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Mexico 1846
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E-book448 pagine6 ore

Mexico 1846

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Info su questo ebook

Messico, 1846. Le truppe messicane di Santa Ana sono ormai in rotta e gli americani si accingono a conquistare sul campo la vittoria che permetterà agli Stati Uniti di annettersi enormi porzioni di territorio come l’Arizona, la California e il Texas. Un gruppo di guerrilleros capeggiato dal leggendario Don Peralta però continua a combattere contro i gringos invasori utilizzando le efficaci tecniche della guerriglia. Sono molto più che banditi, sono combattenti del popolo che collaborano con quel che resta del mitico San Patrick Batallion. Il destino di Aureliano, giovane pistolero, si intreccia con quello di Carmelita, una avvenente locandiera che riuscirà a salvare dalle violenze dei gringos, e di John Sinclair, spietato cacciatore di taglie inviato proprio per farla finita con i guerrilleros. Tra sanguinose battaglie, tradimenti spietati e amori impensabili le avventure dei personaggi proseguiranno negli Stati Uniti sino a giungere alla vigilia della guerra civile americana, in un contesto dove operano bande di indiani, impresari senza scrupoli e fuorilegge; un mondo vivace e adrenalinico dove dietro ogni cactus potrebbero nascondersi improvvise rese dei conti. La posta in gioco? La stessa vita.

LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2020
ISBN9788868153472
Mexico 1846
Autore

Daniele Cardetta

Daniele Cardetta è nato a Torino nel 1983. Dopo aver conseguito la laurea specialistica in Storia Contemporanea si è dedicato a diverse attività, tra cui giornalismo e scrittura creativa. Nel 2012 ha pubblicato il suo primo romanzo La Rivincita di Zord, prima parte della trilogia de La città ribelle, conclusasi con l'uscita de I fiori della battaglia nel 2013 e La giustizia della spada nel 2015, tutti editi da Nettuno Lab. Grande appassionato di storia e cultura, l'autore cerca con le sue opere di affrontare temi variegati ma sempre attuali, offrendo un contenuto e una narrazione diversi dal solito.

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    Anteprima del libro

    Mexico 1846 - Daniele Cardetta

    Mexico 1846

    romanzo

    Daniele Cardetta

    Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2020

    Copyright Daniele Cardetta, 2020

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868153472

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    Indice

    Frontespizio

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    Licenza d’uso

    Daniele Cardetta

    Copertina

    Mexico 1846

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

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    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, è necessario acquistare una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, siete pregati di acquistare la vostra copia.

    Grazie per il rispetto verso il duro lavoro di questo autore.

    Daniele Cardetta

    Daniele Cardetta é nato nel 1983 a Torino. Dopo essersi diplomato al liceo classico Vittorio Alfieri si è laureato in Storia Contemporanea presso l’Università Degli Studi di Torino. Grande appassionato di storia, letteratura, sport, politica e cultura, ha pubblicato la sua prima trilogia fantasy nel 2012, La città ribelle, con NettunoLab. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo romanzo storico con Meligrana Editore, The Black Star, ambientato nel Settecento.

    Contatto autore:

    dancardetta@gmail.com

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    Mexico 1846

    Pensavano di averci seppellito. Ma non sapevano che noi eravamo semi.

    Proverbio messicano

    Capitolo I

    Aureliano percorreva da un’ora buona un sentiero di terra battuta che serpeggiava tra le aride campagne di Città del Messico. Era un uomo di venticinque anni, pelle olivastra, capelli ricci corvini e folti baffi che gli davano un aspetto più maturo della sua età. Si deterse il sudore con il dorso della mano, alcune gocce caddero sui suoi stivali da mandriano. Portava un cappello a falde larghe per proteggersi dal sole e i suoi occhi color dell’ossidiana saettavano da un cactus all’altro come se temesse di imbattersi in ombre sospette.

    La mano discese sulla cintura a cercare il conforto del calcio della sua pistola, una Colt Walker che aveva preso a un ranger tempo prima, doveva essere pronto a tutto. Da quando i gringos avevano invaso il Messico tutto era cambiato e ora che l’esercito di Santa Ana era in rotta il rischio di imbattersi in gruppi di irregolari e di ranger senza scrupoli era molto alto.

    Folate di vento alzavano nubi di polvere rossastra che lo costringevano a coprirsi il volto con le mani mentre procedeva, il suo cavallo era esausto e presto avrebbe dovuto fare una sosta per rifocillarlo. Si imbatté quasi per caso in un vecchio di bassa statura, un contadino. Dimostrava una cinquantina d’anni e, a giudicare dagli occhi spiritati, doveva aver visto qualcosa di terribile. Aureliano gli andò incontro lungo il sentiero, in lontananza si intravedevano i contorni sfuocati delle case di un piccolo villaggio che sorgeva come un’oasi in mezzo alla terra brulla. Uno dei tanti piccoli paesi abitati da gente operosa e tranquilla di quelle terre martoriate dalla guerra e dalla miseria.

