libri che avevi ordinato in libreria?» mi chiese Sophia, tutta gongolante.

    Io sorrisi a mia volta e risposi di sì.

    Adoro i libri, adoro studiare, adoro tutto ciò che è cultura, arte, storia, letteratura, e viaggiare! Mi sono laureata due anni fa in Lingue e letterature straniere, ho ricevuto il titolo di dottoressa e poi di ricercatrice linguistica, traduttrice e interprete e infine ho proseguito laureandomi in Conservazione dei beni culturali.

    Ero indecisa se intraprendere l’uno o l’altro, ma siccome avevo optato ai tempi per il primo, dopo l’incidente proseguii con lo studio delle lingue straniere, per aprirmi una serie di porte sul mondo del lavoro, un mondo in crisi, dove solo chi riesce a stare a galla può sopravvivere; quando finii con Lingue mi dedicai all’altra mia passione, ovvero lo studio della cultura, della storia, dell’arte e del teatro.

    Adoro viaggiare, adoro visitare sempre posti nuovi e conoscere culture diverse dalla mia, esplorare mondi e mentalità differenti, ai margini del globo. Sono assetata di conoscenza – direbbe la mia ormai confidente, Sophia.

    E direi che ha ragione su questo, d’altronde è merito anche suo se sono riuscita ad arrivare alla laurea finale. Anche se ho finito di studiare, mi dedico comunque allo studio continuo, al mantenermi in allenamento con la lettura di ogni sorta di libro, da quello puramente scolastico, a quello narrativo, alla saggistica; l’importante è che sia fatto di carta, perché sinceramente a me gli e-book elettronici non piacciono molto. L’elettronica di certo non è il mio forte, anzi, non me ne intendo proprio; mi spavento se vedo un codice strano sul monitor del portatile, o se vedo che la rete wi-fi non funziona, o vado in paranoia totale se vedo il death screen. A quel punto mi rivolgo di norma a un tecnico, prima di combinare i miei soliti casini.

    Non sono mai stata fortunata nella mia vita, per niente.

    Forse l’unica fortuna l’ho avuta l’anno scorso quando mi hanno chiamata a insegnare in una scuola privata, come insegnante di sostegno per ragazzi con deficit o problematiche inerenti all’apprendimento.

    Ho sempre desiderato insegnare, infatti ho sempre fatto, quando ne avevo la necessità e quando potevo, lezioni private e in università per aiutare e supportare i ragazzi; in più mi piace anche il senso di collaborazione e di amicizia che si instaura fra il ragazzo stesso e l’insegnante, e anche con i genitori ovviamente: il fatto di insegnare qualcosa non deve prescindere dall’abilità del ragazzo, o dalla sua attitudine allo studio, ma anche dal sapere instaurare un ottimo rapporto fra tutte le parti – come un gioco in cui ognuno fa la sua parte, rispettando le regole, così da poter scalare l’Everest, e raggiungere i propri obiettivi. Il lato non troppo vantaggioso è che questo lavoro non è remunerativo, anzi: diciamo che arranco a malapena con uno stipendio base mensile, che mi permette di vivere in maniera giusta, ma non abbastanza per potermi permettere chissà quali sfizi o piaceri.

    Al contrario di Sophia che lavora in un negozio di catering, nonostante anche lei sia laureata come me in Lingue straniere; a quanto ne so, a lei non piace tanto studiare o stare rintanata in un ufficio, in una biblioteca o comunque fra quattro mura. Ma non le piace neanche viaggiare, purtroppo, quindi quando vorrei viaggiare io, non posso chiedere a lei di accompagnarmi, perché mi storce il naso, come per dire no,no,no, scherzi!

    Non che ora sia un problema, non posso permettermi di viaggiare, dovrei aspettare ancora un po’, così da poter risparmiare del denaro per poterlo investire in cose che piacciono a me, e non tasse, sub-tasse, e altri pagamenti obbligatori ma che non sono inerenti alla coltivazione dei propri interessi.

    Sophia mi ha aiutata tantissimo, soprattutto mi ha dato una casa dove vivere dopo l’incidente: visto che ero rimasta da sola, ha pensato di accogliermi nel suo appartamento, e così dividiamo in due le spese, ce la caviamo, ci supportiamo e ci sopportiamo l’un l’altra, alternando le mansioni casalinghe per esempio.

    Il suo appartamento è al terzo piano di una palazzina in centro città, con una vista panoramica mozzafiato, puoi vedere le montagne, il lago, il verde che circonda la città. Sul tetto, a cui puoi accedere attraverso una rampa esterna o un ascensore interno, c’è un bellissimo terrazzo tutto arredato con gazebo, piante e fiori di ogni genere, sdraio e ombrelloni – questo è il suo angolo preferito, non il mio, visto la mia eterna e sempiterna pericolosa allergia a ogni pianta, frutto o fiore che sia; però non nego che a volte, quando lei non c’è, salgo sul terrazzo a riflettere o a riposarmi. In effetti ispira tranquillità e serenità; essere sul terrazzo mi permette di ispirare aria fresca, guardandomi in giro e immaginando di evadere dalla realtà, spesso pesante, e rintanarmi in un mondo mio, dove esisto solo io.

    Da qualche mese abbiamo anche un cane, un Jack Russell femmina, Moonlight, che adoro e che tratto come se fosse mia figlia, e devo dire, piace anche a Sophia.

    Meno male che anche lei è amante degli animali, soprattutto dei cani: in mente l’idea di avere un cagnolino in giro per casa mi venne in mente ripensando all’incidente che ho subito cinque anni fa, perché essendo sola, mi sento a volte triste, isolata, alienata.

    Invece così so che, anche se Sophia è al lavoro, a casa c’è una cagnolina che mi ama incondizionatamente e che mi aspetta tenera e scodinzolante davanti alla porta, e che una volta aperta la porta, ti si fionda in braccio, sommergendoti di baci e leccate, simboli della sua immensa felicità.

