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L'ultima primavera del secolo
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E-book236 pagine3 ore

L'ultima primavera del secolo

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Info su questo ebook

Il ventesimo secolo, che ha già visto fiumi di sangue sgorgare dalla follia umana, si chiude con l’ennesima guerra. Per intervenire nel conflitto in Kosovo, dalle coste della Puglia decollano gli aerei della N.A.T.O. a sganciare bombe sui Balcani: per mettere fine alla morte, ancora una volta si semina morte.
Finita la terza media, Fabio deve affrontare una guerra personale, non meno incerta, violenta e carica di insidie: quella per diventare adulto. Mentre dalla sua terra osserva ali armate solcare l’Adriatico, è costretto a compiere scelte destinate a cambiare in modo radicale la sua vita. Saprà destreggiarsi tra i saggi consigli della professoressa di lettere, la severità del padre, l’affetto della madre e le pericolose tentazioni, figlie di un ambiente sociale degradato? Sarà capace di gestire le esplosioni emotive del suo cuore, distinguendo l’amore dall’infatuazione e l’amicizia dalla convenienza?
 
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2020
ISBN9788832144512
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    Anteprima del libro

    L'ultima primavera del secolo - Domenico Ippolito

    Ringraziamenti

    DOMENICO IPPOLITO

    L’ULTIMA PRIMAVERA

    DEL SECOLO

    L’ultima primavera del secolo

    di Domenico Ippolito

    immagine 1

    @2019 Aporema Edizioni

    Società Cooperativa

    www.aporema.com

    Quest’opera è frutto di fantasia: ogni riferimento a fatti e persone è del tutto casuale. I luoghi in essa descritti, esistiti o esistenti, sono visti attraverso il ricordo o l’immaginazione dell’autore e non hanno la pretesa di corrispondere con precisione alla realtà oggettiva.

    A Silvia

    Ogni adolescenza coincide con la guerra

    Che sia falsa, che sia vera

    Ogni adolescenza coincide con la guerra

    Che sia vinta, che sia persa

    cit. Davide Toffolo

    del gruppo musicale

    Tre allegri ragazzi morti

    Prologo

    Acquaviva delle Fonti, provincia di Bari, 9 giugno 1999.

    Ha sparato.

    Ha sparato due volte.

    Lo vedo uscire dalla casa e puntare la pistola in alto, come uno starter sulla linea di partenza, mentre urla di fermarmi.

    Il primo colpo va a vuoto e finisce dentro la fronda della quercia: le foglie, distrutte dal proiettile, schizzano in alto in una pioggia di ramoscelli in frantumi, insieme al frullo d’ali degli uccelli.

    Comincio a correre più veloce di prima.

    Questa è una gara di sopravvivenza: se non scappo, sono morto.

    Con la coda dell’occhio, vedo puntare il braccio dritto verso di me. Prende la mira: il secondo sparo infuoca il buio, sento un boato dentro l’orecchio destro, una sferzata sul timpano.

    Le mie gambe s’incrociano, cado in ginocchio nel fango fresco, in mezzo alle foglie spappolate dalla pioggia.

    Non ci posso credere che mi abbia sparato davvero: mi viene quasi da ridere, è assurdo che l’abbia fatto.

    Mai avrei immaginato che a quindici anni potessi finire giustiziato in mezzo alla campagna.

    Inspiro, cercando di riprendermi, e un tanfo di carne bruciata mi riempie le narici.

    Sono ancora vivo.

    Mi rialzo e riprendo a correre, senza pantaloni né scarpe. Prometto a me stesso di non fermarmi più: meglio un proiettile nella schiena o alla nuca, meglio morire di faccia dentro la fanghiglia, piuttosto che implorare pietà, per poi finire ammazzati lo stesso.

    «È solo una puttana!» hanno gridato nella casa.

    Continuo a correre, più forte di quanto non abbia mai fatto in vita mia, sotto il diluvio, col palmo premuto sull’orecchio destro.

