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Il vizio delle cose pure
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E-book264 pagine4 ore

Il vizio delle cose pure

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Info su questo ebook

Ferdinand Miliano è un pediatra in pensione. Dalla sua casa signorile con vista sul golfo di Napoli racconta a un anonimo destinatario la storia di Louis, il gemello scomparso venticinque anni prima in circostanze misteriose.
Il suo lungo viaggio tra le feritoie della memoria parte da Formia, nel basso Lazio. Ferdinand ha appena saputo della morte del fratello che non vede da dieci anni, a causa di dissidi scatenati dalla dipendenza di Louis per il gioco. Nel villino in collina dove i gemelli trascorrevano le estati da bambini, tra polvere e pile di libri, Ferdinand scopre il manoscritto di un romanzo, Il vizio delle cose pure. Lo ha scritto Louis.
Sulle tracce della metà oscura di se stesso, Ferdinand compie un percorso a rebours che lo porta a sondare le radici della sua identità. Il tramite è Diego, il protagonista del romanzo di Louis. Un bambino affascinato dalla mistica del poker, un adolescente tradito dalle sue stesse speranze e un adulto giramondo che solca i mari per celebrare il suo distacco dalla vita.
La storia di Diego è il messaggio diretto a un anonimo che ancora non sa quanto tutto questo lo riguardi.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927672
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    Anteprima del libro

    Il vizio delle cose pure - Simone Pangia

    Musa.

    Prefazione

    Vizio. Parola sfuggente, a tratti nebulosa, passaggio da un difetto fisico al difetto in astratto; il vizio ci allontana dalla perfezione.

    Puro. Parola genuina, autentica, senza possibilità di fraintendimenti: la purezza è essenza senza contaminazioni.

    Due parole antitetiche in un titolo per un romanzo dove centrale è il tema del gemello, il thopos del doppio.

    Nel romanzo di Simone Pangia il tema del doppio aumenta sensibilmente lo spessore drammatico del simbolismo legato ai gemelli che si trovano a rappresentare l’impossibilità di reductio ad unum. I protagonisti saranno portatori non sani della complessità, e perfino della contraddittorietà, dolorosa e infausta, di ogni identità.

    La figura naturale dei gemelli, ovvero della replica di un individuo, apre una crepa nell’idea di identità, di originalità e univocità; i personaggi, la voce narrante di Ferdinand in primis, sono un monologo aperto al tema di chi vive la contraddizione e il solco nell’anima.

    Anche la scrittura, a tratti senza respiro, mantiene un ritmo alternato e doppio: lento, ma non ripetitivo, quando si rivolge al passato, incalzante, ma non frenetico, quando il presente tende al distopico.

    Romanzo di rottura, trama che seppur sdoppiata mantiene la sua linearità; l’autore non scivola mai nell’ovvio, anzi induce il lettore a una lettura duale, duale nel suo primario significato greco: figura intermedia, tra singolare e plurale, vissuta nell’uno e nel doppio.

    Scenari che si aprono a diverse letture, fermo il sentimento di trovarsi sdoppiato: collegamenti strutturati nella lingua, mai banale e negli argomenti che, seppur noti, assumono alla lettura con un approccio inedito.

    Romanzo sperimentale, ma con radici profonde nella letteratura di introspezione; scrittura curata e attenta ma che osa e a tratti schiaffeggia l’anima e il pensiero.

    La ricerca del vero, che in letteratura può essere e resta sempre, secondo la lezione del Manzoni, solo e sempre verosimile: mai perdere nel vissuto e nel pensato il vizio della purezza.

    Altamente apprezzabile per originalità questa prova dell’autore. Alla lettura risalta l’intento di sperimentare nuove vie per un tipo di letteratura, la distopica, non più fine ma mezzo verso nuove argomentazioni e mutazioni di scenari che portano a conoscenza.