    È come una pet therapy, mi aiuta a superare i momenti bui della mia vita quotidiana. Eh già, l’incidente ha segnato completamente la mia vita.

    CAPITOLO 2

    «Diana! Porti fuori tu Moonlight stasera? Io non posso, devo finire di lavorare qui in negozio! Abbiamo un sacco di ordini ancora da preparare... Ok, a dopo!» mi urlò al telefono Sophia.

    Non mi stupisco, lei è fatta così, sempre sulla cresta dell’onda, quando è sotto pressione spesso urla o alza la voce, quasi come se stesse parlando a venti chilometri di distanza. E il bello è che non faccio in tempo a salutarla o a rispondere sì o no.

    In poche parole, non accetta un no come risposta, quindi anche questa sera porterò fuori io Moonlight per i bisogni. È giovane e le piace correre, annusare, gironzolare in giro per i marciapiedi o il parco vicino casa; a volte incontriamo anche qualche cagnolino fuori, insieme al suo padrone, e allora lei fa le feste, o si sdraia per terra, scodinzolando, o quando il cane le sta antipatico, comincia ad abbaiare furiosamente. Prendo Moonlight in braccio, le infilo il guinzaglio ed esco da casa, facendo attenzione a chiudere bene la porta con la chiave. Non si sa mai chi c’è in giro a quest’ora, nonostante non sia sera tarda; non mi fido di nessuno, quindi prima di uscire afferro il mio cellulare, e uno spray urticante.

    Chiudo la porta e scendo le scale, gettandomi direttamente sul marciapiede, in velocità.

    Cammino a passi svelti lungo il marciapiede dietro a Moonlight e intanto alzo il viso verso l’alto, respirando profondamente e riempiendomi i polmoni d’aria, inspirando ed espirando come se dovessi buttare fuori tutto il peso subito in giornata.

    Mi sento appesantita, come se ogni giornata diventasse sempre più carica di tensioni; adoro il mio lavoro a scuola, è impegnativo ma mi rende estremamente orgogliosa e fiera di me stessa, dei ragazzi che aiuto e che seguo, e anche dei genitori, che con me si comportano molto bene.

    A volte però mi sento in gabbia, quasi come se fossi costretta ad andare al lavoro da una forza sconosciuta, a cui non mi posso opporre; non sono una ragazza che sa dire di no, o che si ferma, anzi, mi getto completamente nel mio lavoro, combatto per raggiungere i miei obiettivi, anche se magari non sono sempre così vicini.

    Altre volte invece soffro di forti emicranie, dolori lancinanti alla testa, che mi spezzano a metà, quasi come se fossi tagliata in due da un paio di coltellate; mi sento spossata e a volte svengo. Mi spavento molto quando succede, anche se ormai ci dovrei fare l’abitudine; a dire il vero, credo che tutto sia iniziato dal momento dell’incidente. Ancora oggi mi ricordo qualche scena al rallentatore, lo schianto, il dolore, spilli che si diffondevano in tutto il mio corpo, la testa che scoppia, un liquido caldo e rosso che fluisce lungo il viso, arrivando fino alle labbra.

    Rabbrividisco sempre quando ci penso, non solo per l’accaduto in sé, quando – e soprattutto – per le conseguenze terribili che ne sono derivate.

    Una perdita incalcolabile, un dolore interiore eterno, che dilania il cuore, che ti ferma il battito, ti accelera le pulsazioni, ti blocca lo stomaco, ti spacca la testa a mattonate. Ci devo fare l’abitudine, mi dico sempre, ma non credo di esserci ancora riuscita. Apparentemente sono forte, ma dentro me stessa, c’è un’insana paura latente, una sofferenza senza limiti, un senso di colpa enorme per quello che è successo. Maledizione, penso, sta riaccadendo di nuovo.

    Perché quando esco da sola, di sera, e cerco di calmarmi e rilassarmi, alla fine finisco sempre per ritornare in quel brutto periodo con la mente?

    Perché la mia memoria cerca di riportare alla luce tutte quelle bruttissime sensazioni, emozioni e dolori che vorrei abbandonare per sempre?

    Forse andare da uno specialista mi aiuterebbe, ho la netta sensazione che Sophia abbia ragione, a consigliarmi di andare a prendere un appuntamento da uno psicologo.

    In fondo potrebbe aiutarmi.

    Vedremo, non sono sicura che sia una buona soluzione, ma tentar non nuoce.

    In ogni caso, tento di respirare in maniera controllata, appoggio la mano libera dal guinzaglio di Moonlight sul mio petto, cercando di abbassare le pulsazioni del cuore, di tranquillizzarmi; sento vento, un venticello fresco che mi sferza la pelle del viso. Anche quella sera era ventosa, un brivido mi fa accapponare la pelle.

    Ad un tratto sento una goccia liquida, fresca, cadermi sul naso, poi picchettare in maniera intermittente e veloce sui miei capelli, sulle spalle e anche sul terreno. Cavolo, un aquazzone! Ci mancava questa: fuori, a spasso, di sera tarda, con mille pensieri per la testa, in agitazione, senza ombrello, e con un cane legato al guinzaglio che non ne vuol sapere di tornare a casa! Lo dico sempre che sono sfortunata!

    «Diana, pronto? Ascolta, ha iniziato a diluviare! Non ho un ombrello per cui mi accompagna a casa Mike! Fra poco torno!» mi urla al cellulare Sophia.

    Vorrei tanto avere la sua prontezza di spirito e la sua capacità di sorridere e di essere energica persino con un temporale in agguato.

    Comunque, sono appena entrata a casa, dopo aver slegato Moonlight, vado in bagno a prendere un asciugamano per asciugare il pelo maserato della cagnolina. Non vorrei che si prendesse un malanno; già che ci sono mi fermo, apro l’acqua calda nella vasca da bagno, e la lascio scorrere.