    Il sangue mi cola caldo in mezzo alle dita, ma non mi azzardo a togliere la mano, ho paura che l’orecchio si stacchi e cada per terra.

    Nelle orme fangose lascio dietro di me una seconda traccia, rossa e indelebile.

    Ecco la ferrovia, i lampioni in cemento armato che illuminano la campagna di Acquaviva, gli alberi, rigidi come sentinelle, che montano la guardia nella notte...

    Corro sui binari, in mezzo alle traversine di legno e le pietre taglienti, incurante dei treni che potrebbero arrivare in qualsiasi momento.

    Ma è tardi, non ne passerà nemmeno uno.

    In queste notti di primavera c’è traffico solo in cielo.

    I caccia militari sfrecciano per andare a sganciare le loro bombe dall’altra parte dell’Adriatico, in Serbia e in Kosovo.

    Proprio ora spunta uno di quei bestioni: lo riconosco, è un Harrier e la sua scia di luce bianca squarcia in due il buio. Potrei correre più forte degli aerei, arrivare all’aeroporto militare di Gioia del Colle e impedirne la partenza. Invece non riesco più nemmeno a camminare: le gambe sono diventate un ricordo, ho dolore al petto.

    Mi fermo, mi accartoccio sui binari e piango.

    Sono abbastanza lucido da capire di non essere ancora al sicuro, così mi trascino a carponi per altri dieci metri e trovo rifugio nell’insenatura di un piccolo stagno, almeno non mi trovo più in campo aperto.

    Mi costringo a pensare a qualcosa di bello: a lei, al suo vestitino corto di jeans che le lasciava scoperte le gambe dorate dal sole...

    Urlo il suo nome, maledico la guerra e tutti gli uomini.

    1 - Il laghetto delle oche selvatiche

    Un anno prima, 17 giugno 1998

    Durante il pranzo ci fu una stupida discussione su che cosa avrei dovuto indossare quella sera alla festa di Luigi Salvemini. I genitori avevano organizzato il suo compleanno nella villa di campagna; oltre a quello, si festeggiava la fine delle scuole medie. Il padre di Luigi aveva noleggiato un maxischermo per guardare la partita all’aperto: c’erano i Mondiali in Francia e quella sera la nostra Nazionale giocava la sua seconda partita, contro il Camerun. Avrei voluto indossare la maglietta dell’Italia; invece mia madre mi impose un’odiosa camicia bianca di lino a maniche corte: già troneggiava nella mia camera da letto, pulita e stirata, appesa a una gruccia.

    Sia io sia i miei sapevamo benissimo però che la vera partita tra noi si sarebbe giocata a settembre: la scelta delle scuole superiori. Agli esami di terza media avevo preso ottimo in matematica e scienze e avrei voluto iscrivermi al liceo scientifico, come la maggior parte dei miei amici, ma nel nostro paese quel tipo di scuola non c’era.

    I miei erano contrari a farmi viaggiare, come dicevano loro, e insistevano per ragioneria, il cui edificio basso e lucido si trovava a soli due isolati da casa. Avevo il resto dell’estate per convincerli: quella sera confidavo anche nell’aiuto del professor D’Ambrosio, che avrebbe raccomandato a mio padre l’iscrizione allo scientifico.

    C’era poi un’altra faccenda che mi teneva sulle spine.

    Rosaria, la biondina di terza B con le tette più grandi della scuola. Ci saremmo messi insieme alla festa, o almeno così mi aveva promesso la mia amica Valentina; io non ne ero per nulla convinto.

    A tavola scrutavo i capelli corti con la riga a lato di mio fratello, che mangiava in silenzio, senza alzare gli occhi dal piatto di pasta, seduto composto, un po’ allarmato dalla discussione in corso. Anche per Nicola mia madre aveva stirato una camicia, peraltro verde tiglio come la divisa del Camerun, che lui però avrebbe accettato senza fiatare. Mi chiedevo se pure io a otto anni fossi stato così remissivo; avevo portato anch’io, all’epoca, i capelli così ben pettinati?