    Carmina Trillino

    Napoli, 6 ottobre 2048

    Schiarii la gola e diedi un colpo di tosse. In quel buco di stanza ce n’era di polvere. Libri su libri, stipati sui ripiani della parete attrezzata o ammassati per terra a formare pile dalle cime barcollanti che somigliavano a enormi formicai. Il manoscritto era al centro del tavolo, incorniciato dal getto di luce della lampada a molle. Non riuscivo a smettere di fissarlo. Ero come un bambino che osserva intontito un oggetto di cui ignora quasi tutto. Louis, chi l’avrebbe mai detto? Crescere nella casa di un bibliotecario ossessionato dai libri immagino possa averlo stimolato ad avere con le parole una certa consuetudine ma tra leggere e scrivere, mio caro, vedo ancora una bella differenza. Sai quante cose ci sono nel mezzo: la tecnica, l’estro o i cento e rotti attributi che l’uomo ha coniato per definire il talento. Eppure, vedi, furono altri gli aspetti su cui mi soffermai. La costanza ad esempio, la dose considerevole di tenacia che ritenevo occorresse per partire da una pagina vuota e arrivare sino in fondo, seguendo un percorso logico fatto di sole parole. Per quanto sapessi, Louis ignorava anche solo il significato della parola costanza e se rimasi incollato alla sedia non fu certo per il tempo che avevo da trascorrere in quella casa. Ero colpito, questa è la verità. Direi persino affascinato.

    Lo stampato con in testa il suo nome lo avevo aperto per banale curiosità, il morboso interesse per cui dal primo pomeriggio non facevo che frugare tra le sue cose in cerca di una foto, un numero, qualunque dettaglio mi aiutasse a ricostruire ciò che era stato della sua vita negli ultimi anni. Ora avevo il libro ed era più di quanto cercassi ma saperlo suo mi inquietò, oggi posso dirlo con assoluta certezza, non perché Louis fosse morto da meno di quarantott’ore.

    Della sua scomparsa avevo appreso al telefono. Erano le sette e trenta del mattino di un inutile martedì di fine settembre, afoso che pareva estate, un’estate torrida e mortalmente noiosa di cui faticavo a intravedere la fine. Bevevo caffè seduto in cucina curandomi di tenere i tormenti del lavoro un passo fuori dall’uscio di casa. Sai, la gente sottovaluta il potenziale distruttivo di cui una donna è capace quando teme per la salute dei suoi piccoli. Il complesso di strepiti e pensieri ansiogeni di cui, incidentalmente, si compone la mia professione non richiede particolari condizioni per sprigionarsi. È sufficiente che la diagnosi si discosti, anche solo in parte, dalla lettura che loro, studiose accanite oltre che madri devote, hanno offerto dei sintomi al termine di complesse investigazioni avviate su Wikipedia e concluse su My personal trainer. Gli effetti di questo ordigno intelligente sono trascurabili nell’immediato ma severi nel tempo ed è così che la vita di un pediatra si trasforma. Un compendio di noia e sovreccitazione, ecco cosa diventa. Un cahier infarcito di buoni propositi mortificati dalla prassi quotidiana. Non fraintendermi, è sempre lusinghiero constatare come la vita di un bambino sia degnamente valutata, al contrario di quanto accade per noialtri, ma la cosa può risultare un filino stancante alla lunga. Ognuno ha il suo piccolo rito di autodifesa. Il mio era bere caffè seduto in silenzio. Ogni mattina, poco dopo le sette. Per niente al mondo vi avrei rinunciato ma quel giorno, mio malgrado, dovetti fare un’eccezione.