    Dopo aver asciugato Moonlight, torno in bagno, preparo la biancheria e il pigiama puliti e asciutti, e infine mi immergo nella vasca.

    Che bel tepore, penso, mi rilassa immergermi nella vasca al caldo, con l’acqua che si muove ad un mio movimento, come se mi cullasse.

    Sono passati 5 anni, di già, mamma... mi dispiace.

    Per evitare di piangere ed entrare in uno stato di catalessi totale, mi asciugo una lacrima che stava per scendere da un occhio, e mi immergo fino al naso nell’acqua calda. Sento un rumore provenire dal salotto, e una voce femminile che urla.

    Deve essere arrivata Sophia, penso.

    «Diana! Perché ci sono orme di zampe piene di terra in sala? Ah!! Il tappeto della cucina, oh no!» Decisamente è Sophia.

    Faccio mente locale, Moonlight sarà andata in giro per casa a quanto sembra. Le urlo di venire in bagno, e lei obbedisce; apre la porta e io lancio un gridolino per l’aria fresca che entra come una zaffata ghiacciata dal monte Everest, poi le chiedo scusa per non averla probabilmente asciugata e pulita per bene.

    «Non c’è problema, a primo impatto mi spavento, poi però mi riprendo. Tanto pulirai tu, vero Diana? In questa casa, chi fa i danni, pulisce! In ogni caso, cambiando argomento... com’è andata la giornata? Alla fine non ci siamo parlate oggi, tra impegni vari e disguidi meteorologici!» mi domanda la mia amica con fare agitato.

    Io le faccio cenno di uscire dal bagno; dopo essermi asciugata e infilata il mio pigiama primaverile preferito, visto che siamo a fine maggio, raggiungo Sophia in salotto.

    Lei si era letteralmente sdraiata sul divano lillà a elle, il nostro preferito; stava cercando a tastoni il telecomando della TV al plasma addossata al muro di fronte al divano, ma inutilmente. Glielo passo io.

    «Sophia, grazie per l’interessamento, francamente non so quanto possa esser una bella idea quella di trovarmi un secondo lavoro. Insomma, va bene che con il lavoro a scuola non guadagno tanto, ma... un secondo lavoro mi sembra troppo per me. Credo di non potercela fare!» confesso tutto d’un fiato.

    Lei afferra il telecomando e lo appoggia vicino alla sua gamba, ma resta un attimo ferma, in silenzio, poi mi fissa.

     «Scusa ma non eri stata mica tu a dire qualche giorno fa che avevi bisogno di fare dell’altro per staccare dalla scuola? Hai buttato giù tu l’idea di cercare un secondo lavoretto, magari part-time, per guadagnare qual cosina in più... Sì, è vero il fatto che un secondo lavoro non ti darebbe vita facile, ma devi chiederti quali siano le tue priorità, Diana. Secondo me fai bene! Io lavoro 14 ore al giorno nel negozio di catering, e siamo surclassati letteralmente di richieste di lavoro, ordinazioni, preparazioni di servizi catering per matrimoni, comunioni e tutto il resto! Sono esausta anche io... e dire che io di energie ne ho anche fin troppa! In ogni caso, se ben mi ricordo... Domani hai quel colloquio all’hotel Olympya, in centro, giusto? In bocca al lupo!» mi risponde, cliccando sul pulsante di accensione del telecomando, mettendo fine alla conversazione.

    In effetti sono le 22.30, meglio andare a dormire.

    «Ah, Diana... Vuoi un parere? Secondo me ti aiuterebbe anche... a superare le tue crisi... per quello che è successo. E’ come una ferita che non guarirà mai, o se guarirà, ci metterà del tempo. Fidati di me, fai bene. Sii sicura di te, vai a testa alta, vivi giorno per giorno, amica mia» e mi lancia un occhiolino.

    Carpe diem.

    In fondo ha ragione. Sophia avrà anche a volte un caratterino tutto pepe, ma so che mi vuol bene.

    Mi sta sempre accanto, nel bene e nel male. Se non ci fosse lei, che mi spronasse e mi aiutasse, mi consigliasse e mi svegliasse dagli stati catatonici di tristezza in cui cado tanto spesso ultimamente, non so dove sarei. Forse in un manicomio, o in un ospedale. Le rispondo facendole un bel sorriso, e le auguro la buonanotte.

    Quando mi sdraio sul materasso, tento di rilassarmi, di distendere i nervi che sono tutti un fascio unico, strizzati in una morsa di nervosismo o ansia per l’indomani. Francamente non so cosa aspettarmi, ma seguo il consiglio della mia amica, vivere giorno per giorno, cercando di viverlo come se fosse l’ultimo.

    Bisogna avere un atteggiamento positivo nella vita, ottimistico, altrimenti le cose vanno male, anche se non te lo dice l’oroscopo – che giusto per essere sinceri, non credo dica cose veritiere.

    Spengo la luce, rimango solo con la lucina fioca del mini-lampadario sul comò, che riflette ombre sulle pareti e sulle persiane di legno, chiuse. La testa appoggiata sul cuscino, le braccia che si distendono arrendevoli lungo il mio corpo, i piedi intirizziti, quasi come se si fossero informicolati, una sensazione strana sulla bocca dello stomaco, pensieri che frullano nella mia mente.

    Tutte le sere succede la stessa cosa: guardo la mia stanza, oscura, cupa, immersa nel buio, tranne che per quelle ombre tremolanti, sento il silenzio interrotto soltanto dal ticchettio delle lancette dell’orologio a muro, percepisco il freddo delle pareti, anche se non siamo a dicembre, fisso le coperte morbide e calde che sembrano voler fungere da protezione ma che in realtà è solo una pura e semplice impressione.

    Tutto è illusione, tutto è fantasia o immaginazione.

