L'ombra di Megaride
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Anteprima del libro
L'ombra di Megaride - Tomaso Sant'Elmo
Napoli
23 novembre 1980
domenica
I
Il claustrofobico precipitarsi in strada di un sopravanzo di umanità in una vischiosa e improvvisa desolazione: Via Sant'Arcangelo a Baiano alle diciannove e trentacinque di una domenica di fine novembre.
Un'ombra adagiata su lacrime di pietre antiche: in un lampo il più bel palazzo della strada era diventato una mutilazione che rivelava l'energia abrasiva del respiro aspro della terra. Un'aria densa, estranea, opaca e lattiginosa; una nebbia innaturale di polvere copriva l’edificio diventato una verità vuota.
Ai soccorritori doveva essere apparso come una scenografia abbandonata su un lacero palcoscenico.
In quei vicoli, con le case afferrate le une alle altre e dove la vita si sente più che vedersi, ora era silenzio. Non un'assenza di suoni o rumori, ma un muto palpito di piombo che avrebbe voluto ingannare la incompiuta solitudine della strada.
Gli sguardi delle persone, quasi aggrappate tra loro in un'unica ininterrotta spirale che avvolgeva tutto, spiavano con stupore sfrontato le mosse circospette dei vigili del fuoco in lotta con il tempo. Qualcuno aveva detto di aver sentito, forse, delle urla provenire da lì e poi più nulla.
Senza alcuna certezza due pompieri avevano affondato nel ventre dell'edificio prima gli occhi e poi il loro coraggio. Il lato destro del palazzo era completamente devastato e svelava una geografia penosa di stanze sventrate, con mobili in bilico altri precipitati; abiti volati fuori dagli armadi, e ora sospesi in un vuoto irreale, erano impigliati nei resti di finestre e ringhiere pericolanti di balconi distrutti, animati dall’aria come frammenti di esistenze intrecciate in quegli spazi ormai disfatti. I vigili si erano inerpicati sulle macerie ricomposte innaturalmente, nel moto misterioso del terremoto, fino a formare una barricata a difesa dei resti ancora in piedi.
I fasci di luce delle fotoelettriche tratteggiavano immagini spettrali: le ombre dei due soccorritori si dilatavano e poi sembrava si spegnessero, secondo i movimenti, come fiamme grigie di un nuovo girone dell'inferno dantesco.
All'improvviso lo slancio ardito dei due uomini che, dal dirupo creato dal cedimento di una parte della scala, in fondo dove gli ultimi gradini approdavano nell'androne, avevano udito un flebile gemito. Raggiunti da altri compagni, muniti di potenti torce, avevano avviata la ricerca incalzati dal rischio del crollo dei tanti segmenti pericolanti dell'edificio.
Calchi pompeiani, così erano apparsi i corpi di due persone, trovate quasi abbracciate, sepolte dai detriti di una follia scatenatasi in un attimo: solo i volti esangui e ricoperti di polvere emergevano come maschere tragiche.
Il recupero dei feriti, offesi da quella cenere biancastra depositata dai muri franati, era stato difficile, tuttavia erano vivi. L'ambulanza era partita rapidamente, con il suo carico incerto, solcando il pallore livido dei presenti che, in uno spasmo di movimenti, avevano fatto strada richiudendosi, subito dopo il passaggio del mezzo, in un magmatico coagulo di poveri cristi.
«Chi sono? Chi sono? Chi sono?» Un unico frùscio di voci percosse l'aria.
Il caposquadra dei vigili del fuoco aveva dato disposizione di delimitare lo spazio prospiciente il palazzo: uno squarcio recideva ora Via Sant'Arcangelo a Baiano interrompendo qualsiasi transito.
I carabinieri a fatica erano riusciti a spingere indietro le persone ammassate che si muovevano di malavoglia come se gli stessero rubando la terra.
Sant'Arcangelo a Baiano, un sabba di candide fanciulle trasformate in diavoli e streghe, questa era la memoria popolare del luogo, apparentemente dissoltasi nei secoli e ora prepotentemente riemersa come una condanna a cui non ci si poteva sottrarre.
L'area era considerata già in antichità, dall'epoca di Neapolis, un ganglio del misterioso intreccio di campi magnetici che attraversava l'intera città: luogo di forze naturali, espressione della potenza generatrice della Terra e delle sue illimitate energie. La presenza di un corso d'acqua, chiamato Fistola e consacrato alle divinità, amplificava l'effusione di spiritualità nell'intero spazio, tanto da favorire la edificazione di un sacello dove celebrare riti propiziatori dedicati alla fecondità.
