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Hortensia
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E-book488 pagine7 ore

Hortensia

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Info su questo ebook

In una regione sperduta dell’America Latina gli sciamani wapiki tramandano una leggenda: dal grande mare verrà un condor dorato a riscattare l’orgoglio di una terra ferita. Alla fine il condor tornerà da dove era venuto, portandosi via una principessa…

Hortensia Vicente è la fondatrice del grande collegio cattolico di Esperanza, dove si era rinchiusa, come suora, dieci anni prima, in seguito a vicende dolorose.
Felipe Mulligan, il nuovo giardiniere di Esperanza, è in realtà lo scrittore Luis Alvaro, rientrato nel Paese sotto falso nome.
Una serie di circostanze fortuite metterà in rotta di collisione le loro vite, ponendole davanti a una rinascita inattesa, che coinvolgerà e stravolgerà un intero Paese. Esperanza è il teatro di questa rinascita.
Dal momento dell’incontro di Hortensia con Luis Alvaro ogni certezza sarà messa in discussione. Nell’intricato puzzle che si dipana attorno a Hortensia nessuno è ciò che sembra: è una sfida dove coraggio, fierezza e ferma determinazione di cambiare una realtà stagnante portano ognuno alla scoperta del proprio destino.
Sullo sfondo, una morale profondamente lacerata e complessa, ove la limpida distinzione tra “i buoni” e “i cattivi” è destinata a infrangersi. Diverse componenti entrano nello scontro spietato fra le parti in gioco: la corruzione del regime militare del Generalissimo Guillermo, le ingerenze dei governi stranieri nella politica latinoamericana, gli orrori perpetrati dalla polizia politica, la vita emarginata degli indigeni wapiki, i campesinos della regione dell’Alma Mater e soprattutto lo strapotere dei cocaleros, radicata forza motrice del Paese.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2014
ISBN9788868222222
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    Anteprima del libro

    Hortensia - Ennio Falabella

    Collana

    Romanzi

    diretta da

    Alberico Guarnieri

    ENNIO FALABELLA

    HORTENSIA

    Una storia latinoamericana

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2014

    Isbn:978-88-6822-222-2

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com

    www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A mia madre e mio padre

    La profezia si realizza se c’è un numero

    sufficiente di persone che ci credono.

    Ivar Ekeland, A Caso: la sorte, la scienza e il mondo

    Purtroppo non c’è altra soluzione

    che la violenza per l’America Latina.

    Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina

    Metà anni Cinquanta, Borneo

    La guida indigena uscì da una capanna ornata con piume variopinte e si avvicinò al gruppo di uomini e donne accovacciati per terra, grondanti di sudore al sole di mezzogiorno. Potevano andare via, quasi tutti. C’era un prezzo da pagare, non troppo alto, date le circostanze. Linda doveva rimanere nel villaggio. Il professor Preston, l’uomo calvo e massiccio a capo della spedizione antropologica, si alzò in piedi e annuì lentamente, stringendo a sé sua moglie Susan. La guida continuò: Linda sarebbe stata trattata bene, come prima moglie del capo villaggio, lo stregone. Preston disse con un tono di voce falso anche a lui stesso che appena sarebbero tornati alla base, nel Brunei, avrebbero organizzato una spedizione per riscattare la loro compagna. Non sarebbe stato tanto difficile, quei selvaggi barattavano di tutto. Sei ricercatori su sette se la sarebbero comunque cavata; sarebbe potuta andare molto peggio. Proseguì poi in uno stretto e veloce slang americano: la guida li aveva condotti di proposito, pagata chissà come, fra quegli indigeni non civilizzati, veri cacciatori di teste che praticavano le più orrende torture sui loro prigionieri. Ora dovevano uscire subito da quella valle e pensare a salvarsi. Un uomo dalla barba incolta, con indosso una camicia e pantaloni bianchi, si alzò lentamente in piedi. Era stato l’ultimo a farlo, come distratto da altri pensieri. Si accostò a una giovane donna con i capelli biondi annodati alla nuca, immobile, con gli occhi sbarrati. Le prese la mano. «Rimango con te, non ti sarà fatto alcun male, te lo prometto», sussurrò. Fissò poi l’indigeno che li aveva guidati sin là, accarezzando piano la cintura sotto la quale aveva infilato il suo rasoio. L’avrebbe fatto crepare di morte lenta, giurò fra sé. Con voce tagliente, trattenendo ira e disgusto, si rivolse al capo della spedizione antropologica: «Accetterò la decisione se sarà approvata dalla maggioranza». Gli altri biascicarono: «Dopo tutto è il male minore. Non abbiamo scelta… non possiamo fare nient’altro adesso… lo stregone ha deciso così…». L’uomo vestito di bianco li scrutò lentamente uno ad uno, contraendo appena le palpebre, e si propose di ammazzarli tutti non appena avesse tirato fuori Linda da quell’inferno. Mormorò poi, quasi parlando fra sé: forse non era stata un’idea della guida di infilarsi in quella valle, nemmeno segnata sulle carte geografiche. Preston aveva voluto intraprendere una ricerca d’avanguardia fra primitivi non contaminati dalla civiltà. Per questo aveva insistito per portare con loro anche sua moglie, Linda, più attraente delle mature donne occidentali che avevano già convissuto, per motivi scientifici s’intende, con altri capi villaggio. Solo allora afferrava quanto gli era sfuggito quando erano stati invitati a partecipare a quell’avventura esotica. Gli studi sui comportamenti sessuali dei primitivi andavano di moda in quegli anni. Da ingenuo latinoamericano non l’aveva capito subito. Si rivolse a Susan: «Perché non ti offri tu?». La donna rabbrividì. «Mi dispiace davvero tanto per Linda, credimi… è stato lo stregone a scegliere…». L’uomo vestito di bianco annuì in silenzio; appena se ne fosse presentata l’occasione avrebbe lui stesso consegnato Susan a un capo villaggio, più o meno civilizzato, fuori da quella valle maledetta.