    Quando finalmente spengo anche la lucina del comò, mi immergo totalmente nelle coperte, tirandomele su fino al naso, sperando che mi possano proteggere dalle ombre che si aggirano intorno a  me.

    Conto i secondi, i minuti, le ore, per prendere sonno; sento uno sguardo fisso, che a volte mi sorride, a volte mi guarda arrabbiato o stranito – non riesco a distinguerlo chiaramente – altre volte ancora sembra sussurrarmi qualcosa nell’orecchio.

    Mi sento sola, è questa la verità, ormai sono sola, non ho più una famiglia; è come se sentissi di essere in trance, come se ci fosse qualcosa o qualcuno che mi impedisce di muovermi, di pensare, o di addormentarmi e riposare. So che c’è qualcosa, la percepisco, qualcosa di strano e soprannaturale, qualcosa di perfido, che solo di notte si fa vivo e tenta di ossessionarmi. Ma forse è solo la mia paura.

    Forse sono le cose brutte che ogni giorno ci perseguitano, scandiscono la nostra vita, o forse è solo un modo per proteggersi dal dolore, o proteggersi dai pensieri negativi per far sì che non ti distruggano a loro volta.

    Ci sono persone che hanno paura del buio, di ciò che non sanno, di ciò che potrebbero capire o conoscere e che li distruggerebbe. Ho paura dei miei pensieri, ho paura di essere presa per mano e trascinata via come se fossi un pezzo di stoffa in un uragano, ho paura che possano prendere il sopravvento su di me. Tutti mi dicono che si possono sconfiggere i mali, i pensieri negativi, la paura. Bisogna solo concentrarsi sulle cose belle di ogni giorno, come la mamma che ti abbraccia se prendi brutti voti a scuola, o il papa che ti chiede dove sei stata il sabato sera, le amiche, quelle vere, che ti abbracciano e non ti giudicano mai neanche quando fai cose orribili, come quando ti viene detto un semplice Ti voglio bene, dalle persone a cui vuoi più bene. È così che in parte si sconfigge la paura, giusto?

    Vorrei dire un immenso Grazie a tutte quelle persone che mi hanno amata, e che mi amano. Peccato che ho solo vicino Sophia; mia mamma e mio papa mi hanno amata, ma ormai è da tempo che non possono più sorridermi o rimproverarmi.

    Lo possono fare da lassù. Dove splende il sole. O la luna.

    CAPITOLO 3

    Questa mattina mi sono alzata insolitamente piena di energie, e sorridente.

    Strano, ho pensato, forse oggi è l’inizio di qualcosa di positivo.

    Pare essersene accorta persino Sophia, che quando entro in cucina, sta dando da mangiare le crocchette a Moonlight, sempre affamata.

    «Diana, hai dormito bene, vedo! Sono contenta! Ti sei rilassata con il bagno di ieri sera?» mi domanda sorridendomi.

    «Si, devo dire che in effetti mi sento abbastanza piena di energie, ma non so se è stato il bagno. Forse sì, chissà! In ogni caso, sono pronta a vivere questa giornata! Sai... ho pensato a quello che mi avevi detto tu ieri sera, prima di andare a dormire. Vivere giorno per giorno, godendosi i momenti belli e brutti che si possono vivere, e che sono preziosi, senza sconforto o rimpianto. Sai essere saggia, a volte, Sophia!» le dissi con affetto.

    Mi ritrovo improvvisamente abbracciata dalla mia amica, che mi stringe forte, quasi come se non dovesse vedermi più per un’intera esistenza.

    «Diana, lo sai che ti voglio un bene dell’anima. Devi solo credere in te stessa, sei una ragazza bellissima, anche se tu non pensi di esserlo. Ti definisci ‘robusta’ per esempio, e quando andiamo in giro per le vie della città facendo shopping, tu eviti come la peste i negozi di vestiti, storci la bocca vedendo altre ragazze magre che si provano di tutto, e si lamentano davanti allo specchio o nel camerino, dicendo Oh no! Sono ingrassata di 1kg! Sono infantili, non sono mature, devi capirlo che invece tu hai un bel corpo, da far invidia persino me!» e sbatte il palmo della mano destra sul suo cuore «E sei anche molto intelligente! Hai una cultura che dire vasta è un eufemismo, sai. Ho sempre invidiato anche questo tuo lato al liceo e all’università: tu appena leggi una singola volta qualcosa, che sia un concetto o una pagina di un manuale, lo sai a memoria. Lo spieghi talmente bene, come se lo avessi già studiato. E io non so come fai, credimi, vorrei avere la tua memoria fotografica o quello che è! Io sono negata nello studio, lo sai. Grazie a te, Diana, sono riuscita a laurearmi. Ci sei stata sempre tu al mio fianco, e io mi sono ripromessa di esserti amica per sempre.» e mi stringe ancora più forte in un altro abbraccio.

    Mi piace essere abbracciata, mi sento amata.

    Le sussurro che la ringrazio davvero tanto per essere così gentile, e lei mi da uno sbuffo sulla guancia, come faceva mia madre quando ero piccola. Avevo le guance così piene e rosee, mi diceva, che era bellissimo pizzicarle... un altro ricordo di una vita che sembra addirittura una vita passata, che non può più ritornare. Ma devo resistere; devo affrontare una giornata importante oggi.

    Corro in camera per vestirmi, optando per dei jeans scuri eleganti, stivaletti al polpaccio, e una maglina nera. Più neri sono i miei vestiti, più mi sento meglio.

    Sarà un paradosso umano, ma per me è sempre stato così. Sophia non ha mai vinto la sua battaglia nel comprarmi qualche vestito colorato, o bianco, e credo non ci riuscirà mai. Semmai il blu o il rosso corallo, ma... non il bianco. Non rasenta il mio umore o la mia personalità, perché se lo indossassi mi sentirei nuda, scoperta.

    E non va bene.