Come spesso accadeva nel passaggio dalla religione romana al cristianesimo, i templi erano stati trasformati in chiese o, quando ciò non era stato possibile, negli stessi siti, riconosciuta la potenza mistica del luogo, erano stati edificati cenobi. Questo avvenne anche nell’area che sarebbe diventata Via Sant'Arcangelo a Baiano quando si insediò una comunità Basiliana che istituì un piccolo monastero sul suolo dell’antico sacello greco romano. Successivamente, nel secolo tredicesimo, ci fu la trasformazione in una grande struttura, voluta e finanziata da Carlo I d'Angiò per celebrare la vittoria sugli Svevi e la definitiva conquista del regno. Il nuovo convento, destinato alle fanciulle appartenenti alle famiglie aristocratiche, fu dedicato a San Michele Arcangelo, protettore del casato. Le monache ricevettero, nel corso degli anni, molti donativi e godettero della protezione delle dinastie, che si erano succedute nel regno, e della nobiltà da cui provenivano.
Tra i doni ricevuti anche una preziosa reliquia con il sangue di San Giovanni Battista e la proprietà del Fistola, le cui acque scorrevano nei pressi del chiostro della cittadella monastica. Secondo la tradizione anche Maria d'Aquino, figlia naturale di Roberto d'Angiò, fu ospite del convento: era la Fiammetta cantata dal Boccaccio, innamoratosi di lei incrociandola durante la funzione di un sabato santo in San Lorenzo Maggiore.
Tutto avrebbe fatto pensare che il monastero, ricco dell'aura spirituale del luogo, fosse un paradiso, privilegio di poche fortunate. In realtà non fu così: nel sedicesimo secolo iniziarono a circolare voci persistenti sulla immoralità delle monache e sulla consumazione notturna di riti orgiastici, sedute esoteriche e messe nere.
L'intervento delle gerarchie religiose produsse, dopo inutili pratiche esorcistiche, il trasferimento delle suore, distribuite negli altri conventi napoletani, accusate per le loro frenesie di essere possedute dal diavolo e, cosa più grave, la chiusura e l'abbandono del convento, considerato infestato da demoni oscuri, destinato così irrimediabilmente alla distruzione del tempo. La colpa degli eventi fu fatta cadere sulla presenza, ritenuta immonda dalle logiche bigotte dell'epoca, nello spazio del convento dei resti del sacello precristiano, che avrebbero corrotto e influenzato maleficamente le monache. La sentenza di condanna del luogo e il marchio di malignità attribuito all'intera area, compresi i vicoli prossimi, incise un segno indelebile in un popolo facilmente suggestionabile, alimentando così pregiudizi e superstizioni. Si narrava, anche dopo secoli, di spaventosi lamenti che si levavano in particolari notti e della presenza di ombre inquietanti che scivolavano improvvisamente alle spalle dei passanti: le anime dannate delle monache continuavano ad aggirarsi in cerca di pace.
Lipsia
29 settembre 1933
venerdì
II
Il bagliore luminescente, effuso dal Madler Passage, li colse appena voltato l'angolo di Neumarkt.
La luce sembrava ondeggiasse nello spazio, un'energia impenetrabile che sprigionava la propria potenza. Qualcosa di diverso dall'illuminazione artificiale della galleria: un magnetismo che irradiandosi prepotentemente intorno, fino ad oscurare gli edifici adiacenti, investiva come un fluido invisibile le persone che transitavano nella strada.
Avevano raggiunto istintivamente la via del nuovo mercato, dopo aver percorso il Gewandgasschen da Universitatstrasse, concentrati a parlare degli esiti dell'ultimo lavoro.
Ettore aveva voluto salutare, prima della partenza, alcuni colleghi dell'istituto di matematica, con i quali aveva condiviso, nei mesi trascorsi a Lipsia, diverse ricerche: ne apprezzava la pervicacia nel perseguire sempre il migliore risultato. Era un aspetto a lui connaturato e non compreso da tutti; l'immancabile meticolosità che metteva nella verifica dei complessi calcoli era stata spesso oggetto del sarcasmo degli altri ricercatori di Roma, che gli avevano affibbiato, per questo motivo, l'appellativo ironico di Grande Inquisitore.
La serata era tiepida nonostante fosse fine settembre: da alcune giornate c'era un clima caldo fuori stagione, un piacevole prolungamento dell'estate detto altweibersommer, che non dispiaceva affatto agli abitanti di Lipsia. Un variopinto andirivieni di passanti animava le strade del centro, per lo più coppie benestanti intente ad osservare le ricche vetrine dei negozi.