    Un indigeno con una maschera spaventosa sul volto si stagliò sulla soglia della capanna, agitando ritmicamente sonagli con macabre impugnature. L’uomo vestito di bianco ordinò alla guida di annunciare che lui era un grande medicine man venuto da lontano. Lo stregone doveva dimostrargli la potenza della sua magia prima di avere la donna dai capelli dei raggi di sole. La guida guardò perplessa Preston, che gli fece segno di tradurre quanto gli era stato richiesto. Al termine dell’annuncio l’indigeno con la maschera emise una serie di suoni rauchi dalla bocca povera di denti. Accettava con grande piacere la sfida, riferì la guida. Preston contrasse il viso in una smorfia. «Sei impazzito, Ventsel? Ti farà disossare vivo. È il loro passatempo prediletto. Ti taglieranno la testa solo dopo averti fatto soffrire le pene peggiori per giorni interminabili».

    Ventsel masticò fra i denti: «Potevi farti venire la tua carità cristiana prima di autorizzarlo a tradurre…». Accarezzò il viso di Linda. «Non farti vedere spaventata, guarda dritto lo stregone. È una messinscena… maschere e sonagli non hanno mai ammazzato nessuno».

    La donna si serrò al suo petto, forzandosi a guardare l’uomo con la maschera. «Che dici? Questa non è una messinscena… Cosa sta succedendo?… Cosa vuole quello da me?».

    Ventsel si scostò delicatamente dalla donna, rivolgendosi ancora alla guida: se non voleva essere ucciso all’istante, sarebbe dovuto rimanere lì come interprete sino al termine della contesa magica. Prima ancora di finire la frase aveva già avvinghiato l’indigeno infedele e gli aveva infilato in una narice il rasoio, che all’improvviso era scintillato nella sua mano.

    L’indigeno, con la vista appannata dal dolore, balbettò il suo assenso.

    Preston, Susan e gli altri protestarono che senza la guida sarebbe stato per loro molto difficile tornare alla base. «Di certo sarà più facile per voi che per noi due uscire vivi e sani di mente da questo orrore», sibilò Ventsel.

    I membri della spedizione lasciati liberi si allontanarono in silenzio.

    Nell’aria umida e putrida di morte lo stregone si muoveva con lenti passi di danza, facendo tintinnare gli amuleti appesi al collo, mentre declamava il grande potere della sua magia. Al termine della contesa lui avrebbe avuto la giovane donna dai capelli dei raggi di sole e gli uomini del villaggio avrebbero praticato le torture rituali sul corpo del medicine man venuto da lontano.

    Ventsel ordinò alla guida indigena di tradurre che la notte in arrivo era quella del primo plenilunio di primavera, quando gli spiriti della valle sacra si mostrano agli uomini che sanno. In quella notte, tutti avrebbero visto quale magia fosse più potente. Prima di allora nessuno doveva avvicinarsi alla donna dai capelli dei raggi di sole. I sacri spiriti della foresta sarebbero stati arbitri della contesa, solo a loro spettava decidere chi l’avrebbe meritata.

    Parte prima

    1968, in un Paese dell’America Latina

    1. Laguna Triste

    Una jeep era ferma ai margini della vegetazione che degradava verso la laguna. Dentro, due uomini sedevano in silenzio. Quello accanto al posto di guida, con un cappello di paglia e il viso spolverato da una barba incolta, fissava il cielo nero e terso, tamburellando a ritmi irregolari con l’indice sinistro sul parabrezza, quasi volesse trasmettere messaggi segreti a stelle lontane. Di tanto in tanto infilava le dita dell’altra mano nel taschino della camicia, ne cavava una sigaretta, se la ficcava fra le labbra e lentamente la riponeva di nuovo nel taschino. Al posto di guida, un giovane dal viso olivastro e glabro, con capelli e occhi del colore della pece, osservava quel lento rituale, girandosi un accendino tra le dita. L’uomo con la barba fissò l’orologio, c’era tempo.

    Rimirò di nuovo il cielo. Sulla linea dell’orizzonte si stagliavano oblique le Tre Marie. Da lì tirò una diagonale immaginaria poi, calcolandone l’angolo approssimativo, di sbieco ne tirò un’altra e un’altra ancora e andò dritto con lo sguardo sino alla Croce del Sud. Su questa stella s’incardina l’ordine che marca distanze e movimenti di ogni frammento di cielo. Basta partire dalle Tre Marie e fare poche misurazioni geometriche per decifrare l’armonia che scandisce le cadenze circolari del tempo.