    Prendo la borsa, ci infilo dentro lo stretto necessario, cellulare, chiavi della macchina, quelle di casa, agenda, e poco altro; corro poi in bagno per darmi una sistemata sul viso, visto che sono di carnagione chiara, sembro quasi pallida, eterea; a volte mi spavento da me, perché assomiglio ad un cadavere che cammina con brutte occhiaie. Decido di optare per un trucco semplice, cipria, fard sulle guance, mascara e rossetto nude.

    Quando capisco di aver fatto un buon lavoro, mi pettino i lunghi capelli castano mogano a boccoli ed esco in fretta e furia, dirigendomi verso la cucina. Afferro il brick del succo d’arancia e me ne verso un bicchiere, mandando anche un biscotto preso in prestito da Sophia. Lei mangia tantissimo ed è magra come un fiammifero, io invece appena bevo un bicchiere d’acqua mi gonfio come un palloncino e mi sento scoppiare.

    Com’è ingiusta la vita, penso.

    Senza rimuginarci oltre, la saluto con la mano, accarezzo velocemente Moonlight, afferro la borsa e mi precipito verso l’ascensore. Oggi non ho voglia di farmi cinque rampe di scale, non ne ho né il tempo, né la voglia. Una volta arrivata al pian terreno, mi fiondo verso il garage in comune, metto in moto la mia adorata Kia Picanto rosso fuoco e scatto alla velocità della luce per la strada provinciale a pochi kilometri di distanza.

    ***

    Ci impiego circa 25 minuti a raggiungere l’hotel Olympya.

    Pensavo di trovare più traffico ma fortunatamente sembra che oggi il mondo sia clemente con me. Sono arrivata persino in anticipo: sono le 8.40 e io ho il colloquio fissato alle ore 9.

    Mi siedo su un divanetto nella sala ospiti, e una segretaria, che era alla reception, corre verso di me, fissandomi e squadrandomi da capo a piedi.

    Sembra che stia guardando un alieno, con quei suoi occhi blu, così piccoli, ridotti quasi a fessure, un naso pronunciato ma elegante, e una bocca sottile che sembra far comparire tutta una fila di denti bianchissimi. È eterea e biondissima, vestita con un delizioso tailleur nero e camicia di seta bianca.

    Probabilmente sono io che sono fuori posto, comincio a pensare, magari vestirsi così semplice acqua e sapone non è stata una bella idea...

    E comunque un tailleur così elegante non lo ho nel mio armadio, non potrei neanche permetterlo, persino se volessi. È un hotel magnifico, tutto illuminato, sembra uno di quegli hotel che ospita vip e star del cinema o modelle.

    Un’entrata piccola ma ad effetto, quando si entra nella hall, si ha l’impressione di entrare in una galleria d’arte moderna. Vetrate, quadri alle pareti, pareti bianchissime e pilastri neri, un arredamento minimale ma d’effetto: non ho mai visto un hotel così, prima d’ora. Sembra un hotel particolare, gestito da una persona che se ne intende.

    La reception è in fondo alla hall, al centro: un enorme bancone nero lucido, con sopra dei computer; fanno capolino da dietro tre bellissime ragazze bionde, rigorosamente in tailleur, che accolgono i clienti, e fungono anche da segretarie a quanto pare.

    Sui due lati della hall si stagliano due magnifiche scale di marmo rosa che salgono arrampicandosi a chiocciola su per il colonnato principale; un’eleganza infinita persino nel corrimano, fatto di marmo nero.

    Un connubio molto strano, azzardato, mischiare il moderno con l’antico, mi dicevo, eppure alla fine è incredibilmente bello.. mozzafiato!

    Non essendoci mai entrata, non sapevo cosa aspettarmi, ed è per questo che mi sono seduta su un divanetto su un lato della hall.

    Ed è in quel momento che la segretaria con gli occhi a fessura è arrivata a darmi il benvenuto e a esaminarmi quasi come se fossi una specie in via di estinzione. A pelle non mi sta simpatica, proprio per niente. Sembra giovane ma altezzosa, sembra far parte di quelle ragazze tutta carriera, con la puzza sotto il naso, che non aspetta altro che il momento di andare dall’estetista o dal parrucchiere, o a fare shopping. E dire che io sono comunque una persona che fa amicizia facilmente, o che risulta simpatica alla maggior parte delle persone, comunque, ma con lei... non so, sento dell’astio o del nervosismo provenire da quella ragazza.

    Le domando gentilmente con voce calma e bassa dove si tiene il colloquio di lavoro. Mi chiede il mio nome e una volta annotatolo su una cartellina che stringeva fra la mani, mi indirizza con un braccio verso una delle due rampe di scale.

    «Prego, signorina Lovebell, da questa parte. La accompagno fino in cima alla scalinata, poi girerà a sinistra, e vedrà una porta di legno massiccio con una targhetta dorata. Dovrà entrare lì dentro, l’aspetterà la signora responsabile del personale, che le darà tutte le informazioni necessarie sul colloquio», mi dice con noncuranza la segretaria bionda, come se fosse infastidita.

    O forse sono io che me lo immagino, penso, magari sono tesa, anzi, sono tesa, come una corda di violino.

    Infatti mi accorgo che mentre salgo l’immensa scalinata di marmo, non sono stabile a livello di equilibrio, mi tremano le mani, sono tutte sudate, comincio a sudare anche sulla fronte, e non è un bel segno. È sintomo che devo calmarmi, altrimenti sverrò come un broccolo appena entro in quella stanza.

    Togliamoci il sassolino dalla scarpa, mi continuo a ripetere, non sarà mica così brutto.

    Non è la prima volta che faccio un colloquio di lavoro.

    Arrivo di fronte al portone di legno, mi controllo con lo specchietto portatile il trucco, mi rimetto a posto per bene il giacchino nero di pelle elegante che avevo optato quella mattina su consiglio all’ultimo secondo di Sophia, e faccio un grosso respiro a bocca aperta.