    Succede che la vita cambi all’improvviso e che l’accidente destinato a condizionare gli eventi futuri ci sorprenda mentre attendiamo alla più futile delle attività. C’è chi si scopre milionario seduto sul cesso o cornuto mentre dà l’acqua alle azalee e chi apprende d’essere ormai figlio unico mentre sorseggia caffè riflettendo con attenzione sull’operato delle zanzare. Il caffè, sai, lo prendo dolce da stordire un diabetico e pazienza se i sofisticati dissentono. Mi importa solo che la glicemia non cali a picco a metà mattinata e che il contenuto della tazzina riesca nell’impresa di tenermi sveglio fino al primo pomeriggio. Sono informato, certo, sul borderò di fisime che a Napoli accompagnano e sostanziano il rito del caffè. Che l’acqua non superi il livello della valvola – marò, il caffè lento è un’offesa alla vita – e la fiamma resti bassa che il caffè si brucia altrimenti. Il coppetiello? Non vorrai mica fare a meno del coppetiello sul beccuccio? L’aroma fuggirebbe via col vapore e non sta bene, sarebbe come restituire al mittente un dono del Signore. E allora che Dio mi perdoni. Sono napoletano, lo ammetto, ma non vedo perché debba per forza citare a memoria i monologhi di Eduardo o venerare Maradona di cui non ho fatto che esecrare gli eccessi. Aggiungo che alla sfogliatella preferisco nettamente il pandoro. Detesto anche il mandolino, se è per questo, e ogni forma di rituale che punti a rendermi parte di una comunità cui, per evidenza anagrafica, appartengo da più di otto decenni.

    A ogni modo, posso assicurarti che quel mattino ogni strato della mia corteccia encefalica era assorbito dal pensiero dei Culicidi e il fatto che per tutta la notte non mi fosse riuscito di chiudere occhio immagino avesse il suo peso. Ah, puoi dire tutto di queste amabili creature tranne che non sappiano il fatto loro. Scorrazzano allegramente per la stanza e quando sono stanche si sdraiano sul soffitto o sulla parete accanto al letto dove dormi. Le vedi e il solo pensiero di conoscerne la posizione ti rende spavaldo. Così, in preda al furore omicida, fissi il puntino sul muro e rallenti i movimenti, lasci che i muscoli si contraggano in attesa del colpo di reni finale. Qualunque sia l’arma – il palmo della mano, il cuscino, una federa o un libro – sai che il bersaglio è lì e che il suo destino è segnato. Al momento opportuno sferri l’offensiva e sembra che tu abbia le ali montate sulle scapole anche se hai i piedi cementati per terra ma fai bene a tenerti cauto perché quello, esattamente quello, è l’attimo in cui la sconfitta si manifesta. Cerca pure. Sforzati, accecati. Non troverai nulla perché ora quella graziosa creatura con le ali e le zampette ha il colore e la forma della penombra. Forse hai solo immaginato di vederla. Un anophele nasce e muore in venti giorni, vuoi che perda il suo tempo a vegliare sul sonno di un estraneo? Decisi di tornarmene a letto. Spensi l’abatjour e aspettai che il sonno arrivasse, come è mia abitudine, sdraiato su un fianco. Trascorsero pochi secondi e il ronzio tornò, un brusio intermittente tra la punta del naso, il centro della fronte e il lobo dell’orecchio. Non era una, né due, ma un intero battaglione di fameliche zanzare armate fino ai denti. Sopra al letto, sotto al letto, sul fianco del letto. Ero circondato.

    Dicevamo del telefono. Un attimo prima che squillasse meditavo sulla fantasiosa miscela di virtù, energia e abnegazione che si combinano nella femmina di questo eroico animale. Sai, pungerti per diletto è una cosa, altra è massacrarti la psiche per una causa nobile e tale senza dubbio è il proposito di una madre che accetta di esporsi alle insidie del mondo pur di reperire le proteine necessarie alla maturazione delle proprie uova. Avrei dovuto provare tenerezza in fondo, accettare con orgoglio di far parte di quel meraviglioso ciclo vitale e invece ero lì, con una tazzina di caffè tra le mani, a progettare il mio personalissimo programma di sterminio. Devo dire, senza il minimo rimorso.