Qua e là si notava qualche camicia bruna; gruppetti di pochi individui che, tronfi per la recente nomina a cancelliere del capo del NSDAP, non riuscivano a scrollarsi di dosso quella protervia e grossolanità rumorosa che li connotava.
Raggiunsero il fratello di Karl, fermo sotto l'arco di accesso al Madler Passage intento ad osservare le persone a passeggio. Le presentazioni si limitarono ad una stretta di mano, i tre si inoltrarono subito nella galleria camminando affiancati: Ettore nel centro e i due fratelli ai suoi lati. Atletici e di statura alta, superavano il loro amico italiano di almeno venti centimetri. Erano i tipici esponenti di quella gioventù sportiva tedesca cresciuta nella piccola nobiltà cattolica, tanto riservata quanto fortemente radicata nelle tradizioni austere ed essenziali che la contraddistinguevano, molto critica con il nuovo corso politico del paese.
Entrambi avevano svolto rigorosi studi universitari, uno in campo scientifico e l'altro in quello umanistico, completati da corsi di perfezionamento, soprattutto in Italia, durante i quali avevano acquisito un’ottima conoscenza della lingua, tenuta viva da ripetuti viaggi e dal profondo interesse per la cultura del paese.
Nella sfolgorante galleria, costruita agli inizi del secondo decennio del secolo, con eleganti volte di vetro decorato, ricca di sculture di bronzo e arenaria e dai pavimenti di marmo splendente, era un susseguirsi di lussuosi negozi, bar e ristoranti, affollati da una clientela signorile e raffinata: un'atmosfera di allegria e spensieratezza sembrava pervàdere tutto.
Una leggerezza, probabilmente cercata, che voleva forse superficialmente ignorare e tenere lontane le ombre, non avvertite evidentemente così da tutti, dei preoccupanti eventi che avevano caratterizzato la prima parte dell'anno: il decreto di limitazione della libertà di stampa, l'incendio del Reichstag, il rogo dei libri degli autori messi all'indice dal partito, uno strisciante clima di minaccia verso la chiesa cattolica e i suoi seguaci.
Da uno dei locali risuonavano la musica e le parole, in un italiano corretto ma meno armonioso dove il colore languido della storia aveva ceduto il posto all'aspra inflessione tedesca del cantante, di una famosissima canzone:
"…ma che mi importa se il mondo si burla di me,
meglio nel gorgo profondo
ma sempre con te.
Si, con te.
Parlami d'amore, Mariù!"
«È' una canzone interpretata da quel vostro famoso attore... Vittorio De Sica, l'ho sentita la prima volta a Roma lo scorso anno» disse Heinrich, il fratello di Karl, rompendo in perfetto italiano il silenzio che aveva marcato quei primi passi. Ettore, il cui modesto tedesco, soprattutto scientifico, era stato spesso motivo di frustrazione nelle conversazioni, fu sollevato nel realizzare che anche lui, come il fratello, parlasse l'italiano.
«Si, è molto popolare in Italia, non pensavo fosse arrivata fin qui!» Aveva, con una espressione quasi automatica, accompagnato la risposta inarcando i folti sopraccigli con un leggero stralunamento degli occhi, facendo così intendere di avere altri gusti musicali.
Il volto di Heinrich si era aperto in un ampio sorriso di intesa.
«Ma il professore come mai non è con noi? La gloria nazionale, l'astro nascente della fisica mondiale è forse rimasto impigliato in qualcuna delle sue equazioni impossibili?» Heinrich aveva ripreso a parlare, dopo un breve silenzio, rivolgendosi al fratello Karl con tono simpaticamente canzonatorio che denunciava ironicamente la propria insipienza ma anche deferenza verso le scienze matematiche. Quella che era una constatazione, più che una domanda, rivelava la delusione per l'assenza di Heisenberg e lasciava trasparire una conoscenza diretta delle abitudini del grande fisico, molto poco accademiche per l'epoca, di condividere con i giovani assistenti momenti di svago, sia gastronomico che sportivo, oltre alle impegnative ricerche scientifiche.
Werner Karl Heisenberg, Premio Nobel per la fisica nel 1932, ricevuto per le ricerche fondamentali che avevano segnato lo sviluppo della meccanica quantistica, era ordinario di fisica teorica all'università di Lipsia.