    Peggio che andare a fare un prelievo del sangue.

    Appoggio la mano sul pomello della porta, la spingo piano, un misto di paura mi assale, non so per quale motivo. Trovo una saletta confortevole con delle sedie e dei tavolini bassi, di vetro, con sopra delle riviste, l’ambiente è confortevole, anche qui ci sono pareti chiare con quadri appesi alle pareti, che raffigurano in parte natura morta, paesaggi naturali ed fenomeni naturali, come un affascinante tramonto del sole dietro una catena montuosa innevata.

    Strani gusti, un sole che si eclissa dietro delle montagne innevate, penso, il sole dovrebbe sciogliere la neve, o la neve esser sciolta dal sole, eppure... Qui tutto sembra risplendere.

    Cammino a passo lento e inesorabile verso un enorme bancone nero lucido, posizionato anche qui al centro della stanza, e dietro di esso, una donna sulla quarantina, capelli castani e occhi verdi profondi. Una bocca che sorride, ma un sorriso piacevole, rassicurante, caldo, come quello di una mamma... Ma l’ho già visto? Francamente non ricordo, non credo, ho però la vaga netta sensazione di sì. Strano.

    Le gambe sono sempre più pesanti mano a mano che cammino; arrivo davanti al bancone, mi guardo attorno e noto altre due ragazze più appariscenti di me, sedute su due sedie, intente a leggere dei moduli. La signora mi saluta con una voce anch’essa calda, tenera, che sembra conoscermi da tempo, mi domanda come mi chiamo e mi consegna in mano dei moduli da compilare. Li afferro e mi siedo su una sedia, lontano dalle altre due ragazze.

    Tiro fuori una penna dalla borsa, e comincio a riempire gli spazi vuoti con i miei dati personali e formali. Dopo aver riconsegnato il modulo compilato alla signora dietro il bancone, ritorno a sedermi sulla sedia, aspettando il mio turno per il colloquio; dopo le due ragazze, e quindi circa un’ora, sento il mio nome a voce alta pronunciato da quella signora, che mi guarda con sguardo dolce e gentile, invitandomi a sedere davanti a lei, e rispondere alle sue domande.

    Il lavoro da quanto avevo letto giorni prima sull’annuncio, consisteva nel passare i tre mesi estivi che sarebbero iniziati di lì a poco come interprete e traduttrice in hotel, soprattutto svolgere attività di interpretariato con clienti stranieri.

    C’era scritto part – time, cosa che mi aveva colpita subito e in più interpretariato mi è sempre piaciuto moltissimo, perché avrei parlato con persone straniere, di lingua e cultura diverse dalla mia, e mi sarei così potuta anche confrontare, e fare esperienza; inoltre i tre mesi estivi andavano benissimo, visto che l’attività d’insegnamento a scuola calava durante l’estate ( i ragazzi non andando più a scuola, usufruivano di meno dei servizi scolastici estivi).

    Il colloquio infatti si svolge in maniera tranquilla, serena, la signora mi pone delle domande in inglese, in francese e in spagnolo, chiedendomi cose quotidiane, interessi, informazioni, facendomi parlare in maniera sciolta; poi passa alle informazioni meramente professionali, burocratiche, come le norme per l’accoglienza dei clienti di un hotel, e così via.

    Al termine, la signora annuncia a me e alle altre due ragazze presenti di accomodarci fuori dalla stanza, in attesa del responso: si sarebbe consultata con tutto il CDA, il Consiglio di Amministrazione dell’hotel, e avrebbero discusso sull’esito dei colloqui. Aspetto circa tre quarti d’ora fuori nel corridoio lastricato di marmo, insieme alle due ragazze, che si chiamano Ashley e Victoria, poi veniamo chiamate tutte insieme all’interno della stanza e dietro il bancone, c’è sempre la signora di prima, sorridente come avesse avuto una notizia meravigliosa:

    «Ragazze, dovete scusare me e il CDA per avervi fatto aspettare così a lungo, ma abbiamo avuto molto di cui discutere. Tutte voi siete ragazze fantastiche, educate, professionalmente nulla da dire, anzi. Mi fa piacere che esistano ragazze con così sani principi. Tuttavia, c’è solo un posto disponibile, e abbiamo discusso su quale di voi tre sarebbe stata la più idonea a questo posto. siamo arrivati ad una conclusione finalmente, e siamo tutti concordi nell’annunciare con enorme piacere che il posto è di... Diana Lovebell. Congratulazioni, signorina Lovebell! Si fermi per il contratto, lo stipuleremo fra poco. Intanto ringrazio davvero le altre due ragazze, le invito ad uscire, non prima però di avervi fatto un enorme augurio per il futuro» dice la signora, stringendo caldamente la mano di Victoria e Ashley, e infine guarda dritto negli occhi me.

    Ho una strana sensazione, sembra quasi che quegli occhi mi riconoscano, mi trafiggano come frecce al bersaglio, come se entrassero direttamente nel mio io interiore, e scandagliassero le mie paure più profonde e i miei dolori.

    Che strane sensazioni, continuo a pensare, non è la prima volta oggi... che io stia male?

    Non ho il tempo per pensarci oltre, che la signora mi stringe ancora calorosamente la mano e si complimenta con me, forse un po’ troppo, ma non ci pongo tanta attenzione. Magari è una signora dolce e basta, non può essere?

    Perché coloro che fanno i colloqui si pensa che siano tutti freddi, introversi, riservati, interiormente frustrati, o semplicemente indifferenti. Non tutti sono così e fortunatamente ne ho conosciuti di casi del genere, non mi posso lamentare.

