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La compagna padovana
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E-book264 pagine3 ore

La compagna padovana

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Info su questo ebook

Costanzo Ortena, lucano, frequenta l’università di Padova e in città incontra Agnese con la quale
simpatizza. Durante una passeggiata, la ragazza gli racconta la storia della sparizione del padre avvenuta anni prima quando, andato a pescare, scomparve, e con lui la bicicletta che possedeva. Dopo mesi il corpo riaffiorò tra le acque del fiume Piòvego. Suicidio, dissero. Pochi giorni dopo Costanzo viene chiamato dai suoi a causa di un infarto che ha colpito il padre. Corre al paese accompagnato da Agnese e qui, in casa di una parente degli Ortena, la ragazza nota la foto di una bicicletta che ha sul manubrio il campanello simile a quello della bici del padre. Sul retro della foto c’è scritto: “Per la Compagnia dei Bottini”. Una foto, una mappa, una cassetta con del denaro e la violenta presenza della malavita… L’enigma, per Costanzo e Agnese, è solo iniziato.

Luigi Panzardi, lucano, vive a Taranto da molti anni. Giovanissimo pubblica la sua prima silloge, “Parole bianche”. È del 2007 l'antologia “Addii d'un rosso inconscio” (Edizioni Magnetica). Nel 2011 pubblica la raccolta di versi “Passioni e poesie” (Nulla Die), vincitrice del Premio Nazionale di Poesia e Narrativa SLP. Nel 2018 i racconti "La macchina divina" (Nulla die) e nel 2022 la silloge “Il cammino sulla terra” (Montag). Collabora con la Rivista Letteraria “Progetto Babele”. Ha pubblicato poesie e racconti su molti Blog, come Poetare.it., arteinsieme.net, ed altri.
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2024
ISBN9791222498157
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    La compagna padovana - Luigi Panzardi

    Luigi Panzardi

    La compagna padovana

    UUID: 60151a67-bffb-4fc4-8b36-c96d7ed7b9d2

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    Indice dei contenuti

    COLLANA

    Luigi Panzardi

    LA COMPAGNA PADOVANA

    MONTAG

    Montag

    COLLANA

    Le Fenici

    Luigi Panzardi

    LA COMPAGNA PADOVANA

    MONTAG

    Edizioni Montag

    Prima edizione gennaio 2024

    La compagna padovana

    © 2023 di Montag

    Collana Le Fenici

    ISBN: 9788868927530

    Copertina: S. Singh, Unsplash.com

    Quest’opera è esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone esistite, esistenti o a fatti accaduti è

    puramente casuale.

    A mio figlio Alessandro

    D isteso sul divano color viola porpora, teneva nella mano un bicchierino con due sorsi di grappa barricata. In un momento di provvisorio deliquio la sua mano, non più controllata, si afflosciò, bicchiere e grappa caddero sul tappeto, che aveva comprato dall’arabo Omar.

    Gli tornò alla memoria l’incidente, quasi analogo, in cui incorse appena arrivato a Padova e del quale ancora si vergognava.

    Il misfatto avvenne il secondo giorno del suo arrivo nell’alloggio in cui ancora abitava. Ormai erano trascorsi quattro anni. I più belli. Quel grigio giorno, muovendosi in modo maldestro, macchiò l’originale iraniano di proprietà dello zio. Si era preparato una cena frugale e se ne tornava a quel divano, ai cui piedi sfolgorava l’opera. Portava in mano il tegame appena tolto dal fuoco, dentro l’uovo che continuava a sfrigolare. Inciampò contro il bordo del costoso manufatto, perse l’equilibrio e cadde, lui sul pavimento, l’uovo e l’olio sul tappeto e il tegame sopra uovo olio e tappeto.

    Purtroppo, il capolavoro oltraggiato era, quello sì, un esemplare persiano di pura lana vergine, filato e annodato a mano. Costanzo talvolta vi girava intorno. Gli piaceva vederlo cambiar colore, il tappeto camaleonte, ogni volta che cambiava posizione. E perché in futuro non incorresse in una uguale disgrazia, provvide a coprirlo con la copia farlocca che gli vendette Omar. Quanto gli era costato il surrogato? Trentasette euro? Circa. Ed era stato un salasso.