La sua concezione della moderna fisica superava gli argini, a cui erano fermamente ancorati molti scienziati, di un lavoro esclusivamente tecnico-matematico. La ricerca della fisica doveva adoperarsi per comprendere i fondamenti della natura, elevandosi dai soli perfetti e aridi vincoli di metodo, in uno spettro più ampio di pensiero che doveva saldarsi con la ricerca anche filosofica: questo era in sintesi il suo pensiero.
Gli studi di Heisenbeg stavano conducendo la fisica e più in generale la scienza a trasformarsi completamente: la realtà osservata non era più univoca, come si pensava approssimativamente fino a poco prima, ma nascondeva più scenari. Era un pensiero dirompente. La fisica quantistica esplorata da Heisenberg evidenziava, non senza accentuate discussioni con gli altri studiosi, la presenza di un elemento di imprevedibilità nella scienza che faceva crollare la visione cartesiana–newtoniana di una materia fondata saldamente sulla razionalità, la certezza e la prevedibilità. Irrompeva ora potente il concetto di indeterminazione elaborato dallo scienziato: quanto osservato in un momento non era il tutto ma una selezione di una quantità di possibilità che quel presente poteva avere, questo era il punto. Il paradigma univoco causa-effetto veniva stravolto: a determinare un fenomeno ci potevano essere tante concause e, ancora più significativamente, ogni risultato influiva sulle cause che lo avevano generato. L'osservazione, e lo strumento usato per svolgere tale azione, producevano una perturbazione della realtà studiata, modificandone l'oggettività della stessa. Questi concetti mettevano in crisi il modo di pensare degli studiosi di qualsiasi disciplina. Per il grande genio della fisica si doveva fare uno sforzo affinché la conoscenza diventasse multidimensionale: le varie discipline, che per effetto delle specializzazioni vivevano oramai in ambienti separati, dovevano riprendere a comunicare in una dimensione unitaria del sapere. In Heisenberg lo studio della fisica si coniugava alla speculazione epistemologica.
Veniva considerato per questo fermento culturale che lo agitava, benché solo di qualche anno più vecchio, un riferimento per tanti giovani fisici, e non solo, dell'epoca.
Ettore, stimolato da queste idee innovative, che non investivano solo la fisica, subito dopo aver conseguito la libera docenza aveva chiesto ed ottenuto, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, l'assegnazione di una borsa di studio per svolgere studi presso l'istituto di fisica dell'Università di Lipsia. Aveva così raggiunto il suo amico Karl Fehrmann, assistente di Heisenberg, conosciuto a Roma qualche anno prima durante la partecipazione ad un seminario e con il quale si era subito stabilita un'intesa scientifica e culturale.
«Il professore è stato convocato a Berlino per qualche giorno e, con suo grande rincrescimento, ha dovuto rinunciare a questa serata» disse Karl, intanto con un leggero segno della mano indicò a Ettore che erano prossimi al ristorante.
«Ettore, oltre ad essere un valentissimo fisico, è interessato agli studi filosofici ed è anche un entusiasta ammiratore delle opere di Luigi Pirandello, del quale, se non ricordo male, mi hai parlato recentemente. Sono certo che potrai adeguatamente condividere i tuoi ragionamenti anche senza Heisenberg...» aggiunse «... mi ha anche confidato che ultimamente si sta appassionando allo studio delle strategie navali… ma per questo argomento ci vorrebbe nostro padre.» Il suo sguardo flemmatico scivolò dal fratello all'amico che, riluttante a qualsiasi forma di magnificazione, abbozzò un sorriso. Karl era consapevole dell'altissima statura intellettuale di Ettore, delle sue doti di matematico – che avevano del prodigioso – e della profondità e forza del suo pensiero. Era ugualmente conscio dell'eccessiva critica che questi muoveva a sé stesso e della insoddisfazione, troppo spesso ingiustificata, che manifestava per i risultati delle ricerche, tanto che solo con l'intervento carismatico di Heisenberg era riuscito a convincerlo a pubblicare alcuni lavori. Anche fisicamente Ettore esprimeva un'irrequietezza apparentemente scontrosa. Magrissimo e con frugalissime abitudini alimentari, indossava sempre abiti scuri che sembravano di qualche taglia più grande e incupivano ulteriormente la carnagione olivastra ed i capelli nerissimi. Aveva un'andatura schiva che lo portava quasi a rasentare i muri dei corridoi dell'istituto di Fisica. Una ritrosia che improvvisamente si trasformava, quando venivano affrontati e discussi argomenti di grande complessità e che spesso atterrivano gli altri studiosi, in un furore quasi mistico. Allora lo sguardo si infiammava sul viso affilato esprimendo forza ed orgoglio.