    Alla fine del pranzo mia madre preparò la macchinetta del caffè; Nicola, che per tutto il tempo non aveva pronunciato nemmeno una parola, si alzò dicendo:

    «Mi vado a stendere sul divano.»

    Lasciammo sul fuoco la caffettiera e lo seguimmo tutti verso il soggiorno.

    Mio fratello tremava.

    Per il nostro medico di famiglia, il dottor Cozzi, il fatto non era grave: si trattava solo di una forma di ansia infantile.

    Mio padre e io ci affacciammo in soggiorno, mentre mia madre aiutava Nicola a togliersi le scarpe e a stendersi. Lui batteva i denti e le palpebre, però era lucido. Era molto stanco, ma non voleva andare a letto, perché il letto è freddo, diceva. Mia madre prese dall’armadio a vetri la trapunta rossa di lana e lo avvolse. Mi avvicinai a piccoli passi al divano, mi sedetti accanto ai piedi di Nicola. Portai al viso la coperta, profumava di arancia. Era la stessa che mi aveva avvolto quando ero nato, qualche anno più tardi aveva protetto anche mio fratello, e lo proteggeva tuttora.

    Mia madre gli accarezzò il viso, lui distese gli occhi e si calmò. Il silenzio fu rotto dalla caffettiera che bolliva in cucina. Mio padre andò a spegnere il fornello.

    Più tardi, mentre lui e Nicola riposavano, mia madre versò il resto del caffè in due tazzine: era forte ma ormai tiepido.

    «Ricordi che hai tremato anche tu quand’eri piccolo?»

    La guardai sorpreso da quell’uscita, perché non lo ricordavo affatto.

    «Avevi appena quattro anni, cinque forse. Nicola non era nato, la nonna viveva ancora qui con noi.» Si alzò e ripose le tazzine nel lavello pieno d’acqua e sapone, insieme alle stoviglie sporche del pranzo. Il suo grembiule aveva una tonalità livida, come il detersivo dei piatti. «Accadde poco prima di cena. Tuo padre e io ci agitammo molto, la nonna invece restò calma. Ti avvolse nella coperta e in un paio di minuti era tutto finito.»

    La televisione della cucina ronzava a volume smorzato. Presi la piccola agenda dal portaoggetti di legno bianco al centro della tavola e ci scarabocchiai sopra.

    «Quante volte mi è successo?»

    «Solo quella. Con Nicola purtroppo è diverso.» Mia madre chiuse la porta della cucina. «Ma il dottore sostiene che gli passerà con gli anni.»

    «Tu gli credi?»

    Lei raccolse con la mano i granelli di zucchero sul tavolo e li fece cadere dentro la tasca del grembiule.

    «La nonna diceva che era successo anche a uno degli zii. Una volta adolescente però, era bella che finita.»

    Volevo spegnere la televisione, ma non trovavo il telecomando: forse qualcuno dopo il pranzo se l’era trascinato per sbaglio in soggiorno.

    Guardai a lungo mia madre.

    «Com’è morta la nonna?»

    Per tutta risposta, mia madre si alzò per andare in soggiorno e tornò in cucina con in mano una vecchia fotografia.

    Ci mettemmo in macchina alle cinque e mezza di pomeriggio. La villa in campagna di Luigi si trovava in contrada Santa Caterina, sulla vecchia strada per Gioia del Colle, a ridosso dell’aeroporto militare. La Golf Volkswagen di mio padre procedeva a scossoni sull’asfalto malmesso, stretto e pieno di buche; tra i due muretti a secco non ci passavano due automobili, e quando arrivava un’auto dalla direzione opposta, una delle due accostava e faceva largo. La rete metallica correva lungo il perimetro della base aerea, il nastro spinato rossiccio e arrugginito era adorno di lame, che riflettevano la luce del sole come specchi.

