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Il Maestro e il Campione: Una storia di boxe
Il Maestro e il Campione: Una storia di boxe
Il Maestro e il Campione: Una storia di boxe
E-book400 pagine4 ore

Il Maestro e il Campione: Una storia di boxe

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Info su questo ebook

Il nuovo romanzo dell’autrice di “La forza della natura” e “Vivere come se si fosse eterni”. Una grande storia del pugilato italiano: quella di Ciro Converti e Vincenzo Imparato
Davanti al muro di un abbaino, completamente circondato dall’orizzonte del mare, un giovane uomo tirava pugni. Colpiva così velocemente che le braccia sembravano le ali di una libellula. Era così leggero che l’ombra pareva sfuggirgli ogni volta. Era così preciso che ogni volta arrivava dritto
a colpirla. Faceva il vuoto. Così si chiama quel tipo di allenamento che un pugile esegue da solo.
Destro, sinistro, destro, sinistro, sinistro, sinistro, destro...
Rimase lì a guardarlo, a seguire i colpi e i movimenti del tronco e delle gambe finché gli uccelli del mare capitanati dai grandi gabbiani reali cominciarono il carosello serale di ampi voli, il cielo si riempì delle loro grida e l’ombra sul muro si allungò, fluttuò come una fiamma sul cielo rosso
e infine scomparve, rapita dall’ultimo sole.
LinguaItaliano
EditoreBlonk
Data di uscita30 mar 2020
ISBN9788835392927
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    Anteprima del libro

    Il Maestro e il Campione - Luisa Mandrino

    Mandrino

    IL MAESTRO E IL CAMPIONE

    Ciro Converti e Vincenzo Imparato

    Una storia di boxe

    A Francesco e Isabella

    mio padre e mia madre,

    i miei primi maestri

    Se vi piace fare a botte non leggete questo libro. Parla di due uomini che sono saliti sul ring per migliorare se stessi, non per picchiare qualcuno.

    È una storia che sarebbe piaciuta a mio padre, a cui devo la passione per la boxe fin da quando ero bambino.

    Prima di raccontarvela torno con la memoria a una sera di mezzo secolo fa. Era il 21 settembre del 1955 a New York e Rocky Marciano combatteva contro Archie Moore allo Yankee Stadium, nel Bronx, gremito all’inverosimile. A quell’epoca la platea era divisa tra bianchi e neri. Io tifavo per Marciano.

    «Rocky! Rocky! Rocky!»

    Lo stadio tremava fin nelle fondamenta. I due pugili si batterono senza risparmiarsi. Al nono round Rocky vinse il match per KO e si ritirò imbattuto. Grazie a un amico che lo conosceva, quella sera ebbi la fortuna di sedere a cena con Marciano e, anche se ero poco più di un ragazzino capii cosa significa essere un campione.

    Non lo dimenticai mai più.

    Dopo qualche anno tornai a New York perché volevo fare l’attore. Oggi il mio volto è conosciuto in tutto il mondo grazie a un personaggio che ho creato e interpretato per il cinema: un pugile di origini italiane, come lo sono io.

    Un personaggio che è diventato quasi più reale di me e mi ha dato onori e ricchezza. Evoco i suoi capelli folti e scuri e i suoi muscoli d’acciaio, anche se sono ormai un vecchio. E rispondo al nome d’arte che mi ha ispirato quando lo plasmavo nel segno del coraggio: Joe Leone.

    Ma se la fama e il denaro sono effimeri e il tempo passa inesorabilmente sul quadrante del mio orologio, l’insegnamento del pugilato mi ha accompagnato per tutta la vita. Chi ha indossato anche solo una volta un paio di guantoni potrà capirmi quando dico che se ci metti il cuore, la boxe non ti deluderà mai.

    Ed ecco come ho avuto in regalo questa storia, che mi ha colpito così tanto da decidere di farne un film.