    Un secondo tappeto originale iraniano, altrettanto autentico e costoso, giaceva, per la soddisfazione dello zio, superbo e immacolato, davanti all’enorme scaffale pieno zeppo di libri.

    Costanzo Ortena, in quel pomeriggio in cui gli cadde il bicchierino di grappa dalle mani, contava ventiquattro anni. Aveva i capelli neri come more mature, la fronte alta percorsa da due fuggevoli rughe; gli occhi gemme di ossidiana. Il naso lievemente gobbuto, con gli orifizi così piccoli che erano appena visibili; labbra sottili e lunghe, serrate da sembrare un filo.

    Alloggiava nel monolocale al terzo piano senza ascensore di un vecchio edificio, in via Leopardi numero dieci, distante circa duecento metri dall’università. Oltre il Piòvego. In Padova.

    Vi era arrivato venendo da un piccolo paese in provincia di Matera.

    Quattro anni prima,

    verso la fine di luglio.

    Mese in cui il giovane si diplomò al liceo classico Archita, Elia Ortena, padre del giovane, invitò a pranzo il cugino Antonio, figlio del fratello Giacomo. Questi fu l’ammiraglio della numerosa prole creata in trentadue anni dai coniugi Salvatore e Rosalina, diciottenni quando lo partorirono. L’anno in cui nacque Elia, undicesimo cadetto di quella compagine Ortena, Antonio, figlio pure, appunto, di Giacomo e Maria, aveva già preso il diploma di scuola media inferiore e andava in campagna ad aiutare il padre coltivatore diretto dei propri terreni. Continuò a studiare e infine diventò un funzionario statale, ora prossimo al pensionamento. Durante il pranzo del fine settimana e della sua vacanza, dopo avergli rinnovato ad alta voce i complimenti per i bei voti ricevuti a scuola, zio Anto’ rivolse a Costanzo la domanda di rito:

    «E ora, ragazzo, che programmi hai?»

    Il tono era stato confidenziale, il sottotono si percepì invece molto deciso.

    Antonio Ortena si era seduto al tavolo da pranzo come se si trovasse a un convivio di autocrati. Indossava sul corpo massiccio un abito grigio chiaro, lindo e senza una grinza. Sulla camicia avorio s’illuminava il celeste della cravatta. Il volto largo, abbronzato, dominato dal naso carnoso, era percorso da rughe volitive e di vissuto. Gli occhi erano propri della razza Ortena. Grandi rotondi e neri. Il nero profondo e luminoso delle ceramiche create dagli artisti della regione. I capelli ancora neri, con rari fili bianchi, pettinati all’indietro, a onde che, come in una affollata gara podistica, sembravano correre verso la nuca. Sopra la lunga tavola di noce Adelina aveva steso la tovaglia di broccato. Su quel prezioso bianco spiccava, in perfetta armonia di colori, la divisa di zio Anto’, ossia, del dottor Antonio. Al contrario strideva con quel candore, e rudemente, la giacca marrone di Elia, e sbatteva ancor più contro gli occhi la sottostante camicia a quadretti assemblata con stridenti colori, aperta sul petto d’una già grigia villosità. Adelina, leggermente obesa, ancor più alla prima occhiata per il seno rigoglioso, vestita di nero, essendo lei certa che quel colore fosse il massimo di una raffinata eleganza, stava seduta col piede destro puntato sul pavimento al lato della sedia, come i corridori alla partenza di una corsa libera, pronta ad alzarsi e a fuggire nella cucina adiacente, per aggiustare la cottura delle vivande o, se pronte, per servirle. Costanzo finì di tritare con i denti una croccante fetta di fresco cetriolo che la madre aveva posto, per contorno, intorno alla bistecca di vitello cotta sulla brace, quindi guardò di sottecchi i suoi, poi rispose allo zio, dubbioso:

    «Spero di continuare gli studi…»

    «Che risposta. Ovvio che devi continuare gli studi. Intendevo dire: che indirizzo vuoi prendere e dove vorresti andare, dato che sia in questo nostro paese, che in quelli vicini, degli atenei non esistono neppure i nei». Lo zio Antonio, con un fuggevole sorriso e uno sguardo mesto, tentò di giustificare presso i parenti la misera battuta.

