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Iceland
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E-book226 pagine3 ore

Iceland

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Info su questo ebook

Nord-ovest dell’Islanda. Nella tranquilla località di Arnarstapi si è appena consumato un inquietante delitto; la soluzione del caso viene affidata a un detective inglese ingaggiato dalla polizia locale.
Parallelamente alle indagini, prendono corpo le vicende personali di due amici: il primo è un italiano, trasferitosi sull’isola alla ricerca di un riscatto, mentre il secondo è un giovane islandese che scopre che l’omicidio potrebbe avere un legame col suo passato.
Ma la protagonista della storia è Iceland, la terra di ghiaccio, con la sua immobilità silenziosa e le sue forze oscure che, nel corso del romanzo, finiscono per prevalere sulla volontà delle persone.

Samuele Alinovi è nato nel 1975 a Parma, ma vive da sempre a Bergamo. È diplomato in Pianoforte e laureato in Lettere. 
È insegnante e pianista.
Nel 2015 ha esordito con Mal di Po, un giallo-noir ambientato a Comacchio. Nel 2017 è stata la volta di Valle Promessa, un crudo scavo nei segreti delle valli ferraresi. 
Nel 2018 i due romanzi sono diventati Mal di Valle, uno spettacolo teatrale di cui ha curato sceneggiatura e regia.
LinguaItaliano
EditoreNulla Die
Data di uscita19 mar 2020
ISBN9788869152726
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    Anteprima del libro

    Iceland - Samuele Alinovi

    Lynch

    I

    Il grande scudo bianco si faceva via via più vicino e alto, man mano che la jeep scura procedeva sul rettilineo verso ovest, lungo la penisola. Era la prima volta che Rafael si spingeva così a nord, così lontano dal mondo e dalla gente: l’erba verde e bassa ovunque, a destra colline rocciose e, ogni tanto, qualche casa di legno chiaro, persa fra i tralicci dell’elettricità.

    Superarono a sinistra una stradina sterrata e grigia; quindi spuntò un ruscello basso e blu dalla parte di Rafael, che aveva abbassato un po’ il finestrino.

    «Fa un certo effetto vederselo spuntare all’improvviso a destra, così, col suo cappello bianco, vero?» fece Natan, parlando in inglese.

    «Come? Ah sì certo, il vulcano...»

    «Adesso il cielo è tutto grigio ma, superati questi cumuli di cenere, lo vedrai ancora meglio».

    Passarono un cartello giallo sulla destra, con la scritta Snaefellsjokull: una stradina scura in salita girava intorno a una collina che sembrava fatta di sabbia bruciata.

    Natan girò leggermente il volante, per assecondare la curva.

    «Tu che non sei di qui, lo sai che cosa è successo su quel ghiacciaio qualche anno fa... beh diciamo... sì, otto, forse nove anni fa? All’epoca lavoravo su a Husavik, al porto. Aiutavo a scaricare il pesce, in mezzo ai turisti e ai moschini».

    «Nove anni fa, dici? No, non saprei, perché?»

    Si cominciarono a vedere delle case basse a sinistra, sembravano delle aziende agricole, proprio come quella in cui Natan diceva che avrebbero trovato subito lavoro tutti e due: c’erano dei suoi amici che li aspettavano e che li avrebbero aiutati.

    «C’è stato un ritrovamento, una cosa da non credere... qualcosa che risaliva ad almeno mille anni fa. Ci pensi? Qualcosa che rimane sepolto per dieci secoli sotto la coltre di ghiaccio e poi, casualmente, qualcuno lo ritrova. Colpa anche della temperatura, che negli ultimi anni riduce sempre di più il ghiaccio...»

    «Ma dove, qui a mille metri di altitudine?» lo interruppe Rafael, incuriosito.

    «Veramente sono 1450 metri...»

    «E insomma, che cosa hanno trovato, un animale?»

    «No no, molto peggio, un uomo! Una persona, un essere umano insomma, mummificato...»