    Mi porge dei fogli pinzati, il contratto, che devo stipulare e firmare in calce per ogni singola pagina; mi siedo, afferro la penna, e comincio a leggere, perché sono una persona molto attenta e responsabile sotto questo punto di vista. So che bisogna leggere fedelmente e con attenzione qualsiasi documento scritto, amministrativo e non, che contenga informazioni importanti, quindi ci impiego dieci minuti buoni per completare il tutto. Ciononostante, la signora non mostra nessun atteggiamento di fretta, anzi, è seduta tranquillamente sulla sua poltrona girevole e aspetta serenamente che io finisca di compilare le pagine.

    Megan Joyce, leggo alla fine in calce sull’ultimo foglio.

    Deve essere il suo nome, penso, me lo ricorderò.

    ***

    «Ringrazio il CDA per aver scelto una così brava ragazza, professionalmente eccelsa, e con un curriculum di tutto rispetto. Un vero angelo » Megan Joyce ringrazia tutti con un inchino, e una stretta di mano, fermandosi sull’ultimo uomo in fondo al tavolo di vetro trasparente.

    «Grazie anche a te, Seth, abbiamo fatto la scelta giusta» conclude con un sorriso verso quell’uomo imponente, alto e fiero, che sorride a sua volta, verso sua madre.

    ***

    «Sophia!! Sono arrivata! Preparati alla notizia bomba!» urlo alla mia amica, che mi guarda con occhi trepidanti, come se ci fosse in ballo una vincita miliardaria alla lotteria. «Mi hanno presa! Sophia, ho firmato il contratto! Ce l’ho fatta!» e abbraccio forte la ragazza che salta come un’ossessa, avendo intuito tutto.

    «Sei stata fantastica, amica mia! Sono davvero felice per te, sono orgogliosa di te, lo sai» e mi da un pizzicotto gentile sulla guancia, com’è solito fare quando vuole dirmi qualcosa di affettuoso.

    Assomiglia in tutto e per tutto a una mamma, anche se ha la mia età, e mi vien da ridere.

    «Raccontami tutto, e con tutto intendo TUTTO quello che è successo Diana! Voglio sapere tutto nei minimi dettagli!» urla Sophia, assatanata di informazioni.

    Le racconto tutto quello che è successo e alla fine si complimenta con me, tuttavia non le confesso che ho provato strane sensazioni diverse e particolari, da quando ero entrata in quella hall a quando sono uscita trotterellante e felice, gettandomi in macchina e accendendo subito lo stereo a palla.

    Non capirebbe, voglio evitare di creare paranoie ad altri, quando magari le credo persino in me stessa. Le dico che inizierò la mattina seguente, farò in hotel le mattine infrasettimanali e anche la sera del fine settimana, e Sophia mi guarda accigliata: «Sai, ti dicevo che un secondo lavoro per te sarebbe stata la cosa migliore, ma tutte le mattine infrasettimanali più anche le sere del fine settimana... non è forse un po’ pesante? Ricordati che devi coniugare gli impegni in hotel con quelli della scuola, perché va bene, in estate non ci saranno tanti ragazzi, ma comunque farete dei corsi scolastici, dei recuperi nelle più svariate materie e non è cosa facile. Tu sei responsabile del reparto Lingue straniere, e insegni anche materie umanistiche, non ti stancherai tanto, vero?» mi dice con un tono preoccupato.

    «Non preoccuparti, Sophia, riuscirò a cavarmela, come ho sempre fatto. Sai che mi servono più soldi, se voglio metter via qualcosa. La crisi è pesante, e con la scuola riesco a malapena a pagare l’affitto del tuo appartamento, fare la spesa, pagare le eventuali bollette, e permettermi poche altre cose. Io vorrei invece risparmiare di più per il mio obiettivo... sai qual è vero?» la guardo con occhi complici.

    «Comprarti un cavallo?» risponde ironicamente, mentre le tiro un calcio nel fondoschiena, mentre lei si dirige verso il frigorifero accanto alla porta della cucina.

    «No! Ma che, scherzi! Beh, magari anche quello... Ma non ora! No! Intendevo metter via del denaro per fare un viaggio, o comunque andare all’estero, realizzarmi appieno insomma. E poi crearmi una famiglia, comprarmi una casetta o un appartamento mio... vorrei essere il più indipendente possibile, lo sai!» sbotto ormai esausta.

    Sophia mi da una pacca sulla spalla, sorridendo: «Lo so, lo so amica mia. E fai bene! Beata te che sei ancora piena di sogni!»

    La sera la passo in compagnia di Sophia e di Moonlight, sul meraviglioso nonché super comodo divano lillà in salotto: vedere un film con la mia migliore amica e la mia cagnolina mi mette sempre felicità! Ridiamo e scherziamo come due sedicenni, anche se ormai quei tempi sono passati.

    Sono lontani, purtroppo.

    Io vorrei tanto poter tornare indietro, recuperare quegli anni liceali, passati solo a studiare e a giocare a pallavolo; desidero tanto poter cambiare le cose, il destino, l’incidente, tutto. Ma non posso, non si può rigirare la clessidra e tornare indietro nel tempo, risolvere i problemi o mettere a posto la propria vita, e ritornare ad oggi, così con uno schiocco di dita, puf.

    Sarebbe bello però, che magari qualcuno prima o poi riesca ad inventare una macchina del tempo; sono sicura che quando arriverà quel momento, andrà a ruba!

    Intorno alle 22, mi alzo dal divano, faccio due esercizi di stretching, saluto Sophia, augurandole la buonanotte e mi fiondo dritta in camera a dormire.

    Spesso mi è stato detto che sono una gallina che va a dormire prestissimo la sera, per poi alzarsi di prima mattina al canto del gallo; oppure che sono una vecchia nonnina che si addormenta presto, per poi svegliarsi all’alba.

    In realtà è vero che adoro andare a letto presto la sera, per poi essere sveglia di primo mattino il giorno dopo, ma è per abitudine più che altro; fin da piccola sono stata solita far così, e questo mi è rimasto fino ad oggi. Sophia esce spesso la sera, e resta fuori per non so quanto tempo; a volte mi rimprovera su questo, e mi costringe ad uscire insieme a lei e ai nostri amici del gruppo di scuola e di catering.