    Era la sera del 24 gennaio e stavo festeggiando il mio settantacinquesimo compleanno nell’elegante salone del ristorante che si trova sul roof del Metropolitan Museum of Art di New York, sulla Fifth Avenue, a Manhattan.

    Ho sempre amato questo posto: le ampie vetrate aperte sul cielo ti danno l’idea di veleggiare solitario tra gli abissi dei grattacieli e il verde profondo di Central Park, e New York appare come un mare ignoto e misterioso. Ma nello stesso tempo, quando mi trovo quassù ho la sensazione di essere in buona compagnia se penso che ai piani inferiori, nel museo, sono raccolte le opere d’arte che hanno fatto di noi uomini la razza cocciuta che vive e muore nell’illusione dell’eternità.

    Shakespeare ha scritto: We are such stuff as dreams are made on and our little life is rounded with a sleep.

    Una grande verità. Ma anche un paradosso, che continuo a ripetere ogni sera sul palcoscenico proprio perché la nostra vita non svanisca in un’alba qualsiasi, senza lasciar traccia.

    La mia festa di compleanno stava volgendo al termine. Le signore sembravano un po’ stanche, seppur bellissime; erano le stelle di Hollywood che negli anni avevano, perdonatemi il termine, fatto a pugni per recitare accanto a me. C’erano i registi giovani e quelli di lunga esperienza, gli scrittori e i direttori della fotografia; i costumisti, che tra tutti ho amato maggiormente perché hanno non solo tollerato, ma esaltato la mia vanità; i produttori che muovevano i fili della commedia come se non riuscissero a distogliersi dalla loro parte e continuassero a recitarla all’infinito. Mi chiesi se avessi lasciato abbastanza spazio, intorno a me, da non dar fastidio a nessuno di loro. Al di là dei sorrisi, della cortesia e delle strette di mano avrei voluto sapere chi fossero davvero i miei ospiti.

    Intanto era arrivata la torta, un incantevole dolce di panna e meringhe. La sala sembrò rianimarsi al suo ingresso e i miei pensieri si concretizzarono. Si apriva il vecchio sipario del discorso, degli applausi e delle battute di rito, mentre io pensavo: Chi siete? Siete davvero felici di essere qui?

    D’un tratto una pesante nuvola bianca si schiantò alle finestre. Mi voltai. Le querce, gli aceri, i faggi e gli olmi secolari scuotevano disperatamente le cime nella bufera, come grandi alberi maestri dalle vele squarciate: una tempesta di neve si stava scatenando su Central Park. In anticipo sulle previsioni, arrivava come una furia. Gli alberi fremevano in un’apocalisse di onde bianche e ghiacciate. Li immaginavo urlare mentre si abbracciavano, intrecciando i rami gli uni con gli altri, per tenersi ancorati alla terra. Ma anche dentro al salone si era scatenato il caos. I miei ospiti sembravano impazziti. Correvano da tutte le parti, telefonavano, inciampavano. Si congedarono in un fuggi fuggi generale. In un batter d’occhio la sala si svuotò e rimasi solo con la mia torta di compleanno.

    Non avevo voglia di tornare a casa.

    Mi affacciai a una vetrata per guardare oltre il cristallo. L’ombra nera del mio smoking scomparve riflettendo il chiarore del parco. Il mio viso affondò nel vetro e sparì, risucchiato dalla forza della natura. Lo spettacolo, nel turbinio del vento, con il parco deserto che andava imbiancandosi e le mille luci della città sfocate e tremanti era così affascinante, pericoloso e ispiratore, che decisi di restare: come un vecchio capitano che non abbandona la sua nave.

    La cambusa era piena e non avevo niente da temere.

    Mi girai istintivamente verso il bar e notai che non ero solo. Dietro al bancone un uomo riordinava con tutta calma le tazzine del caffè; aveva congedato i suoi camerieri ed era rimasto a bordo, come me.