    Nel cielo è scritto il futuro, ma non ha senso conoscere il proprio destino se non lo si può cambiare. Si leggono le stelle per trovare lì un percorso alternativo. Non aveva mai amato l’astronomia sin quando una notte, tanti anni prima, smarrendosi con la testa vuota di pensieri nello spazio celeste, era stato avvolto da percezioni nuove, scorgendo così una diversa chiave di lettura del mondo visibile.

    Nel momento più terribile della sua vita, studiando con affilata attenzione i movimenti di uno stregone scaltro e maligno, aveva saputo cosa avrebbe dovuto fare per conseguire un altro suo destino.

    Si passò lentamente la lingua sulle labbra, mentre nella memoria si apriva il ventaglio di quei gesti e quelle azioni, appresi in un momento di noia, come un futile gioco, e nei quali si era poi destreggiato con efferata determinazione.

    Da allora, rivivere le sequenze del suo crudele trionfo su quello stregone gli aveva dato la freddezza necessaria per affrontare il peggiore e imprevedibile rischio.

    Fissò la laguna nera. Perché mai aveva deciso di azzardare adesso quella mossa, così avulsa dalle sue azioni precedenti? D’istinto aveva afferrato una cima tesagli al buio, senza curarsi di verificare prima quanto fosse forte e dove portasse.

    Il giovane al posto di guida posò il cannocchiale a raggi infrarossi. «Sta arrivando, signor Ventsel», mormorò.

    L’uomo con la barba si lisciò la cintura di cuoio che gli stringeva la vita, saltò agile giù dalla jeep e si avviò verso una baracca con la porta spalancata in riva alla laguna, illuminata da una lanterna.

    Arrivato lì, si guardò i pantaloni bianchi che aveva indosso; nemmeno quella volta li aveva schizzati di fango, o macchiati con il verde dell’erba.

    Davanti alla baracca, sciami di zanzare si dissolvevano attorno alla lanterna. Ventsel prese uno sgabello e vi si sedette, fissando il buio della laguna. Dopo poco si udì un ritmico sciabordio.

    La luna si stagliava sopra la cornice delle colline attorno alla laguna sopita in un umido silenzio. Nell’acqua scura prendeva profilo una canoa, alle cui estremità due sagome umane roteavano le pagaie, nel mezzo un’altra, più massiccia, era curva su se stessa. Mentre la canoa si arenava nella risacca, quest’ultima balzò nella mota, fece un cenno con la mano alle altre due e si diresse alla baracca.

    «Finalmente ho l’onore di conoscere il grande Ventsel», iniziò l’uomo della canoa. «Si raccontano di te cose sempre più terribili».

    Ventsel spense la lanterna. «Di te pure si dicono cose terribili, Jago Mariano». Allungò uno sgabello verso il nuovo arrivato. «Sei più nero e grosso di quanto immaginassi».

    L’altro si sedette, una fila di denti candidi gli illuminò il viso. «E tu sei più bianco di un bianco delle città». Guardò la lanterna cieca. «Perché dobbiamo parlare al buio?».

    «L’avevo fatta accendere solo per darti la direzione giusta».

    Jago stese le gambe, sbirciò intorno. «Sei prudente come dicono. Quanti uomini hai qua intorno?».

    Ventsel si accarezzò la barba. «Solo uno. Ti devi fidare di me, ti voglio aiutare».

    Jago scoppiò a ridere. «Tu vuoi aiutare me? Sai quante famiglie mantengo? Almeno diecimila, ho miei uomini da qui a Corpus Christi e nel Morales, anche ad Avila ho miei infiltrati nella polizia».

    «Pronti a vendersi a un altro, non appena ti avranno sgozzato… Come te la passi con Farkas?».

    «All’americano non basta la coca che gli passo quasi gratis, chiede sempre di più».

    «Per esempio: spazzare via i wapiki dal Deffendi».

    Jago schioccò la lingua. «L’ha chiesto anche a te? Quelli sono i miei uomini migliori e costano poco. Per sterminare i wapiki dovresti passare dal mio territorio…». Cambiò tono di voce. «Perché mi vorresti aiutare?».

    «Farkas mi ha già pagato, e bene, la tua testa. Se avessi voluto ammazzarti l’avrei fatto quando eri ancora in mezzo alla laguna, i caimani avrebbero avuto un pasto decente».

    Jago scattò in piedi. Ventsel rimase fermo, mormorando: «Non ti agitare». E mentre l’altro si risedeva lentamente riprese: «Farkas ci ha aiutato a eliminare i nostri concorrenti. Ora vuole prezzi ancora più bassi e un fornitore unico. Ha scelto me, tu non sei più affidabile, pare. E dopo aver fatto fuori te, troverà il modo di disfarsi anche di me. Credo non sia più interessato alla coca. Deve avere altri progetti, che in qualche modo riguardano i wapiki».

    Jago sputò per terra strofinò la saliva con un piede. «Non sono affidabile perché non voglio fare fuori gli indios di padre Angulo?».

    «A me vanno bene, sono leali e parlano poco. Nel Deffendi ci deve essere qualcosa di grosso, tu non hai notato niente di strano?».

