La traversata difficile
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Anteprima del libro
La traversata difficile - Roberto Cavalieri
Note
MANI
L’aveva lasciata andare avanti una decina di metri e le aveva fatto una foto così: di spalle, che passeggia sul fiordo ghiacciato, con la giacca a vento vermiglia incastonata tra neve e cielo. Dopo aver ricaricato l’immagine sul piccolo display a cristalli liquidi, vide che la linea d’orizzonte era venuta un po’ storta e ne avrebbe fatta subito un’altra, tenendo le braccia il più possibile ferme e vicine al corpo, se non fosse che Lyne aveva smesso di camminare, all’improvviso, e s’era girata guardandolo come una bimba che non ha più voglia di giocare. Allora le sorrise e, anziché fotografarla ancora, accelerò il passo sulla neve farinosa. Non voleva avere una foto di lei con quell’espressione così seria di tre quarti.
Era passato da poco mezzogiorno e venti minuti prima si erano infilati nel cancello lasciato aperto vicino alla discesa usata per il rimessaggio delle barche. Soffiava un vento non troppo forte da terra, poco più di una brezza gelida da nord-ovest, e il sole, piantato a una spanna sopra l’orizzonte verso sud, bruciava tutti i colori in quella direzione: ultravioletto il cielo, neri gli alberi, il ghiaccio grigio e opaco come alluminio graffiato.
Nonostante tutto quello che ci sarebbe stato da dire, specialmente in un posto come quello, che li accoglieva così, senza pretendere nulla, camminarono per la maggior parte del tempo in silenzio, ascoltando la neve gemere e scolpire piccoli disegni geometrici sotto i loro scarponcini in Gore-Tex. Lui di tanto in tanto si fermava per fare una foto, e lei aspettava che finisse di scattare, immobile alla sua sinistra o pochi passi più avanti, aprendo lo sguardo verso qualche isolotto lontano emerso dal ghiaccio. Con le dita intirizzite dal freddo, tener ferma la macchina richiedeva impegno e concentrazione, e questo toglieva un bel po’ di spontaneità all’inquadratura. In un momento in cui erano affiancati, girò l’obiettivo verso di lei, e Lyne aggrottò le sopracciglia stringendo le labbra in una smorfia sottile. Gli occhi color acquamarina brillarono come se fossero illuminati dal di dentro.
Arrivati al punto in cui la traccia sulla neve si biforcava, lei chiese in inglese:
-Ti spiace se torniamo indietro?
-Va bene. Posso farti una foto qui?
-Ok. Però poi basta foto.
Lui non capì se intendeva a lei o in generale, ma appoggiò un ginocchio sul ghiaccio e le incorniciò il busto e il viso contro la volta turchese. La spessa giacca a vento sciancrata con le impunture a spina di pesce lasciava intuire le curve dei seni e dei fianchi, e gli venne voglia di baciarla lì, in mezzo al mare ghiacciato, dove le tracce degli sci si perdevano in rivoli curvilinei e solitari. Rinunciò controvoglia, dato che probabilmente si sarebbe solo lasciata baciare. Era il suo modo di fargli capire che in pubblico preferiva di no, anche se non lo avrebbe ammesso mai. E benché fosse difficile definire quel posto in pubblico, lasciò perdere.
Adesso che procedevano controvento, ogni passo diventava ancora più pesante. Contropelo. Ruvido. A lui venne in mente una spiaggia caraibica su cui, tanti anni prima, si era ritrovato a camminare da solo, al tramonto, col corallo tiepido che gli inghiottiva i calcagni fino al malleolo. Anche allora, come qui, tirava un leggero vento da terra e ad ogni passo, il piede doveva risalire e scendere e riprendere grip, come un carro armato tra le dune.
Dopo i primi metri in quella direzione, lui quasi si sorprese vedendo che non erano mai stati soli. A parte gli sciatori e i bimbi sullo slittino trainati da papà, la maggior parte delle altre persone era lì solo per fare due passi, come loro. Ma c’erano anche i vecchi con la barba giallastra seduti a pescare vicino ai loro buchi scavati nel ghiaccio, e cani a pelo lungo che descrivevano grandi otto
intorno ai loro padroni in jeans e occhiali da sole. Qualche centinaio di metri più a est, le vele di due kite-ski incrociavano nel cielo come mani di un prestigiatore.