    Poteva avere quarant’anni. Manteneva un particolare portamento atletico. Il suo viso aveva tratti inconfondibili: ero pronto a scommetterci, quell’uomo era un pugile.

    IL CAMPIONE

    The Dining Room of the MET.

    5th Ave, New York.

    Poco prima della mezzanotte del 24 gennaio 2013.

    «This storm doesn’t scare you?» gli chiedo avvicinandomi al lucido bancone di mogano.

    «It will go away, Mr. Leone», mi risponde l’uomo al bar.

    «Lei è italiano?»

    «Si, sono italiano.»

    «Allora parliamo in italiano. Ha degli stuzzicadenti, lì dietro?»

    Me li passa. Noto una sorta di incredulità sul suo volto, un’espressione che conosco da molti anni. Quanti uomini, quante donne mi hanno fissato con lo stesso sguardo incredulo e anche un po’ deluso?

    «Sono molto più insignificante, più basso. E molto più vecchio.»

    Tolgo la fascetta rossa da un Avana e lo liscio con le dita per sentirne la consistenza. Prendo uno stuzzicadenti e l’infilzo con forza sull’estremità del sigaro.

    «Tutti lo tagliano, ma io preferisco bucarlo. Respira meglio così.»

    L’uomo avvicina un posacenere. Frugo nella tasca dello smoking in cerca dei fiammiferi.

    «In quale categoria combatteva?»

    «Sono stato campione italiano dei pesi medi e super medi.»

    Lo scruto.

    «Chi sei? Mi sembra di conoscerti.»

    «Vincenzo Imparato.»

    «Il tuo nome non mi è nuovo. Quando hai smesso di combattere?»

    «Quattro anni fa.»

    «Quanti anni hai adesso?»

    «Quarantaquattro.»

    «Ti faccio una proposta: un caffè per una fetta di torta.»

    Vincenzo alza lo sguardo verso la sala. La torta troneggia sotto le luci, intatta nel suo decoro candido, come un piccolo mondo in cui abbia appena smesso di nevicare. Dietro al dolce i vetri rimandano la furia della bufera: i fiocchi vi si spingono contro quasi vogliano raggiungere quella graziosa contrada tondeggiante e trovare finalmente la pace.

    Vincenzo prepara due caffè, li appoggia a un vassoio e li porta al mio tavolo. Indico la torta.

    «Non posso resistere ai dolci, anche se fanno ingrassare.»

    «A chi lo dice», risponde Vincenzo, sedendosi e porgendomi una cartolina. «Dopo un incontro riuscivo a mangiare anche tre chili di gelato.»

    Ed eccolo da giovane sulla cartolina, con la cintura di campione italiano, in posizione di guardia, con un paio di guantoni rossi. Porta i capelli rasati ai lati della testa e ha un aspetto concentrato che traspare dagli occhi castani, profondi ma privi di ombre.

    «Settantuno chili e duecentocinquanta grammi per un metro e settantanove di altezza», dice.

    Annuisco con ammirazione.

    «Dovrei perdere dieci chili buoni», aggiunge sorridendo.

    Affondiamo le posate nel dolce.

    «È la prima cintura?»

    «Si. Il mio primo titolo italiano. Com’è il caffè?»

    «Buono.»

    Noto il logo in un angolo della cartolina: Sì Espresso.

    «Se avesse bevuto il mio caffè, non avrebbe potuto recitare quella scena nel suo film», mi dice scherzando.

    Una tremenda banalità, quella famosa scena: io che cerco un caffè italiano come un pazzo per tutta la città. A New York non manca certo il buon caffè. Però in qualche modo dev’essere andata a segno, perché tutti se la ricordano.

    «Era il primo della serie, lo so a memoria.»

    «Ti alleni ancora?»

    «Quando posso.»

    «Dove?»

    «A casa sua, Mr. Joe.»

    Sorrido.

    «È lei il pugile più famoso del mondo.»

    «Saranno vent’anni che non ci torno, se parli della Gleason a Brooklyn.»