    Costanzo continuava tra un boccone e l’altro a mandare furtivi sguardi ai suoi ed esitava a rispondere. In vece sua intervenne il padre, anche perché sollecitato dal piede scalciato dalla moglie da sotto il tavolo. La donna aveva per un attimo abbandonato la posizione del podista alla partenza della gara.

    «Antonio, il ragazzo non ti risponde perché è consapevole dei problemi che abbiamo. L’hai detto: non esistono università vicine, andare lontano costa: l’alloggio, il mangiare, le tasse…»

    «A Padova!» L’esclamazione, rinvigorita da una sonora sberla sul broccato della tovaglia, che reagì mostrando una serie di antipatiche grinze, interruppe la declamatoria delle difficoltà.

    «A Padova?» ripeté sconcertato Elia.

    «A Padova!» esclamò Adelina atterrita già dalla semplice ipotesi.

    Antonio li guardò e subito offrì alla sala un ampio e liberatorio sorriso, alzando allo stesso tempo le braccia a semicerchio, quasi fosse una riproduzione in miniatura del colonnato del Bernini in Piazza San Pietro. Poi proseguì:

    «Quando mi riuscì di superare il concorso nella pubblica amministrazione, or è un secolo, mi fu detto che gli uffici vacanti, per il posto che occupavo in graduatoria, ed ero tra i primi, si trovavano solo nelle Regioni dell’Italia settentrionale. Allora le amministrazioni statali indivano i concorsi pubblici con frequenze commisurate alle esigenze elettorali dei politici. Cioè, con frequenze fameliche. I più efficacemente raccomandati, vincitori dei primi bandi, occupavano gli uffici siti nelle regioni di residenza, meridionali prevalenti su tutte, tanto che in quelle sedi trovavi scrivanie e sedie anche nei corridoi. Ai ragazzi soli e indifesi, vincitori dei concorsi successivi, non rimaneva che o salutare amici, nemici, fanciulle e andare a occupare i posti vacanti al Nord, o rimanere disoccupati a vita! Io fui tra questi ultimi e scelsi Padova. Fortunatamente fu la più riuscita decisione della mia vita. Perdonatemi, ma per nulla al mondo tornerei a vivere qui».

    «Già!» Intuendo quali fossero le mire, Adelina tentò la via degli affetti familiari per dissuadere l’ospite dal coltivarle. «Lo so io il pianto di tua madre, poveretta!» esclamò vibrante di commozione.

    «Mia madre pianse fuori e mio padre dentro, vuoi che non lo sappia, Adelina? Ma cosa sarei oggi se fossi rimasto ad asciugare le loro lacrime? Certo, per le famiglie che vivono di agricoltura c’è sempre bisogno di braccia, che più sono numerose e forti meglio possono aggredire i campi incolti, ma qui da noi la terra non riusciva a sfamare già i nostri nonni. Costanzo forse non avrebbe potuto frequentare neanche le scuole superiori se Elia non avesse avuto il suo bel lavoro in fabbrica. Il semplice riflettere su come fargli proseguire gli studi è già l’affermazione che c'è una minima disponibilità economica. A Padova posseggo, oltre all’appartamento in cui vivo, un monolocale ampio e provvisto di tutto quanto è necessario per abitarci comodamente. Lo acquistai nel lontanissimo primo anno di impiego, quando capii che non avrei più avuto il trasferimento, che neanche avevo intenzione di chiedere. Impegnandomi a rendere lì il soggiorno, per quanto potessi, il più comodo possibile, convertii l’affitto in mutuo. Così potei ristrutturarlo secondo i miei gusti ed esigenze. Sono fatti che già conoscete: io ne scrivevo ai miei, e loro felici condividevano con voi i miei piccoli e grandi successi».

    «Certamente, ricordo bene tuo padre, ti pregava affinché accettassi il sostegno della famiglia. Tu insistevi di averne abbastanza di tuo. Non volevi per nessun motivo il loro aiuto. Secondo me eri anche un po’ geloso della tua indipendenza».