    Giovanna dormiva e non c’era motivo di svegliarla. Per tutta la notte aveva condiviso il mio tormento, tollerato le schiacciate di mano, gli sbuffi, le volte, tante, in cui mi ero girato e rigirato per il letto maledicendo la calura e il ronzio di quelle dannate creature. Il diritto al riposo se l’era conquistato ma il telefono ringhiò. Non potrei definirlo uno squillo. Somigliava a un gong o una campana, uno di quei suoni impetuosi che scavano un solco invalicabile tra il prima e il dopo dei tuoi pensieri. Corsi verso la cornetta e dissi pronto. Praticamente, lo sussurrai. Mi rispose la voce di un uomo, roca da tabagista incallito, un po’ impacciata, decisamente troppo formale per non apparirmi sospetta.

    È lei Ferdinando Miliano? mi chiese e io lo interruppi: Ferdinand, mi chiamo Ferdinand.

    Ho idea che badasse poco a certe cose perché un attimo dopo mi chiese se fossi il fratello di Lois. Pronunciato così: Lòis. Fui lì per correggerlo nuovamente ma desistetti. Non credo gli importasse di sapere che quel nome lo aveva scelto papà all’apice di una delle sue cicliche infatuazioni letterarie. Ne ebbe di fortissime, sai, anche negli anni a venire. Viaggio al termine della notte finì di leggerlo seduto nella sala d’attesa dell’ospedale dove volle, anzi pretese, che mia madre partorisse. Nell’immaginario romantico di lei, la nascita di un figlio (uso il singolare perché, fino al parto, la poveretta non aveva idea di quanti fossero i marmocchi rannicchiati nel suo ventre) richiedeva la massima dose di familiarità: la madre, la sorella e tutte le altre femmine di famiglia raccolte attorno al suo letto.

    Non se ne parla, disse papà forse nell’unica occasione in tutta la vita in cui non volle sentire ragioni, siamo mica in Africa noi. Leggi Céline, mia cara, vedrai che ti passa la voglia.

    Così nacquero i nomi Louis e Ferdinand e da parte sua fu un’evidente sottovalutazione delle conseguenze che la cosa avrebbe prodotto sulle nostre esistenze, visto che deformare il nome dei suoi figli, da allora in avanti, sarebbe diventato uno sport nazionale praticato da generazioni di bifolchi.

    Ti piace il calcio, bambino mio, oppure il basket? Preferisci il tennis, la pallanuoto?

    No, voglio storpiare il nome di quelli lì.

    Devo dire che nelle persone l’equivoco fonetico si sprigiona con tale naturalezza che non riesco a provare astio nei loro confronti. È che, in tutti questi anni, nessuno ha mai neppure intuito il motivo per cui io e Louis portavamo quei ridicoli nomi francesi. Le spiegazioni, ricordo, erano sempre particolarmente sgradevoli. Qualcuno ridacchiava. Si sa, l’esotico ispira sempre buon umore. I più raffinati tacevano ma trovavi anche lo zotico senza vergogna che, a brutto muso, diceva: Scusa, chi diavolo è ’sto Selin? Infinite volte, comprenderai per motivi diversi, mi sono posto lo stesso interrogativo.

    Louis è il mio fratello gemello, dissi senza far nulla per mascherare la stizza e il problema non era certo il francese sgraziato del mio interlocutore. Temevo che il testone si fosse messo di nuovo nei guai e quando la voce al telefono riferì di chiamarmi dalla polizia stradale di Formia il pensiero fu molto più d’un sospetto.

    Senta, dissi, non so cosa Louis abbia fatto e devo dirle che neppure mi interessa.

    Veramente, l’ho chiamata per informarla che suo fratello… stanotte è rimasto vittima di un terribile incidente.

    Gli attimi di silenzio che seguirono il tizio li sfruttò per riflettere sul resto delle cose che aveva da dire. Non gli era chiaro forse se la becera espressione presa in prestito dalla cronaca locale bastasse al fine che si era preposto, se insomma fosse più delicato fermarsi dov’era o andare fino in fondo, affidarsi al non detto o adempiere al suo dovere con il brutale rigore che si conviene a un pubblico ufficiale.

    Louis è morto. È questo che tenta di dirmi?