    «Amico scappa sono arrivati i gringos».

    Si sbracciò il contadino indicandogli il villaggio. Aureliano gli si avvicinò incuriosito mentre le dita della mano picchiettavano nervosamente sulla pistola.

    «I gringos? e quando?»

    «Due ore fa, amico, sono arrivati e hanno dato alle fiamme tutte le case. Io sono fuggito con la mia famiglia al sicuro a Santa Clarita. Sto andando in giro ad avvisare conoscenti, meglio andarsene».

    Aureliano lesse del sincero terrore nelle sue parole e non lo trattenne oltre. Non ascoltò il suo consiglio e continuò lungo il sentiero, voleva avvicinarsi al villaggio per capire cosa stesse succedendo. Altri avrebbero aggirato il potenziale pericolo, lui invece andò avanti, all’occorrenza sarebbe stato in grado di difendersi.

    Il sentiero si inoltrava nella campagna e Aureliano decise di legare il cavallo a un albero rinsecchito i cui rami erano simili a serpenti pietrificati dal sole. Abbeverò l’animale con una borraccia e avanzò tenendosi a ridosso del muretto che correva lungo il sentiero. Notò subito che qualcosa non andava, le porte delle fattorie erano sprangate e, a parte qualche cane macilento che si trascinava sotto al sole spietato, in giro non c’era nessuno. Il silenzio venne rotto all’improvviso da alcune urla disperate e, d’istinto, Aureliano estrasse la pistola e cominciò a guardarsi intorno. Decise di inoltrarsi nel villaggio, si trattava di Mulinos Blancos, niente altro che un ammasso di casette miserabili di nessuna importanza strategica.

    Si nascose nell’erba alta ingiallita dal sole e si avvicinò al tozzo campanile della chiesa, le urla provenivano proprio dalla piazza antistante. Notò un paio di ragazzini nascosti tra le rocce e l’erba, lanciò loro un sorriso e fece l’occhiolino, erano terrorizzati e non sarebbe stato di certo lui a tradirli. Il vento portava sempre più urla e voci, erano i gringos. Si acquattò dietro un muretto perimetrale e osservò: un folto gruppo di rangers armati fino ai denti era disposto a semicerchio davanti una fila di una ventina di poveracci. Non ci mise molto a capire quello che stava accadendo, era finito nel bel mezzo di una fucilazione.

    Per un attimo ebbe la tentazione di lanciarsi all’attacco e di sparare sui rangers per creare scompiglio ma si rese conto di quanto sarebbe stato stupido oltre che inutile. A malincuore attese, ormai udiva distintamente i gringos e riusciva a vedere i volti rassegnati e pieni di terrore dei condannati a morte. Era gente semplice e innocente. Maledisse quella guerra. Se non altro si avviava ormai alla fine, ma i rangers forse non lo sapevano o facevano finta di nulla. Alcuni dei condannati avevano ancora indosso l’uniforme dell’esercito, probabilmente erano dei soldati messicani prigionieri. Altri avevano abiti civili ed erano stati quasi di sicuro scelti a caso, solo per seminare il panico e appagare il divertimento dei gringos. Osservò bene il capo di quel plotone di boia, aveva i capelli biondi e un berretto nero con visiera.

    Vide anche un messicano assieme ai rangers, probabilmente era uno di quei traditori della Mexican Spy Company, uomini senza onore che si erano venduti all’invasore per un pugno di dollari. Delinquenti tirati fuori dalle carceri di Puebla e Veracruz dal loro capo Dominguez per fare il lavoro sporco nelle retrovie e facilitare l’invasione americana. Sputò a terra, avrebbe pagato di tasca propria per uccidere uno di quei traditori.

    Pochi secondi dopo il capo del plotone d’esecuzione alzò la mano e tutti puntarono il fucile in attesa dell’ordine. Il tempo si fermò, il silenzio opprimente era rotto solo dal frinire delle cicale e dal ronzio di alcune mosche che Aureliano scacciò con gesti nervosi. Quando il capo dei rangers abbassò la mano con un gesto rapido, spararono tutti all’unisono falciando i prigionieri che caddero gli uni sugli altri simili a pupazzi inanimati. Subito dopo il capo passò in rassegna i corpi e iniziò a finirli uno per uno con un colpo di pistola. Fu in quel momento che Aureliano incrociò lo sguardo con uno dei prigionieri la cui testa emergeva da sotto i corpi dei compagni. Capì che era stato solo ferito, era vivo e disperato. Agì d’istinto e uscì fuori dal suo riparo per avvicinarsi il più possibile al muro dell’esecuzione. Fece attenzione a non farsi notare strisciando tra le rocce mentre l’ufficiale dei rangers continuava nella inesorabile macabra processione di morte. Il ragazzo era il penultimo della fila, aveva ancora qualche secondo. Si sporse dall’altro lato del muro e sparò diversi colpi nel vuoto con l’intento di creare un diversivo sufficiente a consentire al giovane di mettersi in salvo.