    Jago si schiacciò una zanzara sul braccio. «Ho fatto scortare nel territorio di León un gruppo di ingegneri mandato da Farkas. Hanno girato per settimane con delle macchinette per controllare l’attività vulcanica… Mi hai fatto attraversare di notte quella putrida laguna solo per sapere questo?».

    «Nel Deffendi non ci sono vulcani, Jago. Quelle macchinette sono contatori Geiger per misurare la radioattività. No, non è per questo che ho voluto incontrarti…. Già che ci siamo, dimmi, gli ingegneri che hai fatto scortare erano cinque? Due di loro avevano la barba e uno era calvo?».

    «Come fai a saperlo?».

    Ventsel intrecciò le mani dietro la nuca. «Dovevo farli accompagnare sulla via del ritorno, sembravano molto contenti del loro lavoro e li ho… diciamo… trattenuti». Sfilò una sigaretta dal taschino della camicia». Ancora non li ho interrogati. Era più importante prima parlare con te».

    «Affari loro, cosa pensi di fare con Farkas?».

    Ventsel si infilò la sigaretta fra le labbra. «Gli farò sapere che hai preso tu quelli con i contatori Geiger. Così guadagno tempo. Dovrò trattare con te per riscattarli». Cavò da una tasca dei pantaloni un accendino e lo rigirò fra le dita. «Due dei tuoi luogotenenti sono passati con me. Li ho fatti parlare e mi hanno dato i nomi di tutti gli altri già in trattativa con Farkas. Se ti do la lista dei tuoi traditori, cosa mi dai in cambio?».

    «Quello che vuoi, ma io voglio anche quei due», sibilò Jago.

    Ventsel guardò verso la laguna. «Non posso più. Si sono dovuti sforzare davvero tanto per darmi anche i nomi dei loro parenti più stretti. I caimani devono aver già digerito i loro resti. Quegli animali sono utili per preservare l’ambiente dall’inquinamento». Infilò di nuovo la sigaretta nel taschino della camicia. «Nel Deffendi, in un villaggio di tessitrici sul fiume, c’e una giovane molto bella, si dice. Viene trattata come una principessa, forse lo è pure. Se me la dai, avrai la lista dei traditori».

    «Vuoi Anja? No, non posso dartela, chiedimi qualunque altra cosa». Rispose risoluto Jago.

    «Se è bella come dicono andrà in premio a quelli che ti ammazzeranno. Da quanto ne so, non ti è rimasto molto tempo».

    «In cambio dei nomi di quei maledetti sono pronto a darti qualunque cosa, ma non Anja. Lei non deve finire con nessuno in quella maniera».

    «Negli affari non mercanteggio. Mi dispiace per te… e anche per la tua protetta. Chissà cosa le riserverà il destino». Ventsel fece l’atto di alzarsi.

    Jago stese entrambe le braccia in avanti, «Aspetta, no, non è così che si fanno gli affari… Fammi pensare, ecco… Ti invito al mio campo e te la faccio conoscere. Così la potrai corteggiare, alle donne piace essere corteggiate. Gli uomini hanno terrore della tua crudeltà, ma le donne sussurrano tra loro le storie di quelle che sono state con te. Sei l’uomo più desiderato dalle Planas al Deffendi». Fece una smorfia. «Biondo come un angelo e dolce come il miele. Ti basterà guardarla per conquistarla».

    «Fra le sciocchezze che ti escono dalla bocca avverto che ti stai decidendo a scambiare questa Anja. Coraggio, Jago, fai un altro piccolo sforzo. Invece di fingere di pensare alla tua pulzella, inizia piuttosto a pensare a come punire i tuoi traditori. A parte quei due che ti aspettano vicino alla canoa, so che nessun altro è a conoscenza di questo nostro incontro».

    «Sta bene. Sei davvero un serpente». Jago si guardò intorno con disgusto. «Il Serpente di Laguna Triste. Con tutti i soldi che hai fatto potevi sceglierti un posto migliore!». Scoppiò improvvisamente a ridere. «Anja è speciale, vedrai, molto speciale, non credo proprio che farai un buon affare a prenderla».

    Ventsel si levò il cappello, ne estrasse un foglio piegato in quattro e lo porse a Jago. «C’è rischio in ogni affare. Questa è la lista completa delle tue canaglie. Sei un uomo di parola e sai come devi comunicare con me». Smorzò la voce in un sussurro. «Sono curioso di vedere cos’abbia la tua Anja di tanto speciale».

    2. Esperanza

    In epoca coloniale la stazione di posta di Esperanza si situava a metà strada fra il mare e la Cordigliera, nel latifondo dei de la Cruz, il più grande dell’America Latina. Successive spartizioni dinastiche e timide riforme agrarie avevano contratto l’estensione di questo latifondo alla provincia dell’Alma Mater.

    Alejandro Vicente, uomo di lettere e idee liberali, alla prematura scomparsa della consorte Margarita, ultima erede dei de la Cruz, aveva donato le terre dell’Alma Mater alle comunità dei campesinos che le avevano coltivate per generazioni.

    Attorno alla vecchia stazione di posta nel corso del tempo era stato costruito un orfanotrofio.