    Tenevo il braccio poggiato fuori dal finestrino, sfiorando i rami e le foglie degli alberi; Nicola se ne stava a braccia conserte, attento a non stropicciare la camicia nuova. Faceva ancora molto caldo, quasi quanto a mezzogiorno. Il sole non dava tregua e filtrava infuocato da ogni lato. Il ronzio delle cicale risuonava tra le piante, simile al ticchettio incessante di un orologio. L’estate era appena cominciata e la campagna bruciava di sete.

    Arrivammo da Luigi mezz’ora dopo. Scesi svelto dalla Golf, lasciando indietro i miei e Nicola. Gli invitati erano tutti fuori, nel grande cortile di fronte alla villa. La confusione della festa mi investì, insieme all’odore penetrante della salsiccia che arrostiva sul barbecue, allestito dal padrone di casa. Riconobbi la Sisto, la professoressa d’italiano delle medie, che, aiutata da altre madri e da qualche ragazza, stendeva la pasta per i panzerotti sul tavolo sotto al porticato.

    Il gruppo della mia classe, stranamente il meno numeroso, era incollato al buffet di focacce e bibite. Mi avviai subito da loro, salutandoli.

    «Che fine hanno fatto gli altri?»

    «Nella pineta, a giocare a pallone.»

    Alessio Loiacono mi indicò uno spiazzo alle nostre spalle, al di là della fitta rete di alberi da frutto. Ora distinguevo tra gli schiamazzi dei giocatori la voce di Massimiliano che urlava dalla porta.

    Da Alessio e dalle ragazze partirono subito le critiche: non si capacitavano di quanto fossero già sudati e sporchi e di come fosse infantile tutto ciò, mentre loro, più disinvolti, si comportavano come ci si aspetta da ragazzini, usciti una volta per tutte dal giardino d’infanzia.

    In realtà, mi accorsi presto che nessuno di noi, appena quattordicenni, era in grado di sostenere una conversazione di gruppo che non fosse una di quelle insulse e irragionevoli che tenevamo a scuola.

    Trovai Luigi, gli feci gli auguri e lo abbracciai: aveva avuto la mia stessa idea e si era messo la maglia dell’Italia. Scrutò deluso la mia camicia bianca, e non ascoltò le giustificazioni: era alle prese con lo stereo poggiato sul muretto; le onde della musica da discoteca si diffondevano incerte dalla radio che gracchiava.

    I miei si erano messi a parlare con i genitori di Luigi e alcuni professori. Nicola era attaccato come un francobollo al vestito a fiori di mia madre e non osava lanciarsi nella campagna aperta, dove altri ragazzini della sua età giocavano a rincorrersi, inseguiti da due cuccioli di Labrador. In mezzo ai prof non scorgevo però D’Ambrosio: se quella testa di legno non fosse venuto, altro che liceo!

    Poi mi accorsi di loro, Valentina e Rosaria: sedevano su una coperta stesa sull’erba, vicino alla musica e non mi avevano ancora visto.

    La settimana prima, mentre aspettavo di entrare nell’aula dove avrei sostenuto l’esame orale di terza media, Valentina mi aveva offerto un pezzo di merendina e parlato di Rosaria. Era stata una faticaccia seguire il suo discorso sconclusionato, però ne avevo colto il passaggio fondamentale: alla festa, avrebbe fatto in modo di lasciarmi da solo con lei. A quel punto, la palla sarebbe passata a me.

    Le mie mani erano sudate, cercavo di asciugarle sui jeans. «Che cosa devo fare?»

    «Parlarle.»

    «Di cosa

    «Di niente in particolare.»

    Ero ipnotizzato dalla maniglia della porta, prima o poi qualcuno l’avrebbe tirata giù e mi avrebbe chiamato.

    «Non pensi che Rosaria sia troppo alta per me?»

    Ma Valentina non mi ascoltava. Dal corridoio arrivavano le grida di giubilo dei ragazzi che avevano già finito con gli orali. La mia amica aveva aperto entrambe le mani con un gesto da suora.