    I rangers pensarono di essere sotto attacco e si misero a gridare cercando di capire da dove provenissero gli spari. Senza perdere tempo il ragazzo ferito, con tutte le energie di cui ancora disponeva, rotolò via e scomparve dietro al muro trovandosi faccia a faccia con Aureliano. I rangers li individuarono dopo qualche secondo mentre già correvano per mettersi in salvo e cominciarono a sparare con scarsa precisione. Il ragazzo era ferito alla spalla, era stato particolarmente fortunato in quanto la pallottola lo aveva attraversato senza colpire punti vitali. Sanguinava, ma Aureliano giudicò con una fugace occhiata che non fosse una ferita grave, il loro problema principale era quello di non farsi prendere dai rangers. Il giovane dimostrava diciassette o diciott’anni, aveva come lui capelli ricci e neri ma aveva due occhi azzurro intenso che gli davano un certo fascino. Sotto il mento cominciava a crescergli una rada peluria e Aureliano provò per lui una istintiva sensazione di simpatia.

    «Ti ringrazio amico, se non fosse stato per te avrei già avuto il colpo di grazia» disse mentre si erano fermati davanti a una grande collina per capire che strada prendere.

    «Io sono Paco comunque».

    «Aureliano. Avremo modo di parlare dopo, ora corri».

    Gli assestò una pacca e sorrise al suo sguardo di gratitudine. Dietro di loro risuonavano sporadici colpi di fucile ma i rangers erano ancora lontani. Presto avrebbero preso i cavalli e li avrebbero cercati in lungo e in largo, dovevano sfruttare al meglio quel momentaneo vantaggio. Si inerpicarono come capre sulle colline, madidi di sudore sotto il sole cocente, e cercarono disperatamente un riparo per evitare di essere avvistati da lontano. Braccati, tirarono fuori tutte le energie di cui ancora disponevano e macinarono diversi metri. Aureliano imprecò, non aveva idea di dove fossero e quindi non poteva recuperare il suo cavallo.

    Si fermarono a riposare solo dopo due ore di cammino ai lati di un piccolo ruscello quasi del tutto asciutto, una vera fortuna in quelle terre aride. Si sciacquarono il viso e trovarono refrigerio all’ombra, il sole era ancora alto e sperarono che i rangers avessero rinunciato a sfidare la calura. Quasi certamente avrebbero ripreso le ricerche più tardi, a ridosso del tramonto, per quello potevano concedersi solo una breve pausa. Notò che il giovane stava finalmente riprendendo colorito, forse cominciava a rendersi conto di essere salvo per miracolo.

    «Hai rischiato la vita. Perché mi hai salvato?» chiese Paco mentre si lavava la ferita e cercava di bendarla alla bella e meglio.

    «Non voglio che quei gringos bastardi uccidano altri innocenti. E tu cosa ci facevi lì?»

    «Io facevo parte della guarnigione a difesa della parte sud-ovest di Città del Messico. Quando Santa Ana è fuggito il Generale Montoya si è arreso agli americani e l’esercito si è sbandato» Paco si interruppe qualche secondo come se stesse rivivendo le vicissitudini che lo avevano portato fino a quel punto «sono finito con alcuni compagni a Torre Seca, da lì siamo scappati nelle campagne e i gringos ci hanno trovato».

    «Sarà stato qualche cane di Dominguez a fare la spia stanne certo».

    Intervenne Aureliano infilandosi un cigarillo tra le labbra. Aiutò Paco a sistemarsi la benda e gli fece cenno che potevano proseguire, avevano già perso troppo tempo. Continuarono a imboccare sentieri in salita pensando che inerpicarsi tra le colline fosse un buon modo per dissuadere eventuali inseguitori. In fondo Paco era solo un soldato semplice, difficilmente avrebbero investito tempo e risorse per braccarli.

    «E ora dove andiamo?»

    «Tu puoi andare dove vuoi. Io vado a cercare un amico».

    Capitolo II

    «Per quanto ancora rimarremo in questa maledetta topaia capo?» a porre la domanda a denti stretti fu Francis Bollow, un uomo sulla quarantina che indossava una tipica giubba da ranger con tanto di stivali da mandriano neri e eleganti pantaloni gialli a quadri. Aveva il volto di un uomo navigato, una autentica ragnatela di segni e cicatrici che raccontava sua vita meglio di molte parole.

    «Te l’ho detto Bollow, il tempo necessario. La guerra ormai è vinta, possiamo divertirci».