    Dalla strada, adesso, la cima bianca si cominciava a vedere nitidamente, fra le nuvole spesse.

    «Ma dai, tu mi stai prendendo in giro!»

    «Assolutamente no, mai stato così serio! Mi sembra strano che tu non ne abbia sentito parlare in nessun modo, giù dalle tue parti...» rispose più piano Natan, sistemandosi gli occhiali da sole sul naso.

    «E come è successo che un uomo sia rimasto intrappolato per mille anni lassù? Ha per caso perso la strada?» chiese Rafael, accennando un sorriso.

    «Decimo secolo dopo Cristo: in quegli anni qui da noi ci sono solo i monaci eremiti irlandesi; ce ne sono più a sud, vicino a Reykjavik, ma anche qui nello Snaefellsnes, fino alla cima del vulcano».

    «E quindi, a chi appartiene la mummia, a un monaco?»

    Incontrarono un cartello giallo, sulla sinistra, che portava la scritta Arnarstapi. Natan rallentò, sterzò e prese per una strada pulita e asfaltata, passando accanto a una casa rossa bassa.

    «No no, ma quale monaco? La mummia era di un norvegese, un colono, un navigatore: lo hanno capito dall’abbigliamento. Era arrivato qui a Iceland da poco tempo e, non si sa per quale motivo, è stato aggredito da qualcuno che l’ha colpito alla testa con una pietra e l’ha fatto secco sul colpo: aveva il cranio fracassato. Poi c’è stata probabilmente una valanga che l’ha ricoperto e l’ha lasciato così, nascosto per mille anni... Forte, no? L’hanno ritrovato lungo la parete nord-ovest, quella piena di crepacci, quella dove uno va per fare cose estreme, oppure per fuggire da qualcuno».

    Rafael girò ancora le spalle per cercare la montagna bianca, ma stavolta le nubi se l’erano tutta inghiottita.

    «Quindi chi l’ha ucciso questo norvegese, un monaco assassino forse?»

    «E che ne so? O un monaco incazzato per qualche motivo, oppure un suo compagno di viaggio, che ha aspettato di arrivare sull’isola per vendicarsi di qualcosa» concluse Natan, rallentando e prendendo per una stradina stretta a destra. «Guarda, siamo quasi arrivati: è quel complesso di case bianche e gialle là in fondo, vedi?» disse piano, abbassando anche lui un po’ il finestrino.

    Rafael piegò il collo e guardò in direzione della spianata verde, attorno a cui si distribuivano quegli edifici di legno, con le finestre piccole e quadrate.

    «Però c’è da dire una cosa, a discolpa di questo povero norvegese assassinato...»

    «E cioè?»

    «Dalle analisi fatte sul corpo è stato stabilito che lo scandinavo aveva qualcosa al ginocchio destro: o una malformazione, oppure si era infortunato durante il viaggio in nave o durante la fuga dal suo assalitore. E questo gli ha impedito di fuggire più veloce e di salvarsi. E poi sembra addirittura che, appena arrivato sull’isola, abbia mangiato qualcosa che gli ha provocato un’intolleranza o un’allergia: forse un frutto o un’erba. Fatto sta che era anche indisposto, aveva lo stomaco in subbuglio: povero il nostro colono, le aveva proprio tutte addosso quel giorno! Era proprio il suo giorno no

    Natan rise, fermando la jeep e spegnendo il motore. Rafael tirò su il finestrino e scese. Guardò verso l’alto, verso il cielo grigio e coperto, poi ancora in direzione del ghiacciaio, che era sempre invisibile. Si passò le mani in mezzo alla barba folta e nera, mentre l’amico con una mano gli faceva segno di seguirlo.

    «Allora, che cosa ti sembra, Rafael? Ti piace la sistemazione qui?» chiese Natan, prendendosi dell’acqua fresca dal rubinetto.

    «La sensazione è buona, anche se la maggior parte delle cose che vi siete detti io l’ho capita solo dai vostri gesti...» rispose l’altro, sorridendo e appoggiandosi alla parete.