    Nel vivo delle campagne della stampa governativa contro chi aveva contestato i risultati delle ultime elezioni, Hortensia Vicente de la Cruz, figlia del compianto Alejandro, aveva abbandonato la vita mondana e fondato la congregazione delle Sorelle della Speranza. Si era trasferita con un gruppo di devote proseliti nell’orfanotrofio e l’aveva trasformato in breve tempo in un rinomato collegio per giovani poveri e meritevoli. Le suore di più solida tradizione, che avevano gestito sino allora l’orfanotrofio, erano state trasferite in maniera sbrigativa dalle autorità ecclesiastiche in altra località. Hortensia veniva chiamata dalle sorelle, dai campesinos e dalle autorità della provincia con l’appellativo di signora. Lei era la Signora di Esperanza.

    La fresca mattina di quel giorno, prima di avviarsi ai loro corsi di lezioni, i giovani ospiti di Esperanza erano indaffarati in compiti più graditi di quelli che li attendevano in classe: sradicavano con fervente disciplina le piante dalle aiuole, le buttavano nelle carriole e le portavano via, sotto l’occhio apparentemente vigile di alcune suore lì vicino, che si scambiavano occhiate di intesa. Quasi inavvertita, sopraggiunse Hortensia. Si rivolse a suor Clara, sempre la più lenta a sgattaiolare via nei momenti critici.

    «Sono stata via un mese ed ecco cosa trovo: fiori comuni al posto delle mie rose. Chi ha avuto quest’idea? Chi vi ha dato l’autorizzazione?».

    «Signora, non siamo state noi, è stato Felipe, il nuovo giardiniere. Pensavamo tutte che fosse stata lei ad autorizzarlo prima di partire», ribatté timidamente suor Clara.

    «Da me? Quel giardiniere ha detto così?».

    «No, non l’ha detto… ma ci era sembrato che le avrebbe fatto piacere».

    «Vorrei sapere perché mai avrebbe dovuto farmi piacere. Dica a Felipe che rivoglio le mie rose entro domani». Hortensia contemplò le aiuole sconvolte. «Non gli bastava consumare la carta dei nostri ragazzi, doveva pure mettersi a cambiare i fiori…».

    «Così ha avuto meno tempo per scrivere e abbiamo risparmiato un bel po’ di carta».

    Hortensia guardò l’orologio. «A quest’ora sarà sveglio?». Alzò gli occhi al cielo. «Se non sono le dieci quello non si vede in giro. Gli dica di venire dopo pranzo nella sala di lettura. Anzi no, non voglio guastarmi la digestione, gli dica di venire dopo la funzione serale».

    A sera Hortensia sentì bussare alla porta. Alzò la testa dal libro che stava leggendo e schioccò: «Avanti!».

    Un uomo di media statura con i capelli riccioluti spruzzati di grigio e il viso imbrunito da una barba mal rasata, con un frusto vestito scuro, affatto intonato a una grezza camicia azzurra, entrò nella stanza. «Buonasera, signora».

    Hortensia lo sbirciò appena. «Ha provato una volta, vedo, a vestirsi decentemente».

    L’uomo fece qualche passo in avanti. «Ho fatto il possibile…».

    Hortensia gli indicò uno sgabello. «Si sieda, signor Felipe Mulligan. La chiamo così anche se questo non è il suo vero nome».

    L’uomo si sedette. «Mi hanno detto che mi voleva parlare, signora. Sono sicuro non sarà per la carta: è da un po’ che non scrivo…».

    «Perché non scrive più?». Hortensia arrossì leggermente, indurì la voce. «Ha fatto bene a smettere, se poi le devono uscire… quelle cose».

    Felipe sorrise. «Come fa a chiamarle quelle cose, se nemmeno ha letto quello che sto scrivendo?».

    «Vede, signor… come la devo chiamare? Qual è il suo vero nome?».

    «Forse conosce il mio nome, ma continui pure a chiamarmi Felipe Mulligan, senza signore magari davanti, suona ancora più falso».

    Hortensia aspirò profondamente. «Lei parla di falsità! Si è presentato sotto falso nome e sotto una falsa professione per coprirmi di ridicolo davanti a tutte! Lei, signor Mulligan, sa cosa vuol dire: prendere proprie iniziative?».

    «Sono desolato se ho mancato in qualcosa… l’ho fatto sicuramente per stupidità, forse per sbadataggine, non certo volutamente». L’uomo prese una pausa, reprimendo una smorfia. «Ho capito, sono uscito tardi oggi, pensavo che le aiuole fossero state sgombrate dopo il temporale di stanotte… non c’erano le piante… Ho capito, quei fiori…».

    Hortensia scosse la testa: «Già, quei fiori. Sa quanti mazzi di ortensie ho ricevuto da persone senza fantasia?».

    «Lo riconosco, non era un’idea originale. Al suo posto anch’io odierei le ortensie».

    «Benedetto Felipe… volevo dire, signor Mulligan, perché allora l’ha fatto?».

    Felipe Mulligan si alzò in piedi. «A questa domanda non so dare una risposta intelligente… Non so come riparare. Mi dica lei cosa devo fare».

    «Solo una cosa, signor Mulligan, fare un gesto da gentiluomo». Hortensia smorzò la voce. «Mi duole chiederglielo, mi creda».

    L’uomo distese i lineamenti in un lento sorriso. «Non se ne dolga, signora Vicente, è giusto così», storse appena le labbra. «Però, non sfamerei nemmeno i cani come fanno le sue sorelle…».