    Ho tantissimi amici in generale, conoscenti, persone che mi vogliono bene; non ho una famiglia, questo è vero, però riesco comunque ad andare avanti con l’affetto di tutti, anche se dentro di me sento una voragine dantesca. Tuttavia, i veri amici, quelli fidati, li conto sulle punta delle dita della mia mano destra, e Sophia è sul pollice. Questa sera però è diverso: non è solo questione di abitudine ma è soprattutto per abituarmi a quello che avverrà dal giorno successivo, ovvero che mi toccherà svegliarmi per il periodo estivo all’alba, per raggiungere il posto di lavoro all’hotel in pieno centro, per poi correre direttamente a scuola, che è se non dall’altra parte della città, quasi.

    Dopo aver concluso anche il lavoro a scuola, tornerò a casa, se siamo in un giorno infrasettimanale; se invece siamo nel fine settimana ( a parte la domenica, che la scuola non è aperta) mi toccherà ripartire per tornare all’hotel e svolgere la seconda parte del lavoro fin sera tarda.

    Che estate coi fiocchi! penso, però dovrò essere matura e resistere, per il mio bene.

    CAPITOLO 4

    Sono stancaaa..... chissà che ore sono.... Oh mio Dio!

    Spalanco gli occhi e vedo sulla sveglia delle cifre che mi sembrano spuntate dall’inferno.

    Cerco di metterle insieme e, caspita!

    Non è possibile, Sophia non mi ha svegliata!

    La svegliata segnava la bellezza delle 7.50.

    E io dovrei iniziare il lavoro all’hotel alle 8.30.

    Benissimo!, penso, non passa neanche un giorno di lavoro, che sarò addirittura già licenziata! Sono la ragazza dei record negativi, l’ho sempre saputo!

    Comincio ad urlare infischiandomene di svegliare l’intero palazzo, chiamo a gran voce Sophia, che si è letteralmente addormentata, anzi direi collassata – dalla stranissima posizione contorta  che ha assunto e in cui l’ho trovata – sul divano lillà. E Moonlight era anche lei a pancia in su sul cuscino.

    Fantastico! Nessuno ha sentito la sveglia!, impreco dentro di me.

    Succede sempre così: quando non devi fare nulla, il tempo passa velocemente e tutto è OK.

    Quando invece si ha fretta, o bisogna far qualcosa, specialmente qualcosa di importante, come per esempio andare al lavoro il primo giorno, capita sempre il peggio!

    Scuoto forsennatamente Sophia, svegliandola di colpo, mi tira un cuscino da sotto la testa addosso, scaraventandomelo direttamente sul volto. Perdo il senno, sono agitata e nervosa per il nuovo lavoro, non capisco più nulla, sono in crisi di sonno, e non ho tempo.

    Ma perché capitano tutte a me? , mi scappa una risatina ironica, tra l’ilare e il pianto a dirotto.

    Spiego velocemente a quella ragazza che si sta stiracchiando gli arti con tutta calma e pace del mondo, che nell’arco di massimo un quarto d’ora dovrei esser pronta esteriormente e psicologicamente ad andare al lavoro, visto che è in centro l’hotel, mi ci vorranno circa altri quindici minuti.

    Se tutto va bene. Ne dubito. Comunque la speranza non è mai l’ultima a morire, vero? mi domando, con un atteggiamento negativo, che non va per niente bene, considerato il momento cruciale della mia esistenza.

    Sophia, in circa due minuti e mezzo, capisce il dramma in cui mi trovo, mi strilla che non è colpa sua se non ha sentito la sveglia, che si è letteralmente addormentata sul divano vedendo il film, e che mi avrebbe aiutata subito. Infatti corre decisa in camera mia e analizza il contenuto del mio armando, facendo una specie di selezione vestiaria su cosa potrei, anzi dovrei mettermi, per andare al lavoro quella mattina. Io mi dirigo velocemente in cucina, bevo un bicchiere di succo all’arancia, altrimenti vado in overdose, come coloro che adorano bere il caffè, e se non lo bevono, rimangono storditi tutto il giorno.

    Ecco, con me è così, solo che al posto del caffè, bisogna sostituirci il succo all’arancia rossa. Mi da l’energia e l’umore necessario per affrontare almeno dodici ore non – stop di lavoro. Poi mi dirigo quasi volando verso il bagno, dove mi trucco leggermente, in maniera elegante e carina, aggiungendo anche un filo di ombretto rosa, così le mie occhiaie, borse e tutto quello che ci può essere stampato sul mio volto non risalteranno alla grande davanti al bancone della reception con i clienti.

    Mi fiondo fuori dal bagno verso la camera alla velocità della luce, indossando i vestiti che Sophia mi porge: un paio di pantaloni neri gessati eleganti e stretti sulle caviglie, camicia bianca con stampa gialla e nera di raso, un copri spalle nero e un foulard bianco a pois.

    Ma che razza di vestiti mi ha dato, mi domando.

    Se ne è convinta lei, convinti tutti, non ho il tempo di decidere che vestiti mettere purtroppo.

    Chiedo a Sophia di portarmi un paio di scarpe, quelle che lei reputa idonee, tanto ormai quel che ho indosso, non posso più togliermelo e contemporaneamente io mi do da fare nel riempire la borsa di tutto l’occorrente, quali portafogli, cellulare, chiavi di ogni sorta, e così via, sperando di non dimenticare qualcosa a casa.

    Sicuramente sarà così, ora non ne ho il tempo, e mi faccio il segno della croce sperando che vada tutto bene.

    Indosso al volo le scarpe décolleté nere lucide che mi posiziona davanti ai piedi Sophia, grandissima Sophy! Devo ricordarmi di ringraziarla a fine giornata, se

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