    «Dille una cosa qualsiasi.»

    «Ma cosa

    «Qualunque cosa, non importa. Poi lei ti dirà che per quell’altro fatto lì, cioè che vi dovete mettere insieme, è d’accordo.»

    Bum! L’uscio si era spalancato. Era apparsa la commissione, schierata dietro i banchi, come un plotone di esecuzione.

    Dire una cosa qualsiasi, e lei dirà che per quell’altra cosa lì è d’accordo. Una volta entrato nell’aula, mi ero già convinto che non avrebbe funzionato.

    Valentina si accorse finalmente di me.

    Mi avvicinai a passi incerti sull’erba, sistemandomi il collo della camicia. L’altezza di Rosaria, da seduta, non poteva incutermi paura; quella ora veniva dalla vista della bocca stretta, degli orecchini d’argento, della treccia bionda, più tirata e composta di quella esibita a scuola, del seno sigillato dentro il giubbino di cotone, nonostante il caldo.

    Valentina fece segno di sedermi con loro: mi piegai così sulle ginocchia, in una posizione da saltimbanco scemo. Mi sedetti infine, ma non sulla coperta, bensì sull’erba, così vicino a Rosaria che quasi le schiacciai un piede. Valentina mi diede dell’imbecille; io non riuscii nemmeno a replicare. Rosaria voltò la testa dall’altra parte con imbarazzo. Valentina, contrariata, attaccò lo stesso con la sua parlantina a mitraglia; io mi spostai di nuovo per non venirne trafitto.

    Mi muovevo sulla coperta per sfuggire all’ondata delle sue chiacchiere, mentre spostavo un bicchiere, nella speranza di definire un nuovo equilibro, che mi avrebbe permesso di riallinearmi con Rosaria, questa volta senza pestarla. Ma era ancora tutto come a scuola, quando durante l’intervallo cercavo di guadagnare spazio lungo il mortificante, rumoroso corridoio pieno di studenti, per avvicinarmi alla sua classe e rubarle uno sguardo. Anche Rosaria ogni tanto mi guardava; ma non eravamo ancora riusciti a stabilire un contatto vero e a spiegarci il perché di quelle occhiate.

    Mi accorsi che dal tavolo delle bibite Alessio e gli altri ci stavano osservando: le ragazze lanciavano sorrisetti allusivi verso Rosaria, che faceva finta di niente; Alessio cercava di ignorarmi, anche se non riusciva a posare gli occhi altrove. Aveva la faccia scura, forse era un po’ invidioso.

    Valentina si interruppe di colpo, si alzò e se ne andò via. Oh mamma... un piano davvero fantastico!

    Ora avrei dovuto dire qualcosa a Rosaria. Non mi veniva niente, buio totale, zero assoluto. Poco lontano, Massimiliano, urlando come un forsennato, ordinava alla sua squadra di superare il centrocampo e attaccare.

    Mentre mi grattavo le braccia, mi venne un’idea: offrirle da bere. Afferrai così la bottiglia di aranciata e riempii un bicchiere di plastica fino all’orlo.

    «Vuoi?»

    Lei rimase immobile.

    «No.»

    L’aranciata traboccò sulla mia mano.

    «E perché no?»

    Rosaria controllò il suo braccialetto, d’argento pure quello, come gli orecchini.

    «È così calda che sa di piscio.»

    «Panzerotti per tutti!» urlò in quel momento la Sisto.

    I ragazzi si fiondarono da più parti verso il tavolo. Anche i giocatori di calcio lasciarono la partita a metà, tra i rimproveri inutili di Massimiliano.

    Rosaria si sollevò: la sua figura in piedi pareva davvero monumentale adesso. Mi guardò per la prima volta, lisciandosi la treccia bionda come una frusta. Non diedi ulteriori segnali di vita, così lei mi abbandonò là. L’erba secca scricchiolò sotto la zeppa dei suoi stivaletti.

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