    «Forse. Comunque, proprio grazie ai mezzi di cui disponevo, e non solo economici, ho potuto sostenerli quando sono diventati fragili. Prima mia madre e poi mio padre. Quanto faticai per portarli a Padova, affinché fossero visitati da specialisti di fama e accolti in strutture di pregio. Ho cercato in ogni momento di fugare le paure. La paura della morte a due passi da loro. Sono riuscito a rasserenarli. A farli ridere del male che li occupava. Mai come allora in vita mia ho sentito così intimamente i miei genitori. Portandoli in viaggio per l’Europa, insieme abbiamo visitato paesi e luoghi che neppure io avevo mai visto». Antonio tacque, il volto alterato dalla commozione, la mano sospesa a mezz’aria, come per guidare gli ascoltatori verso storie più intime, e forse dolorose.

    Il sole inondava il balcone ma faticava a entrare nella sala da pranzo i cui spessi muri di pietra saldavano all’interno la frescura.

    Dalle abitazioni che coronavano la piazza principale del paese si irradiavano altri silenzi e altri profumi.

    «Lo sappiamo, Antonio. E quanto ti sarà costata quella tragedia!» Esclamò Elia con voce cupa, ripassando mentalmente gli eventi drammatici del periodo in cui si ammalò prima il fratello e poi la cognata di quei malanni terminali, contro i quali nulla poté la disperata lotta del figlio.

    «Allora», disse all’improvviso Antonio Ortena, emergendo come in apnea da silenziose rivisitazioni del passato, «vogliamo pensare al futuro di questo giovane?» Poi, sorvolando su dubbi e timori, come un falco già sazio sui corpi delle prede tremanti, si rivolse al giovane Costanzo con tono perentorio:

    «Vieni a studiare a Padova, potrai frequentare una prestigiosa università. Ti metto a disposizione il mio monolocale e per il vitto ti dovrai arrangiare. Eh? Che dici?»

    Si udì a malapena il mormorio di Adelina:

    «A Padova…»

    Costanzo planava nel vuoto ma sotto di lui felici fuochi pirotecnici erano già stati accesi dalla insperata possibilità che ora si stava concretizzando. Per lui la risposta alla domanda dello zio era pura formalità. Esitava solo perché la decisione finale era di competenza dei genitori.

    Elia computava freneticamente. Avrebbe incrementato la rendita con ore di straordinario. Gliele avrebbero concesse. Era stimato. Forse si apriva al figlio la strada per proseguire e nel migliore dei modi gli studi. Veramente, bisognava informarsi ancora sull’ammontare delle spese universitarie e dei vari molteplici costi connessi. Sacrificarsi però per il compimento di quel meraviglioso progetto sul futuro dell’unico figlio sarebbe stato una felicità e non una sofferenza. Il corpo si agitava sulla sedia mosso dall’ansia di trovare le parole opportune per assemblare il discorso da proporre al cugino, verso il quale ora sentiva oltre all’affetto parentale una quasi devota ammirazione, nonché infinita gratitudine:

    «Antonio…»

    Ma l’uomo lo interruppe subito:

    «Elia, non devi farmi discorsi, e neanche grazie devi dirmi. Tuo figlio è mio nipote e dunque, avendone la possibilità, è un dovere mio aiutarlo». Poi proseguì rivolgendosi risoluto sia al padre che alla madre di Costanzo:

    «Anzi, preparate il ragazzo, perché partiamo insieme…»

    «No, ora no! Lasciatemelo questa estate ancora. Vi prego, non me lo togliete così presto, mi ci devo abituare persino a immaginarmi sola senza di lui». Irruppe Adelina gridando, nello stesso tempo si alzava piangendo e scappava in cucina. Antonio la raggiunse per confortarla e rassicurarla. Adelina vedendolo entrare gli si avvicinò e, stringendogli un braccio, cercò di scusarsi fra le lacrime:

    «Antonio, la tua generosità per noi è un dono di Dio. Anch’io voglio che il mio ragazzo vada a Padova, visto che tu lo accogli nella tua casa. E voglio che abbia un futuro ricco e felice. Ma, Antonio, è l’unico figlio e quando partirà sarà la mia carne a partire. Da quando si è diplomato sto tremando di apprensioni e paure, so e voglio che vada avanti, ma per far questo deve andar via da casa. Tutti i giovani se ne vanno. Persino i muri inaridiscono senza la freschezza della vita che gira loro intorno. La sua assenza in questa casa non la sento possibile!» e ruppe in un pianto irrefrenabile.