    Il quesito, credo, pose fine al suo monologo interiore.

    Sono addolorato, rispose e anch’io pensai che in fondo ci fosse poco altro da dire.

    Louis aveva avuto un incidente e se n’era andato all’età di cinquantasei anni, con lo stesso numero di mesi e di giorni che avevo vissuto io fino ad allora, più i venti minuti, secondo più secondo meno, che facevano di lui il primogenito della famiglia e che, pensai piuttosto cinicamente, lo ammetto, nel corso delle ultime ore avevo recuperato e abbondantemente superato. Se il tempo di Louis si era fermato, il mio sarebbe andato avanti chissà per quanto ancora e la cosa mi parve insolita considerando che ero sempre stato il secondo e ora non ero il primo ma l’unico, il gemello di me stesso.

    Non provai dolore né rabbia all’inizio, solo curiosità. La fine non rende le persone migliori e Louis, per quanto sapessi, era morto già da più di dieci anni, da quando io avevo deciso che lo fosse, prima che i fatti diventassero, come dire, irrimediabili. Tagliare le cose con l’accetta non è mica tanto semplice, renderle volontariamente definitive. Conosci niente di più naturale della speranza? Io, Louis e papà: due gemelli e un bibliotecario con la testa tra le nuvole. Il quadro poteva ricomporsi se qualcuno lo avesse voluto ma, sfortunatamente, all’epoca papà era l’unico a desiderare un esito di quel tipo. Perdere un fratello sì che è una sciagura e nessuno poteva saperlo più di me ma il fatto era accaduto ben prima di quell’afoso giorno di settembre e, a meno di grosse novità intercorse nel ciclo biologico del mondo, ritenni che non si potesse patire lo stesso lutto due volte.

    Il sovrintendente Giovanni Saccone, come poco dopo ebbe modo di qualificarsi, mi informò che la macchina di Louis era precipitata in una scarpata sul litorale tra Gaeta e Sperlonga dopo essere uscita all’improvviso di strada in prossimità di una curva. La cosa strana, disse, è che sull’asfalto non era stato rinvenuto alcun segno di frenata. Louis era filato dritto come se non ci fosse un tornante, un parapetto, un dirupo a picco sul mare alto quasi trenta metri. Forse si era trattato di un malore, spiegò. Io ipotizzai che fosse ubriaco ma lo tenni per me.

    Allo stato, disse Saccone ripiegando sul poliziesco, genere a lui decisamente più congeniale, non ci sono ulteriori elementi che possano aiutarci a ricostruire la dinamica del sinistro.

    Già, del sinistro. Così lo chiamò.

    Non ci sono testimoni. Nessuno è transitato sulla strada mentre l’auto si schiantava contro il guardrail. Sull’altra corsia neppure una frenata, niente. Ripeto, potrebbe essersi trattato di un malore.

    O di un colpo di sonno, aggiunsi io smascherando tutta la mia impreparazione in fatto di indagini.

    Vede, il sonno può indurre l’automobilista a sbandare ma è difficile che possa proseguire dritto fino all’ultimo, senza neppure accennare una frenata. Naturalmente, teniamo aperta ogni pista. È probabile che il magistrato disponga l’autopsia e allora dovremo attendere gli esami tossicologici e istologici. Ci vorranno un paio di mesi.

    Quasi mi venne da ridere pensando a come il termine sinistro aderisse perfettamente alle circostanze e dovetti industriarmi parecchio perché dalla bocca mi uscissero parole di senso compiuto. Così, fingendo un interesse che non avevo, chiesi a che ora fosse avvenuto l’incidente.

    Non possiamo saperlo, rispose Saccone, l’auto è stata trovata poco dopo l’alba. Un bagnante si è accorto del guardrail sfondato, ha guardato giù e ha visto la Panda di suo fratello incastrata tra una roccia e un grosso pino. Possiamo ipotizzare che sia accaduto dopo le tre del mattino perché è l’ora in cui il traffico della Flacca è minore. Ma non ci sono certezze. Posso garantirle però che i soccorsi sono scattati con tempestività.