    «Cosa vuol dire?».

    «Tutto in un piatto, pure la frutta». Felipe Mulligan pose la mano destra sul petto, chinò appena la testa. «Le sarò sempre debitore delle sue rose». E uscì dalla stanza, chiudendo piano la porta.

    Hortensia fissò il vuoto davanti a sé. Lo sguardo del presunto giardiniere si era d’un tratto acceso di una tenera ironia, rendendo l’esito della disputa floreale più spinoso. Riprese lentamente il libro tra le mani, l’aprì, poi lo posò di scatto sullo scrittoio. Si alzò, spalancò la porta e si diresse a passi veloci verso la sala della ricreazione.

    Quando era vicina alla soglia avvertì un disordinato rumore di sedie, sbirciò appena il televisore, borbottando tra sé Come se non sapessi che stavano guardando qualche filmaccio dei soliti principi stupidi innamorati delle povere belle e orgogliose. Hortensia si guardò in giro fino a trovare chi cercava. «Suor Bruna, potrebbe venire nella mia stanza alla fine di quel pio programma?».

    «Vengo subito, signora», farfugliò l’altra.

    «Con comodo, suor Bruna. Quelle storie ci tengono sempre il cuore in sospeso sino alla fine, poi non sempre si concludono come vorremmo… le storie pie, intendevo».

    Hortensia sentì bussare piano alla porta. Smise di passeggiare nella stanza, riprese in mano la biografia di Santa Teresa d’Avila e si sedette. «Avanti».

    Suor Bruna entrò a capo chino mormorando: «Signora, noi non volevamo che Felipe togliesse le rose, ma gli era venuta quell’idea…».

    «Per le rose ho risolto. Volevo sapere come avete servito i pasti al giardiniere».

    «Come facciamo sempre con i vagabondi… in un unico piatto. Non è mica un albergo, questo. Già dorme gratis nella baracca e consuma tutta quella carta dei ragazzi! Si è approfittato anche troppo della nostra… della sua ospitalità, Signora. Poi non è nemmeno un buon giardiniere».

    «Tutto in un piatto, come ai cani? Era nostro ospite!».

    «Ripareremo subito, signora. Da domani gli riserveremo lo stesso servizio dei nostri studenti».

    Hortensia si alzò in piedi. «Non sarà necessario, suor Bruna, è andato via».

    «Come, non tornerà più? Ai ragazzi mancherà, gli volevano bene tutti».

    «Era solo di passaggio, non tornerà più».

    3. Punta Verde

    La cittadina di Punta Verde si affacciava sull’Estuario, di fronte alla ben più prospera e popolosa Avila.

    Nel corso delle massicce migrazioni seguite alla Grande Carestia, qualche vascello di profughi dell’Irlanda aveva fatto rotta verso la Croce del Sud, forse attratto da Paesi dove si parlava un idioma meno comprensibile dell’inglese, ma dove si ricordavano pure le gesta del grande libertador Bernardo O’Higgins.

    L’esempio degli emigranti con conoscenze storiche non aveva avuto molto seguito e gli irlandesi sbarcati in America Latina si erano concentrati così nella Penisola di Punta Verde.

    Nel cortile del collegio di San Colombano gli studenti si disposero ognuno al proprio posto con passi rigidi. L’insegnante di ginnastica schioccò un ordine, due giovani in uniforme verde si scollarono dal quadrato schierato nel piazzale per avvicinarsi all’asta, quindi con movimenti misurati sciolsero la bandiera e la issarono lentamente in alto. A un altro ordine dell’insegnante i giovani alzarono il mento e cantarono l’inno nazionale irlandese. Il cerimoniale dell’alzabandiera era stato introdotto da questi celti dei Tropici al tempo dell’acquisizione dell’indipendenza della lontana madrepatria.

    Addossati a un muretto, due poliziotti con una sigaretta fra le labbra attesero pigramente la fine della cerimonia. Al comando del rompere le righe si avvicinarono all’insegnante di ginnastica, uno di loro tirò fuori dalla cintura un paio di manette e gliele serrò ai polsi, cantilenando annoiato: «Lei è in arresto, signor O’Shea, è contro la legge issare una bandiera straniera in una scuola di questo Paese. Dovrete rispondere di alto tradimento». Dal portone di ingresso comparve uno stuolo di poliziotti che circondarono i due loro commilitoni e l’insegnante, ammainarono la bandiera e la consegnarono a un ufficiale. I giovani studenti snocciolarono all’indirizzo dei poliziotti una sequela di parole non giudicate offensive, in quanto incomprensibili.

    Un uomo tarchiato e con capelli bianchi cortissimi, osservava la scena dalla soglia della palazzina principale del collegio. L’ufficiale gli si avvicinò con piglio severo. «Signor Miller, è suo dovere far rispettare le leggi del nostro Paese. Questa volta abbiamo arrestato il signor O’Shea, la prossima volta arresteremo lei».

    «Potete proibirci il nostro alzabandiera nella Plaza Mayor, ma non potete proibircelo nella nostra scuola. Sinora ci era stato sempre permesso».

    «Ora non più, signor Miller. Le direttive sono cambiate. La vostra scuola non è un’ambasciata, è un luogo pubblico come gli altri, dove si deve sventolare solo la bandiera nazionale. Se i nostri colori non vi piacciono siete liberi di tornarvene in Irlanda».