    «Sì. Ricoperta di sue fotografie.»

    «Come ci sei capitato?»

    Vincenzo esita.

    «Mi scusi, Mr. Joe.»

    «Di cosa?»

    «Ho sempre sognato di incontrarla, di chiederle l’autografo.»

    Noto un sincero entusiasmo nei suoi occhi e un certo imbarazzo. Non dev’essere facile sedere al tavolo con me a dividere la mia torta di compleanno.

    «Da ragazzino i poster dei suoi film tappezzavano la mia camera, quand’ero sdraiato sul letto leggevo sempre il suo nome davanti a me.»

    «Il nome di un uomo non è più importante di quello di questo sigaro», lo interrompo. Sorrido, per metterlo a suo agio. «Non significa niente. Dalla stessa scatola potrebbe uscirne uno buono come uno mediocre. Vuoi fumare?»

    «No, grazie Mr. Joe. Fumo solo quando vado a pesca.»

    Trovo i fiammiferi nella tasca della giacca.

    «Come sei capitato alla Gleason?»

    «Ero a New York per qualche settimana, avevo appena conosciuto mia moglie e mi stavo preparando alla Gleason per un titolo italiano.»

    «L’hai vinto?»

    «Si, mi ha portato fortuna. Mi allenavo da solo, poi un giorno il maestro Hector Roca mi notò. Sei un professionista? Da dove vieni? Cominciò a farmi fare i guanti con lui.»

    Accendo il sigaro e aspiro profondamente.

    Attraverso il fumo, rivedo il portoncino della Gleason Gym avvolto nei vapori dei tombini delle strade di Brooklyn. Rivedo l’entrata con l’illustre motto della palestra, i gironi dove si soffriva, il giorno in cui avevo abbozzato prima su un pezzo di carta e poi sul ring il pugile che avrei interpretato. Avevo sputato sangue, avevo puntato la mia vita intera su quel personaggio che in quella vecchia palestra, giorno per giorno, diventava qualcosa, qualcuno. Mi ero venduto tutto, tutto il poco che avevo. Eppure sorrido, dentro di me. Com’era stata bella quella febbre! E in fondo, era stato utile anche il freddo che pativo nella mia stanza in affitto perché mi serviva per scappare fuori e correre alla Gleason.

    «Mi piace», continua Vincenzo, «perché c’è la stessa puzza di sudore della mia palestra in Italia.»

    Mi viene da ridere.

    «Hai ragione. L’odore di una palestra di boxe è sempre lo stesso, in tutto il mondo.»

    Mi confessa di quanto abbia nostalgia di altri odori, ora che vive a New York: quello dei boschi e dell’erba appena falciata.

    «Dove sei cresciuto?»

    «Sono nato e cresciuto in Lombardia.»

    «Dove?»

    «A Vigevano, non credo che la conosca.»

    Non la conosco.

    «La città delle scarpe», aggiunge. «In provincia di Pavia.»

    «Conoscerai la bonarda», gli chiedo allora, e un largo sorriso si apre sul suo volto.

    «Certo che la conosco!»

    «È uno dei vini che preferisco. Ma non dev’essere troppo frizzante e neanche troppo secco.»

    Osserviamo istintivamente le bottiglie di champagne che i camerieri stanno portando via sui carrelli. Tutto diventa più sincero.

    Mi racconta che la sua famiglia viene da Pimonte, un villaggio della penisola sorrentina. Da lì i suoi genitori sono emigrati al nord, in cerca di lavoro, prima che lui nascesse.

    «Ho combattuto una volta sola vicino al mio paese. Da professionista. Ho perso per un colpo al fegato.»

    Sembra scacciare un brutto ricordo.

    «In realtà non riuscì ad arrivare al fegato, ma mi incrinò due costole. Lasciai prima del limite. Ma fu un bel match.»

    «Chi era il tuo maestro?»

    «Ciro Converti.»