    Rispose Morgan Bloom senza rinunciare a una punta di cinismo. Era un uomo dai folti capelli rossi e occhi color smeraldo. Aveva uno sguardo spietato, sembrava gelido, senz’anima, non era certo un caso che fosse riuscito a ottenere il comando di un intero battaglione di rangers. Era contento che le loro relazioni umane si limitassero allo stretto essenziale imposto dalla disciplina militare. Per la verità nelle schiere dei rangers di Bloom si poteva contare la peggiore feccia, giovani texani in cerca di fortuna, avventurieri, mandriani dal grilletto facile e anche pendagli da forca, gente che non si faceva problemi a fare il lavoro sporco. Pochi giorni prima aveva dovuto partecipare all’esecuzione di un gruppo di prigionieri in quel di Mulinos Blancos persone innocenti e soldati in rotta ancora imberbi, un bel lavoro da macellai eseguito alla perfezione per conto del suo ambizioso e carismatico superiore.

    «Hanno ucciso due uomini l’altra notte, ci sono dei guerrilleros qua intorno capo».

    Bloom ascoltò le sue parole con palese indifferenza e increspò le sue esili labbra in un sogghigno a metà tra il beffardo e il disprezzo. Con movimenti di studiata lentezza tirò fuori dalla tasca della giubba un sacchetto di tabacco e cominciò con perizia a riempire la sua elegante pipa in avorio. Si sedette su uno dei divanetti della sala della villa, eletta a momentaneo quartier generale, e si stiracchiò allungando le braccia dietro al collo.

    «Vorrà dire che insegneremo a questi cani messicani chi è che comanda. Avete trovato il fuggitivo dell’altro giorno?»

    «Purtroppo no capo. Abbiamo cercato a lungo ma si tratta di un soldato semplice in fin dei conti, non potevo sprecare troppe risorse».

    Bollow deglutì, quel bastardo che aveva aperto il fuoco l’altro giorno dopo l’esecuzione era scomparso nel nulla. Li avevano visti mentre fuggivano lungo la strada pietrosa che portava fuori da Mulinos Blancos, li avevano anche inseguiti nei campi di terra rossa seccata dal sole, ma erano arrivati tardi. Bloom aveva preso quel piccolo inconveniente come un vero e proprio affronto personale. Bollow prese posto di fronte a lui, non aveva voglia di fumare ma si riempì un bicchierino di tequila. La villa dove si trovavano doveva appartenere a qualche ricco notabile che era stato ben contento di offrirla ai rangers. Finalmente una residenza degna di questo nome e non una stamberga piena di topi come quelle che erano abituati a conoscere.

    «Lasciate perdere quegli esseri inutili e concentriamoci piuttosto su Don Peralta. Dobbiamo trovarlo ed eliminarlo al più presto, i suoi guerrilleros stanno rovinando le comunicazioni e sabotando i rifornimenti. Inoltre la sua banda di criminali sta ispirando popolazione di questo dannato paese, vediamo di farla finita».

    Bollow fece cenno affermativo con il capo, non aveva dimenticato i suoi compiti. Sapeva bene che Don Peralta era coperto dalla popolazione locale, fuggiva come un fantasma da un paese all’altro e ricompariva dal nulla compiendo agguati contro i rangers nelle campagne. I suoi guerrilleros erano un vero e proprio dito negli occhi e, anche a guerra ormai vinta, qualcuno negli alti comandi cominciava a perdere la pazienza. Sperò che le spie guidate da Dominguez potessero indicare loro i luoghi giusti dove cercare. Sorseggiò la tequila, era ottima, e pensò ai suoi uomini. Avrebbe dovuto tenerli in riga se volevano lasciare il Messico in fretta, doveva imporre un minimo di disciplina altrimenti si sarebbero cacciati nei guai. Erano tutti stanchi di quei maledetti cibi speziati e la dissenteria stava facendo quasi più morti del piombo, Ormai la parola d’ordine era quella di tornare quanto prima a casa, negli Stati Uniti.

    «Ci divideremo Bollow, io andrò dagli alti comandi a Città del Messico, tu avrai carta bianca per mettere in sicurezza tutte le campagne a ovest. Inutile dirti che hai licenza di uccidere, fai capire a questi stupidi messicani mangiafagioli cattolici che mettersi contro gli americani ha un prezzo. Trova Don Peralta e io e te faremo strada. Parlo di politica, a Washington».

    «Lo farò» prese un sigaro dal tavolo. Era la riserva personale di Bloom, se li faceva inviare direttamente da Cuba, averne accesso significava contare sulla più completa fiducia. Sapeva di starsi giocando tutto con quell’incarico, se avesse messo in sicurezza le campagne della capitale e se avesse impiccato Don Peralta la vittoria sarebbe stata totale e la ricompensa sarebbe stata più che generosa.