    «Adelina, quasi mi fai pentire della proposta che vi ho fatto».

    «No no, se hai qualche dubbio, se hai cambiato idea fa nulla, ci arrangeremo in qualche modo, ma se sei deciso», disse alzando la testa e guardandolo negli occhi, «se sei fermamente convinto, allora lui deve venire a Padova. E come potremmo opporci? Sacrificare il suo bene al nostro egoismo? Mai!» E il mai fu rinforzato dal violento scrollo del capo.

    «Brava! Triste, immensamente doloroso, ma giusto. Asciugati le lacrime e torniamo al tavolo che ci aspetta il dolce, vero?»

    «Certo, spero solo che mi sia venuto bene. Vai tu a tavola, che ho ancora da aggiungere qualche ritocco».

    Adelina, con un fazzolettino bianco dagli orli ricamati, provò ad asciugarsi gli occhi.

    Profumi di rosmarino, nocciolo, pungitopo, biancospino, tutti, insieme a quello delle corniole acerbe, intridevano l’aria della sala da pranzo. Tra le delicate sfumature di quegli odori ora s’infiltrava tiepido e morbido quello della vaniglia proveniente lemme lemme dalla cucina.

    Elia meditava ancora e forse s’era smarrito tra i calcoli del progetto sul futuro del figlio. Questi poi baldanzoso per l’offerta generosa quanto insperata, non cercava affatto di nascondere la sua felicità, ma si muoveva sulla sedia e agitava braccia e mani come per dirigere una invisibile orchestra. Antonio si era tolto la giacca che aveva abbandonato su una poltrona ed era tornato al suo posto, quando apparve Adelina con il dolce, un enorme fragrante pan di Spagna infarcito di crema dorata.

    «Antonio, se accetto la tua proposta, mi permetterai comunque di corrisponderti una pigione per l’appartamento?».

    Il cugino si pulì la bocca impiastricciata di crema, poi con tono burbero, rispose:

    «Ah, ma allora ti si è indurito il cervello a lavorare in fabbrica. L’appartamento è vuoto e deperisce nell’abbandono. È vero, ho ancora le utenze allacciate e pago regolarmente le bollette. Allora, mi spiego una volta e per sempre: Costanzo va ad abitarci e basta, è mio nipote ma è come se fosse mio figlio, sarà il padrone, è il padrone! come me. S’intende che qualunque spesa connessa con la gestione del locale è a mio carico, come se fossi io ad abitarlo. Intesi ora?» Poi aggiunse allungando le mani su un’altra fetta di pan di Spagna: «Voi vi preoccuperete solo del suo sostentamento e delle spese universitarie, non solo, ma se fosse necessario qualche volta un aiutino da parte mia... E non parliamone più». Concluse con un beato sorriso ammirando goloso la fetta che stava portando alla bocca. L’aria della sala da pranzo, silenziosa come per incanto dopo le ultime affermazioni di Antonio, s’intrise d’una lieve pacatezza, come la pace che sovrasta i boschi dopo una ventosa tempesta.

    Per Adelina purtroppo la quiete non durò a lungo. Presto fu aggredita da un terribile sospetto:

    «È vero che la mafia esiste anche a Padova?»

    La domanda l’aveva posta d’istinto, ma con la viva speranza di sentirsi rispondere che no, che in quella città del nord, dove regnavano benessere educazione e cultura, non fosse affatto possibile trovare neanche il più minuto rivolo di organizzazioni così criminali. Antonio, spinto all’improvviso nella spinosa situazione, non volendo compromettere il suo progetto, esitò: «La… mafia… c’è?» Quasi tra una vocale e una consonante inciampasse in una timorosa reticenza: «Vuoi... sapere… sì, sì». Poi prendendo l’argomento da molto lontano: «L’associazione degli uomini d’onore ha, come dire, propaggini virali in quasi tutto il mondo e ciascuna di queste propaggini arruola, ancora sul nascere, un congruo numero di adepti. È quindi da presumere che anche a Padova agiscano gli uomini d’onore, ma, cosa vuoi, non è che questi si stiano a preoccupare di uno studentello universitario». E fece il gesto con entrambe le mani di chi scaccia delle mosche importune.