    Miller si sedette a tavola accigliato. Kevin, Marcus e Sean tenevano gli occhi bassi. Marta li guardò sforzandosi di sorridere, mentre riempiva le loro scodelle. «Oggi ho cucinato il vostro piatto preferito».

    Pat Miller prese a raschiare con il cucchiaio sempre più rumorosamente il fondo della scodella mentre i figli lo scrutavano di sottecchi.

    Marta posò la mano sul braccio del marito. «So cosa è successo oggi alla scuola. Lo sa tutta Punta Verde…».

    Kevin guardò la madre, schiarendosi la gola: «Quello che è successo oggi è molto grave».

    Marta assentì mestamente: «Se è successa una cosa grave dovevate dirmelo prima di venire a tavola con il muso lungo. Non sono forse degna di ascoltare le vostre rimostranza, perché non ho sangue irlandese?». Sbatté le posate sulla tavola, rivolgendosi al marito. «Sono però tua moglie, Pat!», squadrò i figli, ammorbidendo la voce. «E vostra madre. Ho avuto anch’io un passaporto come il vostro e siete stati contenti di farmelo avere. Ve ne siete dimenticati? L’alzabandiera irlandese a Punta Verde è un’istituzione del nostro Paese, me l’hanno insegnato a scuola…».

    «È un’istituzione del passato. Da oggi è considerata un crimine contro lo Stato», mormorò Kevin.

    Marta prese a gesticolare. «Non possono fare questo». Pose una mano sul braccio di Pat. «Diglielo ai tuoi amici del Distretto, non possono farlo».

    «Possono farlo, c’è una direttiva del governo. Oggi hanno arrestato Rob O’Shea, poi toccherà agli altri che disobbediranno».

    «E fra poco non ci faranno più votare, sarà pure un crimine avere un sindaco d’origine irlandese a Punta Verde», intervenne Marcus.

    Marta tirò un sospiro. «Gli inglesi sono riusciti a perseguitarvi pure qui».

    Pat mormorò: «Il loro nuovo addetto consolare, o come si fa chiamare quel Lewinson, deve aver scoperto che gli aiuti diretti ai nostri fratelli oppressi passano di qua e si è mosso in combutta con il generalissimo Guillermo. Vuole creare un incidente per farci esporre, metterci fuori legge ed espellere».

    «Pat, perché non chiedi aiuto a don Garcia? Lui ha molti contatti importanti», riprese Marta con tono suadente.

    «Ha i suoi guai anche lui. Il governo vuole lottizzare le terre dei fazenderos per darle ai campesinos dell’Alma Mater. Garcia è un grande amico dell’Irlanda ed è una brava persona, non posso metterlo in difficoltà chiedendogli una cosa che non può fare. Dobbiamo stare calmi e trovare una via d’uscita. Conosco quel Lewinson, non avrà pace finché non avrà le prove per farmi estradare da questo Paese».

    Marta congiunse le mani davanti alla bocca, chinò la fronte, poi scrutò uno a uno i suoi famigliari. «Promettetemi di non fare sciocchezze. Il Signore ci aiuterà. Noi siamo cristiani cattolici e quelli sono pagani protestanti. Anche quel venduto di Guillermo adesso aiuta le sette protestanti che succhiano i soldi alla povera gente».

    Pat prese le mani di Marta. «Stai tranquilla, quando passerà anche questa ti porterò a vedere il Paese dove sono nato».

    A quella promessa i giovani si scambiarono sguardi d’ironica intesa. Erano anni che sentivano loro padre fare quella promessa. Si alzarono poi dalla tavola in un fragore di sedie e uscirono scherzando fra di loro.

    Marta li seguì con lo sguardo, mormorando: «Hai visto, Pat, che bei figli abbiamo fatto? Sento che qualcosa sta cambiando in peggio in questo Paese. Dobbiamo pensare prima di tutto al futuro dei nostri figli».

    «Stai tranquilla, i tuoi scavezzacollo saranno sempre in cima ai miei pensieri».

    4. Anja

    Nella foreste tropicale del Deffendi, lungo la riva di un fiume, una donna dai capelli bianchi passava accanto alle giovani che lavoravano ai telai. Si chinava vicino a ciascuna, tastava con i polpastrelli ruvidi i rilievi dei disegni sulle coperte di lana e avvicinava agli occhi l’intreccio di colori. Ogni volta scuoteva la testa, alla fine sbottò: «Questi segni non hanno senso! Dovete ricamare le nostre storie, non macchie di colore che non significano niente».

    La tessitrice colpevole ribatté svelta: «Vecchia Zita, nelle città piacciono i miei disegni. Juanito mi ha chiesto di fargli tante altre coperte in questa maniera».

    Zita si scostò borbottando: «Juanito vende di tutto, non capisce niente della nostra antica scrittura e tu sei più ignorante di lui». Si chinò accanto a un’altra tessitrice, passò la mano sulla coperta e assentì lentamente: «Questa era la mia storia preferita di quando ero piccola». Accarezzò la testa della giovane. «Però devi spiegare meglio perché il condor era tornato dal bambino. Devi dare più tinta ai colori, hai fatto due nodi in meno qui e devi fare un nodo alla rovescia lì. Così il racconto diventa più chiaro».