    «Ancora poche settimane e quel bastardo senza onore di Santa Ana ci supplicherà per la pace. Un peccato, il Messico è una terra dalle grandi opportunità» disse Bloom con il solito cinismo e Bollow pensò che chi aveva fatto fortuna con la guerra in Messico una volta tornato negli Stati Uniti avrebbe ottenuto ruoli importanti. Per lui era diverso, nemmeno ricordava più perché era rimasto impelagato in quell’avventura militare. Se non altro il peggio sembrava passato.

    «Immagino che alludiate alle terre che ci prenderemo».

    «Una valanga di dollari».

    «Già».

    Prese una boccata dal sigaro, era tabacco di prima qualità. In quel momento entrò una giovane messicana che portava una caraffa piena di birra fresca e un vassoio con della frutta.

    «Le cose cambieranno molto in fretta, anzi stanno già cambiando. Dobbiamo solo finire il lavoro».

    Bollow annuì. In realtà non era affatto soddisfatto della piega che stavano prendendo gli eventi. Era finito nei rangers più per caso che per convinzione, si era fatto sedurre dalla paga e ora era impelagato fino al collo. L’umore generale era alto, la guerra era vinta e dovevano solo domare gli ultimi focolai di resistenza e andare all’incasso. Eppure lui non riusciva a essere felice, era come se fosse condizionato continuamente da un crescente senso di colpa. Probabilmente erano stati tutti i massacri a cui aveva assistito, i volti degli innocenti che gli avevano lanciato un ultimo sguardo prima di finire falciati dai proiettili. Forse era stata la perdita di suo fratello Johnny, ucciso da una pallottola vagante dei messicani nella battaglia di Veracruz. Aveva ricevuto la notizia per posta ed era rimasto impietrito per due ore e combattere era un modo per rendergli onore, per dare un senso a quell’inusitato massacro che avveniva lontano dai salotti della politica di Washington.

    «Molto bene, allora non abbiamo più nulla da dirci per il momento. Prima mi portate Don Peralta, prima potremo riposarci» tagliò corto Bloom per poi alzarsi in piedi per mostrare la sua volontà di porre fine alla discussione. Bollow dal conto suo ne fu felice, il suo incontro con Bloom era finito, le indicazioni ricevute sin troppo chiare. Salutò il superiore sulla soglia e si richiuse la porta alle spalle. Aveva voglia di bere e di distrarsi un po', le preoccupazioni che lo angustiavano erano sempre di più. Non solo, aveva anche bisogno di fare il punto della situazione e magari di confrontarsi con qualcuno dei suoi uomini più fidati. Per quanto regnasse un diffuso ottimismo lui si sarebbe rilassato solo dopo che fossero riusciti a catturare o uccidere Don Peralta e la sua banda di banditi e irregolari.

    Già Marc Lowen li aveva sottovalutati e due giorni prima era stato ucciso in un agguato nei bassifondi di Città del Messico, lui non avrebbe commesso lo stesso errore. Non voleva morire in quella terra maledetta, sarebbe tornato da sua moglie Margaret e da sua figlia Jessie, ormai mancava da tre anni a casa e si immaginava di rivedere la sua bambina come una donna fatta. Per questo doveva rimanere vivo e stringere i denti. In fondo, il più era fatto.

    Percorse l’elegante corridoio della villa adibita a quartier generale momentaneo dei rangers, c’erano domestici un po' dappertutto segno che Bloom amava il lusso e non disdegnava di mostrarlo a chiunque. Salutò un paio di rangers, texani dalla tempra dura, gente che odiava i messicani e che vedeva quella guerra quasi come una crociata. Altri invece avevano depredato ogni casa e chiesa sul cammino, niente altro che locuste. Fosse per lui se ne sarebbe tornato subito negli Stati Uniti, magari si sarebbe cercato un buon posto dove costruire un nuovo ranch per la sua famiglia. Ma a nord, lontano dal Messico e dai ricordi di sangue e massacri che lo tormentavano notte dopo notte.

    Fu contento di uscire nel mondo reale e di allontanarsi da quella villa che sembrava esistere in un mondo parallelo, lontano. Le strade sterrate, i cactus e il sole bruciante gli ricordarono immediatamente dove si trovava. Recuperò il suo cavallo in fretta, voleva raggiungere il prima possibile i suoi rangers per diramare gli ordini solo dopo si sarebbe concesso una bella bevuta in una locanda, e magari qualche donna.

    Incrociò lo sguardo di un messicano, poco più di un ragazzino. Aveva il volto sporco di polvere e la carnagione olivastra, lo osservava con una smorfia che trasudava odio, un odio cieco, sincero. Lo ignorò e tirò dritto, i rangers avevano occupato diverse case sfrattando gli abitanti con le buone e con le cattive. Non biasimò il ragazzino, avevano fatto di tutto per non farsi benvolere dalla gente del posto. Non stupiva quindi che Don Peralta e i suoi dannati banditi trovassero sempre qualcuno pronto a ospitarli o a coprirli in qualche modo.