    «Ciro Converti!»

    «Se conosce Converti», risponde Vincenzo, «ama la Noble Art.»

    Ciro Converti me lo ricordo bene, è stato un grande campione degli anni Sessanta e si è ritirato imbattuto, non so dopo quanti match.

    «Ottantaquattro. Ne ha vinti settantasette e persi quattro.»

    «E dimmi Vincenzo, di che anno è Converti, dov’è nato?»

    «È nato a Taranto nel ’44, nel febbraio del 1944.»

    Ci guardiamo comprendendoci, come succede quando si scopre di avere in comune qualcosa di grande.

    «Mi ha insegnato tutto, il mio maestro. Ho imparato tutto da lui.»

    Converti… Ciro Converti. L’avevo visto combattere a Milano, al Cinema Principe, negli anni ’63 o ‘64. Ricordo lo stile, la velocità, i colpi perfetti.

    «Aveva una grande linea. Peso mosca, se ricordo bene.»

    «Ricorda bene. Cinquantuno chili», conferma Vincenzo.

    «Mi viene in mente un KO tecnico alla terza ripresa, come se ce l’avessi qui, davanti agli occhi. Con uno che sarà stato il doppio di lui, un bestione. Lo schivò, l’altro finì con il braccio fuori dalle corde, Converti lo aspettò e lo mise giù prima che se ne accorgesse.»

    Come un’onda risento il boato emozionante di quella sala gremita all’inverosimile infrangersi nella mia memoria. Era il regno della boxe. Ed è stato il luogo del mio debutto davanti a una cinepresa. Quando Luchino Visconti girava Rocco e i suoi fratelli, mi ero presentato alle selezioni delle comparse, spinto da un impulso irresistibile.

    «Visconti mi scelse. Una particina senza neanche una battuta. Ebbe la potenza di un tornado, per me.»

    Ancora oggi ricordo i suoni, i colori, le voci e i gesti di quel giorno memorabile. E tutto mi appare vivido, non annebbiato ma illuminato dal chiarore del tempo. Piero Tosi sovrintendeva ai costumi e… mi trasformò.

    «Ero un ragazzotto, divenni un personaggio. Mi innamorai del cinema. Guardavo Visconti dirigere la sua storia, crearla momento dopo momento. Al suo cenno, la macchina cominciava a girare ed era come se solo in quell’attimo la vita… non so come spiegarti…»

    «Fosse vera.»

    «Sì.»

    Aspiro una lunga boccata.

    «Mentre lui plasmava la sua storia, io sognavo la mia.»

    Il dolce non è male, ne taglio altre due fette.

    «Poi, dopo la morte di mio padre, lasciai Milano e partii per l’America. Volevo studiare all’Actor’s Studio come Marlon Brando.»

    Vincenzo sorride. Conosce sicuramente la mia carriera; chi non la conosce? Sa della mia dura gavetta. Forza, coraggio e una bistecca, declamavo ai party d’onore, e anche questa facile battuta è diventata leggenda. Ma tutto il resto, ciò che è stato prima del successo, non è una fesseria.

    «E adesso a cosa sta lavorando, Mr. Joe?»

    «Adesso sono tornato a un vecchio amore: il teatro.»

    Chiamo un cameriere e ordino un vino rosso. Mi piacciono i vini leggeri, semplici. So che non troverò una bonarda e chiedo un lambrusco.

    «Tra un pugile e un attore ci sono molte differenze, ma anche tante affinità.»

    Vincenzo annuisce.

    «Io e te Vincenzo, in fondo abbiamo fatto la stessa cosa: ci siamo dati in pasto alla folla.»

    «È una passione. Ti innamori.»

    Ha ragione. Devi essere capace di innamorarti senza indugi, per salire sul ring o sul palcoscenico.

    «Se non ci metti il cuore, vai al tappeto», aggiunge.

    «O prendi dei gran fischi.»

    «Le è successo?»

