Questo viaggio non è finito...
Di Walter Maron
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Info su questo ebook
Walter Maron nasce a Bolzano il 26 ottobre del 1972, da genitori italiani arrivati in Alto Adige negli anni Cinquanta. Consegue il diploma di perito industriale con specializzazioni nei più svariati settori, dall’informatica alla comunicazione. La vita lo porterà ad una carriera lavorativa diversa rispetto ai suoi studi. Dopo vari lavori nel settore commerciale, affina le sue competenze e abilità imprenditoriali diventando manager di varie società nel settore della telefonia, quasi ottenendo il monopolio nella piccola città di Bolzano con una rapida ascesa sociale ed economica. In un’altalena fatta di salite e discese, la sua vita si svolge e riavvolge come una pellicola, sullo sfondo della meravigliosa Val di Non, dove oggi vive.
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Anteprima del libro
Questo viaggio non è finito... - Walter Maron
Walter Maron
Questo viaggio non è finito...
Questo viaggio non è finito...
introduzione
Mi chiamo Walter Maron, ho quarantanove anni e sono un sopravvissuto.
Non sono scampato alla fame, alla guerra o alla carestia come in tanti potrebbero pensare, sono un semplice superstite di me stesso. Sono un italiano nato a Bolzano, città tedesca e difficile, ancora legata al passato e alle sue origini, come me del resto, che ho vissuto tutta la vita, almeno fino ad oggi, a cercare delle risposte che non ho mai avuto, e consapevole che non le troverò mai. La mia vita doveva andare così, sono nato e poco dopo battezzato per bene
come si suol dire. Il destino ha delineato il mio futuro senza fare sconti, ho avuto gioie e dolori, successi e insuccessi, ma soprattutto sono morto e poi risorto. Sono diventato uomo senza essere stato un bambino, ma quanto di vero c’è in questa mia affermazione? Sicuramente la mia infanzia non è stata semplice, orfano di madre a pochi anni di vita, un fratello più grande e un padre con il quale ho sempre avuto un rapporto di odio e amore.
Avevo una vita apparentemente perfetta, ero un giovane ed affascinante imprenditore nel settore della telefonia e avevo il monopolio di un noto marchio in Alto Adige. Avevo una donna bellissima. Io la amavo.
Un giorno ebbi un grave incidente stradale, ricordo perfettamente l’impatto. Un terribile scontro su quella che chiamano la vecchia strada di Appiano, zona che i turisti ricordano per le bellezze naturalistiche, i castelli, il buon vino e i tanti sali e scendi che la caratterizzano. Era un giorno di fine gennaio, il freddo si faceva sentire e le strade erano ghiacciate come gli alberi immobili che coloravano di bianco le montagne intorno a noi. In quattro giorni, oltre al mio, ci furono ben cinque incidenti su quella strada. Il mio con feriti anche gravi. Una cava nelle vicinanze aveva letteralmente imbrattato la strada di sabbia e detriti che, mescolati alla pioggia, resero la strada tale e quale ad una pista di pattinaggio su ghiaccio. La mia BMW andò fuori strada, invadendo l’altra corsia andando a sbattere contro il guardrail. Non feci in tempo a voltarmi che vidi arrivare un’auto in picchiata che ci travolse in pieno. Fu un impatto devastante, per tutti, ma grazie al cielo senza morti.
Mi tirarono fuori con le pinze idrauliche, la mia auto e io eravamo completamente distrutti. Due costole e due vertebre fratturate, compreso il famoso osso del collo e una dorsale. Sarei dovuto essere su una sedia a rotelle, ma qualcuno ha guardato giù e mi ha protetto. Successivamente le sfighe continuarono, caddi improvvisamente davanti a casa, i classici voli di chi inciampa per disattenzione o chissà quale altro motivo, e di nuovo mi ritrovai in pronto soccorso ma questa volta con un’emorragia cerebrale. In altri casi e con queste diagnosi la paralisi sarebbe stata la più probabile conseguenza, ma non andò così.