    Raggiunse il suo ufficio scalcagnato ricavato all’interno di un ex magazzino e vi trovò Hendrix, quello che poteva definire senza problemi il suo braccio destro. Uomo magro e allampanato, Hendrix dimostrava molti di più dei suoi trentadue anni. Aveva la carnagione pallida e occhi infossati, lineamenti aspri e mano svelta. Indossava una giubba a falde accorciate e alla cintura portava ben due Colt Walker. Non lo aveva scelto come vice e consigliere per caso.

    Lo salutò con un cenno e gli raccontò dell’incontro con Bloom di poco prima. Hendrix condivideva con lui una sincera avversione nei confronti di quell’uomo, forse anche per quello andavano così d’accordo. Si sedettero in quella sudicia topaia e Bollow tirò fuori una bottiglia di tequila impolverata. Riempì due bicchierini e ne offrì uno a Hendrix, poi tracannò il suo in pochi secondi e lo riempì di nuovo. Rimasero così, in silenzio a osservare una mappa ingiallita dei dintorni di Città del Messico. Entrambi non ne potevano più di quella campagna militare, tutti e due sapevano che non sarebbe stato facile ritornare a casa e sapevano di dover cooperare per conseguire un obiettivo comune.

    «Ho bisogno che tu vada in paese a raccattare Hemmels, Bullridge e gli altri idioti. Saranno sicuramente in qualche taverna a ubriacarsi e a importunare le donne. Trovali e portameli qui, domani dobbiamo metterci in cammino».

    Hendrix sospirò e annuì tracannando a sua volta il bicchiere di tequila.

    «Non sarà difficile trovarli. Quei bastardi sono convinti che la guerra sia già finita e hanno abbassato la guardia, saranno in qualche locanda a bere».

    «Se vogliono farsi ammazzare non mi riguarda. Quel che voglio è dare a Bloom quel che vuole il prima possibile e andarmene. Ho già servito la patria quel che basta».

    «Cosa ne dice il Colonnello Hays?»

    «Ha altro a cui pensare. Ormai abbiamo preso Città del Messico da due settimane ed è impegnato in cose più importanti con il Generale Scott. Il lavoro sporco tocca a noi, Bloom è stato fin troppo chiaro».

    Hendrix sembrò apprezzare le sue parole e si riempì ancora una volta il bicchiere. Oltre a un ottimo compagno d’armi era anche un grande compagno di bevute.

    «Il generale Scott ci ha usato quando serviva qualcuno per andare contro i guerrilleros nella marcia da Veracruz a Città del Messico. Poi ci ha scaricato».

    «E che cosa pensavi che accadesse?» nello svuotare il bicchiere Bollow si rese conto che forse stava un po' esagerando con l’alcol «ci aveva già scaricato mesi fa, poi ci ha richiamato quando eravamo già con il culo oltre il Rio Grande. Te lo sei già dimenticato?» si interruppe per dare sfogo a un improvviso attacco di tosse, poi rincarò la dose: «e poi se muore un soldato a Washington sono tutti sconvolti, se muore un ranger se ne fottono».

    «Non lo dimentico. Siamo stati noi rangers a vincere questa sporca guerra ma saranno altri a ricevere dollari e onori. Però tu questo lo sai già».

    Lo sapeva eccome. Aveva preso parte alla battaglia di Monterrey dove aveva anche rischiato di rimanerci per un colpo di escopeta che gli aveva sfiorato la tempia. Ne portava però l’eterno ricordo per via di una cicatrice che lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. Vuotarono la bottiglia in pochi minuti e poi rimasero in silenzio per un po', come se non avessero bisogno di sprecare fiato per comprendere i pensieri l’uno dell’altro.

    Dopo un po' Hendrix si alzò e chiese il permesso di allontanarsi per eseguire l’ordine. Rimase da solo in quella stamberga chiamata studio e decise di coricarsi sulla sua branda per riposare. Era a stomaco vuoto ma la tequila e la stanchezza molto presto trasformarono il suo pisolino in un sonno profondo.

    Capitolo III

    Hendrix raggiunse a passo svelto le casupole del villaggio, in realtà non ne conosceva nemmeno il nome né gli interessava. Non ebbe alcuna difficoltà a trovare l’unica locanda, un edificio in muratura bianco, basso e rettangolare annerito dal fumo. L’insegna all’esterno recitava "El Gallo Dorado" e sembrava nient’altro che una fetida bettola dove si ritrovavano la sera i contadini locali per bere birra calda come il piscio e mangiare salsicce che sapevano più di fumo che di carne.

    Avrebbe pagato non poco per mangiare il pasticcio di sua madre, nel New Jersey, ma doveva accontentarsi di quel maledetto cibo piccante. Fuori da quella locanda probabilmente in tempi normali si radunavano i peggiori criminali della zona, ora invece non c’era anima viva segno che dovevano esserci i rangers all’interno. Era ora di cena e la luce del giorno cominciava rapidamente a lasciar spazio alla sera, sentì un brontolio allo stomaco ed entrò, se non altro avrebbe messo qualcosa sotto i denti.