    «Certo. Romeo e Giulietta. Shakespeare non perdona. Ero giovane, ero Romeo. Adesso che lo saprei fare non sono più giovane, non sono più Romeo.»

    «Anch’io Mr. Joe, non sono più quel peso medio della cartolina, adesso come peso potrei essere un bel massimo.»

    Ridiamo.Il cameriere porge la bottiglia di lambrusco. Versa il vino e l’assaggio. È ottimo.

    «Ma un pugile», aggiunge, «non ha costumi da indossare né trucco sulla faccia e nemmeno Shakespeare che gli dice cosa deve fare. Non hai una parte quando sali sul ring.»

    Beve un sorso di vino.

    «Puoi studiare l’avversario, questo sì. Se è mancino, allora ti alleni per un mancino, ma non potrai mai sapere cosa succederà sul ring.»

    «Hai ragione», rispondo.

    «Eppure studiavo, ponderavo tutto. Mi chiamavano il geometra del ring. Il ragioniere del ring, qualcosa del genere.»

    Sorrido di quei soprannomi, facili ma non azzeccati. Intuisco un uomo misurato, non calcolatore.

    «Ma non è così semplice», continua interrompendo i miei pensieri. «Non puoi mai sapere cosa farà il tuo avversario. Certamente non ti risponderà mai con una battuta che anche tu conosci, come a teatro.»

    «Questo è vero, ma non fino in fondo. Se vuoi recitare e non sbraitare sul palco o durante la scena di un film, devi essere esattamente come un pugile. Devi imparare e ripetere tutto maniacalmente, per poi dimenticarlo. Devi arrivare al ciak come si arriva alla campana della prima ripresa, con la mente sgombra ma il corpo pronto, per vivere esattamente e lucidamente in quel preciso momento. Altrimenti, tanto vale che ti ritiri, o fai della pubblicità.»

    Mi guarda comprendendomi.

    «Ogni volta che la vedo in un film, quando sale sul ring sembra tutto vero. Mi chiedo come ha fatto.»

    «Ho fatto la fame e mi ricordo perfettamente il sapore… che non ha!»

    Sorride.

    «Ma la rifarei», concludo.

    Vincenzo appoggia la forchetta d’argento sul piatto e mi guarda dritto in faccia. D’un tratto sembra dimenticare chi sono e il lieve imbarazzo di trovarsi davanti al divo del cinema svanisce.

    «Lo so, Mr. Joe. Anche per me è stato così. All’inizio è la fame che ti fa vincere. Se non hai fame, non vinci.»

    Cerco di immaginarlo, giovane e povero, all’inizio della carriera.

    «Non mi è mai mancato niente», mi smentisce. «Mio padre non ci ha fatto mancare nulla. A quattordici anni lavoravo anch’io, a sedici avevo il mio stipendio, guadagnavo bene. Parlo di un’altra fame.»

    «Che fame?» gli chiedo. «Di gloria?»

    «Non di gloria, no.»

    «E di cosa?»

    «Di vita, Mr. Joe. Fame di vita.»

    Spingo da parte il piatto con le briciole della mia torta di compleanno. Immediatamente capisco di quale sostanza mi sta parlando Vincenzo. È da tanto tempo che non sento quell’inconfondibile istinto.

    «E dove hai trovato da mangiare?»

    I suoi occhi scuri si rasserenano.

    «Una volta, eravamo in Germania, io e il mio maestro. Avevo fatto il peso senza problemi, era un incontro da professionista. Dopo il peso, ci accorgemmo che in albergo c’era un banchetto di nozze. Ci imbucammo e assaggiai tutto quello che non avevo potuto mangiare prima del match. Nessuno ci conosceva, ma tutti ci salutavano con simpatia. Solo il padre della sposa a un certo punto sembrò un po’ perplesso…»

    Ridiamo.

    «E il match?»