    «Ah sì, certo, hai ragione: abbiamo parlato solo nella nostra lingua. D’altronde Alvar e Gloa, come tutte le persone anziane che vivono in campagna, parlano solo la lingua dell’isola. Ti ci dovrai un po’ abituare qui... Così magari è la volta che impari a parlare come la gente di Iceland» disse, sorseggiando l’acqua.

    «Le lingue mi piacciono, mi sono sempre piaciute, non è un problema. Lo sai che, ascoltandovi, a tratti mi sembrava di trovare delle somiglianze fra la vostra e la lingua della mia famiglia? Sarà il ritmo, forse alcuni suoni, non so...»

    «Comunque, in sintesi, le nostre mansioni qui in fattoria sono quelle di aiutare i due vecchi a mungere le mucche. Qualche volta ci chiederanno anche di far uscire le pecore fuori, nel recinto, e qualche altra volta di portarle anche fino a là in fondo, per qualche ora» proseguì Natan, aprendo la finestrella di fronte a sé e indicando la pianura bassa, che si allungava in direzione dello Snaefell.

    «Ah, va bene, un po’ come mi avevi anticipato in questi giorni...»

    «E il tutto è ben pagato: 2000 corone al mese, con vitto e alloggio compresi. Mica male, no?»

    «No, non male davvero» rispose Rafael. «Quasi meglio di come eravamo sistemati giù a Reykjavik, quando piantavamo alberi. E poi qui siamo davvero lontano da tutto, c’è natura a ogni angolo. È quello che cercavo, in fondo».

    «Cosa ti dicevo, che questi miei due amici ci avrebbero accolto subito e anche bene? E poi qui ad Arnarstapi ci sono tante cose carine, vedrai: parecchi locali, un bel porticciolo, una bella costa rocciosa... il tutto molto tranquillo, come volevi tu. A proposito: più tardi, se ti va, ci andiamo a mangiare qualcosa giù in paese... dico ad Alvar che non stiamo qui per cena, ok?»

    «Sì, per me va bene. Ho voglia di guardarmi un po’ in giro».

    «Dimenticavo: ti piace quella stanza lì, accanto al bagno? Io mi prendo quella dietro la cucina. Se per te non c’è problema...» domandò Natan, passandosi una mano fra i riccioli biondi.

    «Direi che è perfetto. Sistemo due cose e poi, per me, si può anche andare».

    «Ok. Ci vediamo fuori fra dieci minuti!» concluse, prendendo con la mano destra il suo borsone da terra e avviandosi verso la sua camera.

    Rafael guardò ancora una volta fuori dalla finestrella che l’amico aveva lasciato aperta: il cielo era diventato ancora più grigio, sembrava volesse soffocare tutto, imporsi su ogni cosa. Un vento fresco accarezzò appena l’erba bassa.

    Girò gli occhi e vide Gloa che passeggiava nel cortile, tenendo degli attrezzi fra le mani.

    §

    Gynt si spostò il ciuffo di capelli neri che aveva davanti agli occhi e che gli impediva di vedere bene la persona che aveva di fronte.

    «Allora, mi dica Commissario. Sono curioso di sapere perché mi ha chiamato, proprio curioso» disse, infilandosi una mano nella tasca della giacca e estraendo un pacchetto di sigari corti.

    Freeman diede uno sguardo rapido alla scatola e fece una smorfia di disappunto.

    «Ecco, ci è stata appena fatta una richiesta un po’ strana, insolita. E io ho pensato a lei, Detective, perché qui fra i colleghi è l’unico che diciamo... è disponibile a spostarsi, è disponibile alle trasferte ecco».

    «Ah davvero? Non sapevo di avere questa particolare prerogativa» rispose Gynt, sorridendo e guardando il pavimento. «Una trasferta ha detto? E dove?»