    Una giovane con gli occhi leggermente a mandorla e lunghe ciglia nere seguiva assorta il volo di un pappagallo azzurro sul fiume, non accorgendosi della vecchia accanto, che mormorava: «A te non devo mai dire niente, tu sai come tenere vive le storie della nostra gente. Le tue coperte non piacciono a Juanito, ma ci ricordano chi eravamo prima che distruggessero il nostro sapere. In città non sospettano che le nostre trame nascondono una scrittura, più difficile, ma più ricca della loro».

    «Forse dovremmo spiegare il significato dei nostri segni», sorrise la giovane.

    Zita scosse la testa. «No, è meglio di no. Loro non conosceranno mai la nostra scrittura e questo ci dà un vantaggio: noi sappiamo come comunicare tra noi senza che gli altri se ne accorgano». Accarezzò la testa della giovane. «Ti senti pronta, Anja?».

    La tessitrice guardò lontano. «Sì, mi sento come se mi fosse stato tolto un peso dal cuore. Ho fatto un sogno strano stanotte».

    Zita le serrò la mano. «Quale sogno hai fatto, mia giovane principessa?».

    «C’era un serpente di tanti colori luminosi, ero paralizzata dalla sua bellezza, sentivo che voleva avvolgersi attorno a me. Si muoveva in maniera morbida e delicata. All’improvviso mi ha preso una terribile paura. Ho avuto la sensazione che se mi avesse toccato si sarebbero scatenati eventi terribili… Cosa significa, Zita?».

    «I sogni fatti prima di un grande evento hanno un significato prodigioso». La vecchia vagò con l’indice sulla fronte della giovane. «Sei fortunata, Anja, gli spiriti dei nostri antenati ti hanno riservato un destino straordinario. Il signor Ventsel non vuole ancora avere figli. Questo so. Se hai paura, usa le erbe che conosci. Potrai unirti a lui senza timore. Quell’uomo è un dio serpente, che è buono e cattivo, quando deve esserlo. Se ha scelto te, un grande spirito lo ha guidato. Però ricordati: dopo di lui non potrai avere altri uomini. Nessun uomo avrà mai il coraggio di unirsi a chi è stata con il serpente. Avranno sempre terrore di te, come ora hanno terrore di lui».

    «Padre Angulo dice che il signor Ventsel non mi manderà mai via, come ha fatto con le altre. Lui lo conosce bene… Un giorno forse mi sposerà come si fa in città».

    Intanto un suono metallico stava aumentando d’intensità. «Ancora quegli uccelli di ferro», borbottò la vecchia.

    «Forse il signor Ventsel manderà via gli elicotteri che non fanno più crescere i nostri raccolti».

    «Lui può fare tante cose. Aspetta qui, mia Anja, Jago mi vuole parlare».

    Un gruppo di uomini armati guardavano accigliati il cielo, al di sopra delle loro teste si stagliavano le spalle possenti di Jago.

    L’uomo si fece incontro a Zita. «Andiamo nella tua capanna, fammi sapere cosa dicono le tue polveri».

    La donna lo guidò in una capanna di canne, prese una scodella, vi versò dell’acqua e vi sparse sopra delle polveri color ocra, mormorando: «Anja ha fatto un sogno prodigioso, quello che doveva avvenire avverrà».

    «Questa sì che è una bella profezia, soprattutto chiara. Dimmi piuttosto, Anja sarà felice?».

    Zita scrutò il fondo della scodella. «Anja sarà felice, ma tu hai il cuore in tumulto, Jago. Cosa ti affligge? Oggi è un grande giorno, la giovane principessa andrà dal serpente della laguna, com’era stato detto».

    «E tu lo chiami un grande giorno? Sto vendendo la mia protetta a quel diavolo e dovrei pure rallegrarmi della mia debolezza?».

    «Lui è stato più debole di te, perché ha chiesto, tu sei stato forte nel sacrificare il tuo bene più caro per proteggere quelli che si sono affidati a te».

    «Ventsel nemmeno conosceva Anja, me l’ha chiesta per mettermi alla prova e io ho ceduto».

    «No, Jago, la sua lingua ha chiesto quello che il suo cuore ancora non sa. Non devi tormentarti, Anja avrà quello che era stato scritto nel suo destino».

    «I tuoi soliti giri di parole. Dimmi, cosa potrà fermare quei maledetti elicotteri?».

    «Quelli vengono e vanno…». Zita si accasciò di colpo a terra, scossa da tremiti convulsi, roteò gli occhi e prese a balbettare fra i denti: «Il condor dorato della Cordigliera è tornato… scheletri vestiti di nero escono a cavallo dalle Planas… vedo case avvolte nel fuoco… la nostra gente esce dal Deffendi per portare morte». Si portò le mani alle orecchie. «Sento urla orribili… vedo tanto sangue», e perse del tutto conoscenza.

    Jago le si accovacciò accanto, le mise un cuscino sotto la testa e si rialzò sospirando: «Hai detto tante cose, ma non hai detto come si possono mandare via gli elicotteri che avvelenano le nostre coltivazioni di coca». Uscì dalla capanna, si avvicinò a Anja. «Hai

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