    Non si capì se Adelina si fosse data pace alla vista di quei gesti, perché muta e lenta se ne andò in cucina. Elia si alzò e andò ad affacciarsi al balcone. Antonio lo raggiunse:

    «Caro cugino, la legge del 1965 dispose per gli indiziati di mafia l’obbligo del soggiorno obbligato in regioni lontane da quelle di residenza. Per lo più Regioni del Nord. Proprio per questi sciagurati innesti si costituirono società di criminali organizzate in complicate e spesso spietate gerarchie, dove fino allora era cresciuta una gramigna abbastanza controllabile. Fra gente che neanche aveva mai sentito parlare di ‘ ndrine e cosche».

    «Mi ricordo», confermò amaramente Elia, «di quel boss della ndrangheta calabrese, il nome l’ho dimenticato, che proprio dal carcere padovano, il Due Palazzi, comunicava agli affiliati: Padova è nostra e ordinava di investire sui panifici per riciclare denaro e lucrare grandi guadagni».

    «Io quel nome lo ricordo! Meglio che Adelina non lo sappia. Del resto, quella è gente a cui non interessano giovani studenti provenienti da povere famiglie. Comunque, fidatevi di me. Su Costanzo veglierò io, ché ne ho i mezzi».

    Affacciato al balcone con la ringhiera di ferro smaltata di nero, gli occhi di Antonio scivolarono oltre la piazza, leggeri, sopra un fantasioso mondo di pianure, valli e colline, incarnate di colori diversi che disegnavano armonie perfette per ognuna di quelle delicate geometrie: miscele di verde giallo, giallo oro dei campi coltivati a frumento; esibizioni ridenti di rossi papaveri e gialle margherite lungo i confini e le fenditure, un verde foresta umbratile e misterioso nelle piccole piazze di terreno sui cui contorni s’affollavano folti cespugli. Un immenso e festoso gioco cromatico che lasciò come sempre stupefatto l’ospite.

    Ricco era il pentagramma dei profumi sul quale si distingueva tuttavia quello delle rose che fiorivano in un cespuglio verde mite, sul lato sinistro del balcone.

    «E di certo Costanzo verrà per studiare, non per frequentare discoteche e ritrovi equivoci». Affermò convintamente Antonio quando si riprese.

    «Ovvio!»

    Costanzo che si era avvicinato al balcone esclamò con un sorriso beato.

    Lo zio, muovendosi lentamente, si andò a prendere la giacca. Mentre la indossava con qualche fatica, conseguenza del lauto pranzo, disse rivolto al giovane, alzando la voce di modo che sentissero anche gli altri due:

    «Bene, allora, ragazzo, a settembre ci incontreremo a Padova. Mi informerai sull’orario d’arrivo del treno, così ti aspetterò alla stazione, dato che tuo padre, e figuriamoci tua madre, non ti consentiranno di venire in aereo».

    «L’aereo costa troppo». Fu il giudizio del meditabondo Elia.

    «Ed è pericoloso», aggiunse subito Adelina «e poi ci sono i bagagli: dovrà portarsi indumenti di lana pesanti per affrontare il lungo inverno nordico».

    La donna lo disse contorcendosi le mani per l’agitazione come se già il figlio stesse per partire.

    Questi invece stava in mezzo, in silenzio, guardando or una or gli altri, senza che prestasse loro attenzione, occupato a sognarsi già nella città del Santo.

    «Mi dispiace, ora devo salutarvi, si è fatto tardi. Vi abbraccio. Ci rivedremo». Nel pronunciare rivedremo la voce dell’uomo s’incagliò come con un tonfo una barca sugli scogli al buio.

    Arrivo e sistemazione a Padova

    il 5 di settembre, alle cinque del pomeriggio.

    Costanzo scese dal treno che parcheggiò i vagoni sul quinto binario della stazione principale di Padova. Si fermò in mezzo alla banchina posando i due pesanti

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