    «Ci è stato chiesto di inviare un buon elemento in aiuto, in quanto hanno a che fare con un omicidio molto complicato e non sanno da dove cominciare».

    «Le ho chiesto dove, Commissario» insisté Gynt, guardandolo negli occhi.

    «A Iceland».

    Il Detective diede un paio di colpi di tosse, si riavviò di nuovo i capelli e cominciò ad aprire e chiudere la scatola dei sigari.

    «Cioè, mi faccia capire... vuole dirmi che a Iceland non hanno una Polizia in grado di risolversi da sola un caso di omicidio? Ma dove vivono, fra gli spiriti e i folletti?»

    «Senta Gynt» rispose Freeman, mettendosi dritto sulla sedia. «Se da Iceland hanno chiesto a noi della Polizia di Reading un aiuto, vuol dire che il problema è serio».

    «Quanto serio?» domandò l’altro.

    «Un ragazzo ucciso, ritrovato dopo due settimane fra i ghiacci».

    «Età?» incalzò Gynt.

    «Età... 17!»

    «Cazzo!» disse forte, prendendo un Montecristo dalla scatola.

    «Le ho detto diverse volte che non voglio sigari nel mio commissariato!» alzò la voce Freeman.

    «Senta Commissario, lei ha bisogno di me, quindi... Apro la finestra e sto qui accanto! Va bene?»

    L’uomo fece un’altra smorfia alzandosi dalla sedia, mentre la foglia del sigaro diventava rossa.

    «Causa della morte?» riprese Gynt.

    «Non lo sappiamo di preciso, non mi hanno mandato un vero e proprio rapporto. Devono ancora fare l’autopsia, ma si parla di contusioni sul corpo e trauma cranico. Insomma, quando arriverà a Reykjavik vedrà e leggerà tutto sul posto... Sempre che accetti l’incarico. Che mi dice, Detective?»

    «Continuo sempre a non capire una cosa» riprese, dopo aver buttato del fumo grigio fuori dalla finestra. «Perché proprio noi di Reading e non qualche altra Polizia scandinava?»

    «Ma lo sa come sono fatti questi nordici!» rispose il Commissario. «Fra di loro non collaborano, hanno antiche ruggini per vecchie questioni legate alla colonizzazione, alle invasioni e via dicendo... E poi c’è la questione della lingua: lo sa che a Iceland l’Inglese è la seconda lingua, anzi la prima per i turisti. E poi vuole mettere la nostra tradizione investigativa? Insomma...» cercò di concludere Freeman, appoggiando le mani alla scrivania «accetta o no di partire?»

    «Un attimo... lei prima mi ha parlato di ghiacci e di Reykjavik. Ma nella capitale non ci sono ghiacciai. Qual è lo scherzo? Non mi dica che mi manda in qualche zona artica sperduta?» riprese Gynt, aspirando.

    «No, si tratta della penisola di... Snaefellsnes, vicino al ghiacciaio di... Snaefellsjokull, fra le cittadine di Hellnar e Arnarstapi» rispose il Commissario, sforzandosi di leggere correttamente i nomi da un foglio sulla scrivania. «L’aereo atterrerà vicino alla capitale, a Keflavik. Collaborerà con la Polizia locale, ma poi le indagini le porterà avanti autonomamente nella zona del vulcano».

    «Ah perché, c’è anche un vulcano adesso in quella penisola?»

    «Ma certo, il famoso Snaefell. Ma tranquillo: non erutta da almeno milleottocento anni».

    «Ok, va bene. Accetto. Quando devo partire per la terra dei ghiacci?» disse, buttando due centimetri di sigaro dalla finestra.

    «Le faccio prenotare un aereo per domani pomeriggio» concluse, tornando a sedersi e prendendo in mano la cornetta del telefono.

    §

    Terri uscì dalla doccia, portando una gamba fuori dalla cabina; afferrò l’asciugamani grande e se lo appoggiò sulle spalle: non aveva freddo. Si sfregò il tessuto morbido sulla pelle per non sgocciolare per terra. Quindi andò verso il salotto a piedi nudi.