Ettore veniva percepito, da chi non lo conoscevano bene, come un carattere insocievole e scorbutico: in realtà aveva, nei confronti delle persone che stimava, come Karl, e con le quali si era innescata una sintonia, un'attenzione ed una sensibilità non comuni.
Avevano percorso quasi interamente il Madler Passage per raggiungere, in prossimità dell'uscita di Grimmaische Strasse dove la galleria si allargava come un proscenio, il protagonista di quella straordinaria fiera: l'Auerbachs Keller. Erano pronti ad immergersi nelle viscere della struttura. Guidati da Karl presero la scala di destra, sovrastata da un gruppo scultoreo in bronzo raffigurante, a grandezza naturale, Faust e Mefistofele; contrapposto c'era, sull'altro lato del passaggio, in corrispondenza di una seconda scala di accesso al ristorante, un altro gruppo scultoreo raffigurante tre studenti: erano la rappresentazione plastica di un momento del Faust di Goethe ambientato nell'antica cantina dove erano diretti.
Il direttore, un signore asciutto di una sessantina di anni con dei pregevolissimi baffi a manubrio, distinto nel suo abito che portava come un generale indossa la propria uniforme, accolse con molta deferenza gli ospiti, conosceva da tempo immemorabile la famiglia Fehrmann, considerata tra le più prestigiose della città. Dopo i convenevoli di rito scortò i clienti fino alla sala più caratteristica del ristorante. L'ambiente, che Ettore vedeva per la prima volta così come l'Auerbachs Keller, nonostante i ripetuti e vani inviti di Karl, ai quali aveva sempre opposto, a malincuore, una resistenza dettata dai problemi di gastrite di cui soffriva, era caratterizzato da un soffitto a volta ribassata dal quale pendeva un enorme lampadario raffigurante Faust a cavallo di una botte. Sulle pareti, rivestite nella parte inferiore, in corrispondenza dei tavoli, da pannelli di legno scuro, si sviluppavano scene pittoriche che tappezzavano anche il soffitto.
Occuparono il tavolo di fronte alla massiccia scala in legno che conduceva nel salone, più contenuto e molto meno rumoroso degli altri locali della cantina; il direttore fece segno a un cameriere di tenersi pronto per le ordinazioni, poi si congedò accennando a un misurato inchino.
Heinrich si offrì subito di illustrare all'ospite i piatti tipici della casa; era nel suo temperamento esuberante, molto diverso da quello più misurato del fratello maggiore, stabilire un rapporto empatico con gli interlocutori. Alla fine del negoziato, così definito in modo scherzoso da Heinrich, Ettore scelse un piatto di leipziger allerlei, di fatto un contorno a base di verdure con gamberetti di fiume e gnocchi di semolino. Karl ordinò un piatto di sauerbraten, un arrosto di carne di manzo marinata, con un contorno di patate intere e verdure. Heinrich optò per il cinghiale arrosto con contorno di cavolo rosso. Ordinarono anche la famosa birra sassone gose accompagnata da un bicchierino di liquore, com'era nella tradizione. Ettore, con grande disappunto dei due fratelli, preferì prendere acqua. Il cameriere registrate le ordinazioni si diresse verso la cucina.
Heinrich aveva accompagnata la descrizione delle portate con qualche accenno all'origine del locale, dopo l'allontanamento del cameriere aveva proseguito.
«Goethe da studente amava molto frequentare l'osteria Auerbachs, partecipando allegramente agli eventi goliardici organizzati dei compagni di studi... è probabilmente maturata così l'idea di ambientare nella cantina un episodio del suo capolavoro ispirato ad un leggenda, risalente agli inizi del XVI secolo, che narra appunto di un certo dottor Johannes Faust che avrebbe cavalcato con l'aiuto del diavolo una delle botti della cantina...» indicò, intanto che parlava, con la mano destra la volta ed il perimetro della sala «... i dipinti che vedi sulle pareti sono l'illustrazione delle scene immaginate e descritte da Goethe.»
Ettore era preso dalla narrazione, il suo spirito caustico lo portò a criticare la scarsa attenzione della scuola italiana per l'opera di Goethe, pressoché ignorata.
Iniziarono a mangiare e Heinrich, colto l'interesse dell'amico italiano, continuò a esprime il suo pensiero.