    Una volta dentro gli mancò il respiro per qualche secondo per via del forte odore di bruciato che arrivava dalle cucine mischiato a sudore e a chissà cos’altro. Il pavimento era in legno e l’arredamento a dir poco umile, tuttavia l’interno era tenuto in modo pulito e dignitoso. Vide immediatamente Hemmels, Bullridge e Ford seduti al bancone che urlavano visibilmente ubriachi e continuavano a bere senza ritegno. All’infuori dei rangers la locanda era vuota, c’erano alcuni boccali lasciati a metà sui tavoli segno che i presenti avevano dovuto lasciare il posto all’improvviso al loro arrivo.

    Dietro di loro l’oste, un uomo dalla pinguedine prominente e dal volto rotondo incorniciato da una folta barba scura. Dimostrava una cinquantina d’anni e indossava un grembiule color crema chiazzato di unto in più punti. Nonostante fosse visibilmente a disagio per via dei rangers gli sorrise con cordialità mostrandogli una seggiola libera. Hendrix rispose con un saluto, quel sorriso trasudava falsità e non si sarebbe stupito se in realtà avesse voluto ucciderli tutti.

    «Che faccia seria Hendrix, beviti qualcosa qui con noi» a parlare era Hemmels, un immigrato tedesco sulla trentina alto quasi due metri un collo taurino e due braccia spesse come tronchi.

    Aveva capelli corti color biondo cenere e una barba incolta dello stesso colore che gli dava un che di selvaggio. I suoi occhi verdi parevano quasi spiritati e le sue guance rubizze suggerivano che fosse già da tempo completamente ubriaco. Bullridge e Ford non erano da meno, indossavano le uniformi improvvisate da rangers e avevano entrambi la pistola sul tavolo. Erano intenti a scolarsi caraffe stracolme di birra e a ingozzarsi di guacamole, riso e pollo da un enorme vassoio.

    «La guerra non è finita, a volte dovreste ricordarvelo».

    Disse a denti stretti sedendosi al tavolo con loro. Hemmels farfugliò qualcosa in risposta ma Hendrix non lo ascoltava più. Bullridge, un giovane texano sui vent’anni dal viso mangiato dal vaiolo che aveva il sangue caldo e un cervello troppo piccolo, strattonò l’oste urlandogli in faccia e ordinandogli di portare un altro giro di birre. Inutili le sterili proteste del malcapitato che provò timidamente a chiedere di essere pagato. Hendrix provò vergogna per i suoi commilitoni.

    «Domattina all’alba dovrete farvi trovare pronti. Ce ne andiamo da qui».

    «Che peccato! Allora meglio berci su».

    Bullridge alzò in alto i bicchieri e Ford enfatizzò il momento mettendosi in piedi sullo sgabello. Hendrix, visibilmente irritato, finse di non vedere e si avventò su uova strapazzate e pomodori. Innaffiò il tutto con un bicchiere di birra e si godette l’immondo spettacolo dei suoi compari orrendamente ubriachi. La situazione degenerò quando dalle cucine affiorò una bella ragazza mora, dimostrava una ventina d’anni, aveva dei seni pronunciati e un viso che rimaneva impresso, doveva essere la figlia dell’oste. E infatti l’uomo cercò di ricacciarla in cucina per celarla agli sguardi lascivi dei rangers, ma era troppo tardi.

    Vide un rivolo di bava cadere dal lato della bocca di Bullridge mentre allungava le sue mani oltre il bancone pronto a ghermire la ragazza. L’oste si mise in mezzo e il ranger lo spinse via facendolo ruzzolare a terra. La ragazza, spaventata, cercò di soccorrere il padre che, per tutta risposta, la ricacciò dentro le cucine.

    «Allora oste, era tutto molto buono ma hai sentito il nostro amico qui» Hemmels indicò Hendrix con il capo «domani ce ne andiamo. Dovresti essere più ospitale con noi».

    Il tono allusivo di Hemmels era a dir poco nauseante ma Hendrix lasciò correre. I messicani erano pur sempre dei messicani, così come i negri erano solo dei negri. Era giusto che gli uomini si sfogassero. E poi in quella guerra aveva già fatto di peggio, chi era per giudicare?

    «Vi prego, vi ho già offerto nove caraffe di birra e la cena. Vi porterò ancora delle salsicce e della tequila, offro io, ma poi dovrete andarvene. Non mi resta nient’altro».

    L’oste, carico di dignità, cercò di utilizzare un tono fermo ma gentile. Altri al posto suo si sarebbero genuflessi chiedendo pietà, ma evidentemente lui era scafato a sufficienza da capire che quel genere di comportamento avrebbe tirato fuori il peggio da quei rangers, era in grado di giudicare bene gli uomini.