    Si sdraiò sul divano, col telo di spugna avvolto attorno al corpo. Le piaceva tornare a casa, quando aveva un’ora libera, e rilassarsi così. Aveva anche messo un po’ di musica, a volume basso: un gruppo musicale dell’isola che le piaceva e che conosceva da un paio d’anni.

    Si accarezzò il braccio sinistro con la mano, lentamente. Poi allentò appena l’asciugamano e si scoprì il seno; cominciò a passare la mano anche su di esso, fino a farsi arrivare un brivido. Quindi, all’improvviso, le arrivò un pensiero, veloce e inaspettato, che non riuscì a comprendere e che le diede una brutta sensazione. Si coprì di fretta il seno, come se d’un tratto si sentisse a disagio.

    Piegò la testa all’indietro e incontrò il guanciale morbido del divano. Chiuse appena gli occhi e sentì improvvisa la stanchezza. Pensò subito che non poteva addormentarsi. Poi, quasi senza volere, nella sua testa cominciarono a girare delle immagini: i visi delle persone che aveva visto durante la giornata all’hotel.

    Era una specie di gioco che faceva sempre: ogni persona nuova che vedeva, cercava di associarla a un’altra che già conosceva. E ci riusciva quasi sempre. Le dava un senso come di tranquillità, di sicurezza.

    La musica finì, ma cominciò subito un’altra canzone, con un coro di voci leggere, che diventava sempre più forte. Erano i Sigur Ros.

    Ebbe un altro brivido e si accorse che si stava sempre più perdendo coi pensieri. Perciò aprì di colpo gli occhi e si tirò su, seduta sul divano. Guardò la sveglia rotonda appoggiata sulla mensola: era tardi, era già ora di tornare giù in paese.

    Si sciolse il nodo ai capelli, che le scesero leggeri sulle spalle. Si alzò in piedi e lasciò cadere sul divano l’asciugamani. Allungò una mano, prese dei semi di girasole da una ciotola sul tavolo e li portò alla bocca. Quindi si riavviò i capelli, passandosi le dita in mezzo ai riccioli neri e si diresse nuda verso la camera da letto.

    La musica andò avanti ancora per qualche minuto. Terri la spense alla fine, appena prima di chiudere dietro di sé la porta di casa.

    II

    La cameriera appoggiò la tazza del cappuccino sul suo tavolino. La donna la avvicinò a sé e ringraziò la ragazza con lo sguardo. Quindi girò gli occhi in direzione della vetrata, che dava sulla strada principale di Arnarstapi; una jeep scura aveva rallentato e stava parcheggiando proprio davanti al locale.

    Prese il cucchiaino con la mano destra e lo immerse nella panna bianca che stava sulla superficie della tazza. Cominciò a mangiarla tutta, con movimenti lenti della mano, un boccone per volta, pulendo i bordi bianchi. Finché la panna non fu finita; allora cominciò a liberare la superficie del cappuccino dai residui di latte che rimanevano; fino a quando, della bevanda bollente, non rimase che un cerchio di color marrone chiaro.

    La porta del locale si chiuse facendo rumore. Attraverso gli occhiali da sole grossi vide una coppia di uomini spostare un paio di sedie bianche e sedersi a uno dei tavolini di legno. Abbandonò il cucchiaio sul piatto.

    «Lo sai che non sono riuscito a vedere l’insegna del bar? Com’è che si chiama?» fece Rafael, guardando nella direzione dell’amico.

    «È un bar ristorante. Si chiama Snofells».

    La cameriera di prima incrociò lo sguardo di Natan, che le fece un mezzo sorriso. Erano passate le sette di sera, ma fuori c’era ancora luce che sembrava pieno giorno.

    C’erano altre due coppie sedute ai tavoli del locale. Parlavano entrambe la lingua dell'isola e in modo piuttosto veloce.

    «Sbaglio o qui fanno

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