«Al di là della leggenda e della veste sorprendente che Goethe ha voluto dare al poema... come il fantastico patto che l'uomo può stringe con il diavolo, motivo spesso ricorrente nelle narrazioni tramandate oralmente dal medioevo, ciò che emerge e distingue lo spirito del protagonista e permea l'opera non è la bramosia della ricchezza e del potere, elementi sempre alla base di un accordo di quel genere, ma bensì la necessità sentita di studiare e conoscere sempre più approfonditamente la natura....»
La voce e il volto di Heinrich avevano acquistato, mentre esprimeva con tanta partecipazione le sue riflessioni, un'espressione di sentita emozione che lo portò, dopo una breve pausa, a continuare naturalmente.
«Quest'uomo... Faust, eminente dotto che si è impossessato incessantemente dei vasti campi del sapere, si accorge tragicamente del vuoto accademismo delle scienze… decide allora, dopo aver pensato anche al suicidio, di accettare il patto con il demonio, e i mezzi che questi gli avrebbe offerto, per esplorare con audacia e irrequietezza, sfidando la meschinità delle idee comuni, nuovi mondi alla ricerca dei segreti delle forze all'origine del tutto e forse della creazione stessa.» Stava per avvicinarsi il cameriere, pronto a liberare il tavolo dai piatti vuoti, quando ebbe il tempo di completare le sue riflessioni.
«Potremmo dire che Faust è l'archétipo dell'uomo nella ricerca irreversibile dell'ignoto e delle profondità dell'animo... un uomo in viaggio per trovare dunque le bellezze del mondo che forse comprenderà solo attraverso l'azione, la sua vera forza, e una tormentata ragione...» I lineamenti eleganti sembrava riacquistassero, dopo un autentico quanto vivo fervore, una garbata quiete.
Il cameriere, anche se compitamente, irruppe nella conversazione chiedendo se i signori volevano ordinare altro o passare ai dolci.
«Ettore vorresti provare una porzione di Quarkkeulchen? Sono delle deliziose frittelle tipiche della Sassonia» propose Karl con tono premuroso, intanto che il cameriere recuperava i piatti.
«Sono certo siano gustosissime... ma sai Karl i miei problemi di stomaco... se non vi offendete preferirei evitare» l'accento mortificato nella voce di Ettore esprimeva chiaramente il timore di apparire scortese verso i suoi ospiti.
«È una serata così interessante...» aggiunse, quasi a voler rimediare al rifiuto.
«Non ti preoccupare, ci penserà Heinrich a recuperare per te» lo tranquillizzò Karl, denunciando scherzosamente la golosità e predilezione del fratello per il dolce.
«Allora, per mio fratello Quarkkeulchen e per me Leipziger Lerchen, grazie.»
Quando il cameriere si fu allontanato, Karl riprese a parlare.
«Devi sapere che nostra madre ha sempre preparato quantità industriali di frittelle, per noi e per i nostri cugini... soprattutto quando da bambini tutti insieme trascorrevamo la villeggiatura nella casa di campagna dei nonni. Heinrich era il campione delle scorpacciate, ci batteva tutti... ma una volta esagerò veramente, credo ne avesse mangiate almeno una ventina... tanto che mamma…» guardò per un attimo ironicamente il fratello «… fu costretta a chiamare precipitosamente un cugino medico...» le parole uscivano accompagnate da un sorriso «... ora ammiriamo l'erudito assistente di archeologia e il ricercatore di Storia del Cristianesimo antico, allievo prediletto del rettore Hans Achelis, uno dei più grandi studiosi delle catacombe cristiane di Napoli, ma in passato... è stato una furia scatenata… probabilmente come il Faust che ama tanto…» divertito rise sonoramente, lasciando intendere, con un gesto della mano, che avrebbe potuto dire tanto altro.
«Grazie per la tua superba arringa… peccato che non hai indossato la toga ed il tocco universitario… saresti stato perfetto... hai comunque la mia adesione tòto còrde» scoppiarono entrambi, dopo la replica di Heinrich, in una fragorosa risata che coinvolse anche l’ospite italiano.
Il cameriere stava depositando delicatamente i piatti con i dessert, quando Ettore intervenne.
«Heinrich la tua appassionata descrizione dell'uomo Faust è molto suggestiva... lascia intendere perfettamente il tormento che accompagna lo sforzo della ricerca… coinvolgendo tutti noi… anche quei cattivi maestri che, più o meno consapevolmente, non sono più capaci di cogliere l'essenza delle questioni… e non si accorgono, o non vogliono