Avrebbe voluto prenderle la mano, fare qualche passo con le dita tra le sue, ma Lyne indossava i guanti imbottiti e accentuava molto il movimento delle braccia avanti e indietro. Per un po’ attese, cercando di inserirsi in quel pendolamento marziale, ma guardandosi attorno vide che nessuno si prendeva per mano in quel posto, nemmeno le coppie, i padri con i figli, o i fratelli grandi con quelli piccoli, che quando succede è una stretta al cuore anche per l’umanoide più insensibile. Quindi, dopo aver aspettato invano che lei intuisse e lo prendesse con sé, infilò di nuovo le mani nelle tasche dei jeans liberandosi la gola con due piccoli colpi di tosse. I suoni e le voci che arrivavano dilatati anche da parecchi metri lontano, non erano molto diversi da quelli di una tranquilla domenica mattina al parco, in Italia.
Quando furono vicini a una grande costruzione in cemento e acciaio e vetrate, lui andò su per primo e le tese la mano nuda per aiutarla a salire. I gradini della scaletta finivano da una parte nel ghiaccio mezzo fuso e dall’altra accedevano alla parte della banchina nascosta al sole. Passarono vicino alle chiglie rovesciate di alcuni laser coperti di neve, impilati tra la casa e il pendio basaltico del piccolo isolotto basso. L’edificio sembrava chiuso e deserto, eppure lui aveva notato, mentre si avvicinavano, che all’ultimo piano c’erano dei tavoli apparecchiati con tanto di tovaglioli bianchi arrotolati a forma di cono dentro i piatti. Lyne seguì quell’uomo dai modi gentili e dallo sguardo profondo mentre girava tutt’attorno alla casa stando attento a non scivolare. Sbatterono i piedi quasi all’unisono per liberarli dalla neve, e lei per gioco cercò di sovrapporre il rumore dei suoi passi a quelli di lui. Quando se ne accorse, si girò e le sorrise. La porta d’ingresso, con un grosso tubo verticale in acciaio a fare da maniglione, era chiusa, ma lui cercò ugualmente di sbirciare all’interno con le mani strette attorno alla faccia. Tutto quello che vide fu il semicerchio scuro di un lungo bancone da bar e i contorni irregolari di alcuni tavoli accatastati in un angolo della sala. Quando si voltò di nuovo verso di lei alzando le spalle e inarcando le sopracciglia, Lyne sorrise e gli si fece vicina, tirandolo a sé per un braccio. Per la prima volta da quando erano usciti di casa quella mattina, il suo viso sembrò rilassarsi, gli occhi trasparenti fondersi in due oasi di zaffiro a mollo nel deserto. Si sporse in avanti per baciarla ma, prima che le loro labbra potessero toccarsi, una scossa elettrica li fece sobbalzare, e poi ridere, e poi riprendere fiato e poi finalmente lui poté prendere la bocca di lei nella sua, con tutto il desiderio che aveva accumulato da quando poche ore prima l’aveva vista uscire dalla doccia coi capelli bagnati.
-Non ti preoccupare, disse lei, c’è una piccola caffetteria di là dal ponte, al Circolo Nautico.
Percorsero l’ultimo pezzo di strada dietro una giovane coppia con una carrozzina imbottita di tela scura. Il ragazzo, alto e atletico, indossava un maglione di lana grossa a collo alto sotto un giaccone di panno blu aperto sul davanti. La sua compagna guardava i suoi pettorali gonfiarsi mentre spingeva la carrozzina sulla neve fresca, e di tanto in tanto gli diceva qualcosa ruotando gomiti e spalle con le mani infilate nei jeans. Parlavano lentamente, perdendo spesso lo sguardo verso il sole e la terraferma. Quasi non ci fossero dubbi sul fatto che avevano tutto il tempo del mondo.
Da quando avevano lasciato il ristorante chiuso, Lyne non gli aveva più mollato il braccio, e una volta giunti sul piccolo ponte di