    «Allora sei stupido» sbraitò Hemmels portando il suo volto a meno di due centimetri da quello del povero oste «vogliamo scoparci tua figlia. Quella è tua figlia vero?»

    Hendrix vide l’oste diventare ancora più pallido. Nei suoi occhi però non vide paura bensì rabbia, probabile che quello stolto cercasse di sacrificarsi pur di non consegnare sua figlia. Non lo biasimò, forse al suo posto avrebbe fatto lo stesso.

    «Vi prego, lei no. Uccidete me piuttosto».

    La situazione si stava surriscaldando. Hendrix forse avrebbe dovuto fare qualcosa, richiamarli all’ordine e obbligarli a tornare subito al campo. Non fece niente di tutto questo. Passò dall’altra parte del bancone e ne uscì vittorioso brandendo una bottiglia impolverata di tequila, forse era la miglior riserva di quel poveraccio. Si sedette come a teatro, a gambe larghe, bevendo alla bottiglia con lunghe sorsate. Se il suo intuito non si sbagliava l’oste aveva un fucile nascosto sotto il bancone, sperò che uccidesse Hemmels, Ford e Bullridge, lui avrebbe finito il lavoro mettendogli poi una pallottola in mezzo agli occhi.

    «Io ho ancora fame però, prima portaci quelle dannate salsicce».

    Hemmels gettò il piatto vuoto sul tavolo con un gesto di stizza. Lo sguardo dell’oste si illuminò, portare del cibo gli avrebbe consentito di guadagnare altro tempo. Hendrix osservò la scena sornione continuando a bere consapevole che molto presto sarebbe accaduto qualcosa. E poi aveva visto bene in volto quella ragazza messicana, era davvero un bel bocconcino, meditò di far valere il suo grado per essere il primo a divertirsi con lei. Sì, lei non era come le puttane dei bordelli di Città del Messico, aveva un viso aggraziato e un portamento leggiadro. La desiderò al punto da dimenticarsi che il suo amico Bollow contava su di lui per dare il buon esempio agli uomini.

    Era sempre stato ligio al dovere, il primo a rispondere agli ordini, ora era giusto concedersi un po' di svago, in fondo chi mai avrebbe loro chiesto della morte di qualche messicano? Dovevano farsi da parte e cedere all’onda del progresso rappresentata dagli Stati Uniti d’America, e invece quei bastardi continuavano a opporre resistenza, come se il governo di Santa Ana potesse rappresentare qualcosa di meglio.

    L’oste scomparve nella cucina per un paio di minuti, il tempo necessario a riempire il vassoio di salsicce e prendere altre due caraffe di birra scura. Quando uscì Bullridge lo affrontò a muso duro. Il ranger aveva la camicia sbottonata ed era talmente ubriaco da faticare a tenersi in piedi.

    «Eh no caro il mio messicano, vogliamo che ci serva tua figlia».

    L’oste deglutì e rimase come paralizzato con il vassoio in una mano e le caraffe nell’altra, poi le urla di Bullridge lo indussero a ubbidire. Provò a biascicare qualcosa ma il ranger lo spinse facendo cadere a terra le caraffe che si ruppero in mille pezzi sporcando il pavimento.

    «Falle portare anche le caraffe».

    A malincuore l’oste rinunciò a ribellarsi e andò a chiamare la figlia. Lesse nei suoi occhi qualcosa di simile alla rassegnazione ma immaginò che al momento opportuno avrebbe tentato qualche colpo di coda. I rangers rumoreggiavano e battevano gli stivali sul pavimento, molto presto avrebbero perso la testa. La ragazza uscì dalla cucina con in mano il vassoio di salsicce di prima e altre due caraffe di birra scura, come lupi famelici gli americani la mangiarono con lo sguardo e cominciarono a farle apprezzamenti di ogni tipo. Bullridge, tra i più esagitati, le assestò una pacca sul sedere a mano piena ma la ragazza non si scompose. Aveva una fierezza e una dignità davvero notevoli, sarebbe stato divertente giocare con lei. Si immaginò mentre i suoi polpastrelli scorrevano lungo il suo collo, presto avrebbe realizzato il suo desiderio.

    «Allora ragazza vuoi divertirti assieme a noi vero?» a porre la rozza domanda in modo scomposto e sgraziato fu Bullridge. Hendrix era molto curioso di vedere come avrebbe reagito la ragazza ma non perdeva mai di vista suo padre, l’oste.

    «Lasciate stare la mia Carmelita, vi prego».

    Disse l’oste nel vano tentativo di impietosire i rangers. Ford per tutta risposta gli assestò un calcio sul ginocchio e lo spinse a terra. Carmelita poggiò i vassoi e le caraffe sul tavolo e fece per

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