    I vigili del fuoco s’erano dati un bel da fare per estrarre il corpo dalle lamiere.

    Bisogna provarle tutte. Sa, a volte i miracoli succedono. La gru è ancora lì per recuperare la carcassa dell’auto.

    Quel termine, carcassa. Istintivamente, mi venne di dissezionarlo trovando curiose corrispondenze tra il significato dei lemmi e la situazione nella quale mi trovavo. Come sai, Car in inglese vuol dire macchina. Un giorno, per caso o destino, qualcuno si era sentito in dovere di abbinarvi il termine cassa e questo sì che era sinistro. Mentre Saccone completava il discorso, io pensavo a come il linguaggio tenda a essere innaturalmente aulico o pedestre quando c’è da rappresentare la morte, sia essa di un oggetto animato o inanimato. Comunque, l’immagine dell’auto di Louis prese subito il posto dei Culicidi al centro del mio cranio. Vidi i vetri infranti e l’asse spezzato, la carrozzeria accartocciata su se stessa somigliava a un foglio scarabocchiato nel quale, per caso, qualcuno aveva arrotolato una vita per gettarla via assieme a ciò che di inutile v’era scritto.

    Fui colto da una curiosità incontenibile. So che è sconveniente ma non facevo che domandarmi perché, tra tante persone, si fossero rivolti proprio a me. Chiesi lumi nella forma che ritenni più accettabile ma non bastò a salvarmi dal giudizio di Saccone che rimase in silenzio al telefono sospirando. La domanda evidentemente non gli era piaciuta e neppure il tono tranquillo che avevo conservato per tutto il tempo della telefonata. Una notizia tanto tragica e neppure una lacrima, uno sbuffo, un respiro affannoso. Niente. Detto che ognuno del dolore fa l’uso che ritiene, confesso di aver provato in quel momento un senso di profondo fastidio, sentimento che non potrei altrimenti definire se non ricordando Louis, l’uomo che era o allora ritenevo che fosse. La sua dipartita somigliava a un colpo di teatro, uno scherzo, l’ultimo di una lunga serie, senza dubbio il più atroce. Lo immaginavo ridere, ovunque lui fosse. Di me, di tutto. Era stato un bel botto, in volo per venti metri a bordo di una Panda. Si può morire degnamente su una Panda? Mio caro, la verità è che non si muore mai degnamente. Per tutta la notte era rimasto incastrato tra le rocce di un dirupo a picco sul mare. Nel giro di poche ore il sole sarebbe spuntato davanti ai suoi occhi, illuminando l’orizzonte e il profilo di Ponza e Palmarola. Un finale struggente, non trovi? Un colpo di teatro, appunto. Louis fermo al centro del palco, sparato come una palla di cannone davanti a una platea desolatamente vuota dove l’unico spettatore ero io: Ferdinand, il gemello tutto d’un pezzo che aveva il suo volto, la sua voce e il suo pisello, e neppure un briciolo del suo incompreso talento. Ferdinand, l’uomo serio che curava la gente, il più utile e organico rappresentante del mondo civile, sposato con due figli altrettanto studiosi e organici, membro dell’associazione che raccoglie fondi per la ricerca e la cura delle leucemie, sempre pronto ad aiutare il prossimo a condizione che il prossimo non fosse suo fratello.

    Saccone riferì che il portafoglio di Louis conteneva una vecchia foto. Due bambini perfettamente identici sedevano in posa sul coperchio di un pianoforte. Sul retro c’era scritto il mio nome e il numero di telefono che il poliziotto aveva appena composto.

    È così che siamo arrivati a lei. C’erano anche altre scritte. Versi di una poesia, credo. Quando verrà le faremo avere i suoi effetti personali.

    Sembrava che fosse tutto già deciso. Non ero solo il custode della notizia e si dà il caso in frangenti come quelli che il primo a sapere sia anche il

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