    «Lo vinsi ai punti. La sposa era una bella ragazza bionda, era così felice! Viveva il giorno più importante della sua vita. Ma io ero più contento di lei, più di tutti. Avrei combattuto il giorno dopo e volevo vincere con tutto me stesso. Sentivo le ore che passavano, avevo la testa libera. E non era tanto l’esito dell’incontro, ma il pensiero che avrei dato il massimo a farmi stare così bene.»

    Tocca il quadrante del suo orologio.

    «Pensi a una vita dove il tempo non esiste e i tre minuti di ogni round sono l’unico tempo possibile.»

    «Ma possono essere lunghissimi quei tre minuti.»

    «Sì, lo sono e a volte arrivano a sembrare eterni. A volte, appena prima del gong d’inizio sei come un animale.»

    «Feroce?»

    «Indifeso.»

    Lo guardo.

    «Ma è un momento. Se ti sei sfamato prima, sei come un leone che ha appena mangiato. L’ha mai visto un leone, dal vero, in libertà?»

    «Vuoi dire che è questa l’impressione che devi dare al tuo avversario?»

    Enzo ride.

    «Quei pugili che sembrano volerti mangiare vivo, di solito non hanno trovato niente prima. Però», i suoi occhi si illuminano, «quella fame non devi mai placarla del tutto. Io l’allenavo in palestra, nello stesso modo in cui allenavo il mio corpo.»

    Sorrido. So di cosa sta parlando. Era stato anche per me, nei primi anni americani, l’unico posto dove volevo andare.

    «Mi ricordo una sera, in palestra», continua Vincenzo, «mi stavo mettendo le fasce. Arrivò un tipo ben più grande di me, poteva avere una trentina d’anni. Io avrò avuto sedici anni. Era un tipo muscoloso, con le braccia tatuate. Rimasi colpito da una cicatrice che portava sul viso e da qualcos’altro che gli si leggeva in faccia, qualcosa che non avevo mai visto in un uomo. Involontariamente sentii cosa disse al maestro Converti. Disse che voleva allenarsi. ‘Ma esco adesso da San Vittore, maestro. È giusto che lei lo sappia. Sono stato dentro per qualche anno.’ Io non mi aspettavo di sentire una cosa del genere, ma l’avevo sentita. Non dimenticherò mai l’espressione sul viso del maestro, né la risposta che gli diede.»

    Vincenzo indugia un momento mentre quelle lontane parole sembrano riprender vita sul suo volto e dalla sua stessa voce.

    «Prima lo fece aspettare un attimo, non è un impulsivo il mio maestro, non parla a vanvera. Ti guarda, ti osserva, in quell’attimo capisce chi sei. L’altro aspettava di essere accettato nella palestra o di risalire la scala e andarsene.»

    «E poi?»

    I

    Nove gradini

    Vigevano, Accademia Pugilistica.

    Una sera di primavera del 1986.

    «Non ti preoccupare», disse Ciro Converti all’ex carcerato. «Conosci le regole di una palestra di boxe?»

    «Sì.»

    «E allora qui sei a casa tua.»

    L’uomo sorrise.

    «Grazie maestro», rispose, mentre il suo viso si liberava in un attimo di una buona fetta di quegli anni che voleva dimenticare.

    Il corridoio dove si aprivano gli spogliatoi era affollato di pugili che si bendavano le mani. Davanti a loro scendeva la scala che conduceva alla palestra.

    Ciro ricambiò il sorriso. Gli indicò un armadio dove teneva i guanti e le corde, dal quale poteva servirsi. Scesero le scale. L’uomo cominciò abilmente a fasciarsi le mani, poi trovò una corda della sua misura.

    L’orologio sopra al ring segnava le sei meno due minuti, in quel tardo pomeriggio di primavera. L’ultima luce entrava dai grandi finestroni. I pugili chiacchierarono ancora qualche secondo, poi suonò una campanella.

    «Silenzio!» ordinò il maestro.

    E come ogni giorno saltò sul ring, dove lo aspettavano sei

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