Quell’anno incominciai a perdere tutto quello che avevo costruito dal niente, con tanti sacrifici ed impegno, negozi, case, macchine, mi dedicai alle dipendenze e diventai un alcolizzato. Poi accadde qualcosa di strano, di magico…era agosto del 2017 e… oggi sono qua, sobrio e con tanta voglia di raccontare.
Un giorno, dopo aver finalmente ripreso in mano la mia vita, andai dal mio dentista semplicemente per risolvere un problema estetico, pareva fosse andato tutto bene e mi ritrovai con un’improvvisa infezione di origine batterica, mi dissero che il mio sangue aveva un nuovo compagno di banco, il perfido Stafilococco Epidermidis che in poco tempo arrivò senza ostacoli al mio cuore, infettandolo. Una vegetazione di tale infezione si staccò ed arrivò ad occludere la mesenterica, l’arteria che assicura l’irrorazione di sangue a gran parte dell’intestino.
Non sono di certo l’unico ad aver subito una frattura vertebrale, tanto meno un’emorragia cerebrale, nemmeno una sepsi e neanche una endocardite batterica, e in ultimo non sono nemmeno l’unico ad essere ancora qui dopo un’ischemia mesenterica. Certo, si è fortunati a sopravvivere anche a una sola di queste sventure.
Sono sopravvissuto a tutto, questo è il mio gratta e vinci fortunato.
Durante l’ultima visita, il medico mi disse che la mia cartella clinica pareva quella di un ultraottantenne e mentre lo ascoltavo pensavo: ma quanti ottantenni ancora vivi avranno passato tutto quello che ho avuto io?
. Mi sembra impossibile.
Ho sempre amato fare le cose per bene, sono un perfezionista in tutto ciò che faccio.
Per te oggi sono un uomo diverso, grazie a te sono risalito dagli abissi. Prima non capivo il grande dono che mi avevi dato. La vita. La mia vita. La vivrò per te e questa è una promessa.
I.
UNA STORIA QUALUNQUE
"Sì, il titolo si addice, anche se a me questa storia è piaciuta molto, e mi piace ancora.
Credo che tutto sia iniziato togliendo cinquanta minuti a trentanove anni, trentanove anni
fa. E cosa mai sarà successo? Nulla, sono solamente nato, pare alle 8.30 di mattina, ma chissà, io non posso certo ricordare...".
Iniziai a scrivere queste righe circa dieci anni fa. Oggi ho quarantanove anni, allora non avevo idea di cosa mi sarebbe capitato da lì in avanti, per raccontarlo devo fare ordine e ripartire da capo. Sono abituato a riavvolgere la pellicola della mia vita, l’ho fatto tante volte, e non mi ci sono mai abituato perché ogni volta è una storia diversa e alla fine in un modo o nell’altro ci riesco, a modo mio, nel bene e nel male.
Questa è una storia tragicomica e la racconto col sorriso, del resto una mia caratteristica è quella di prendere sempre il lato positivo da ogni aspetto, da ogni evento. Una storia qualunque, sì, a tratti incredibile, per la quale forse non ci sarebbe molto da ridere, ma non c’è niente che mi aiuti più di questo. E allora...
Bolzano. Otto e trenta del mattino, 26 ottobre 1972.
Due anni dopo mia mamma ci avrebbe lasciati. Lo dico così perché è così che l’ho vissuta, senza possibilità di somatizzare il lutto. Era il giorno prima del mio secondo compleanno, il 25 ottobre del ‘74. Morì a causa del morbo di Hodgkin, un tumore che aggredisce il sistema linfatico, responsabile per la difesa dell’organismo da malattie e agenti esterni.
Oggi è una malattia statisticamente curabile. La medicina non è una scienza matematica, è una scienza statistica, che all’epoca non giocava a suo favore.
Morì che aveva trentasei anni. Con mio cugino Maurizio ricordo che crescendo provavamo a prenderla un po’ sullo scherzo, dicevamo che lo avesse fatto per non farci il regalo perché anche lui era nato in ottobre, il 27.
E così mio padre si ritrovò fin da subito, giovanissimo, con me e mio fratello di nove anni più grande da gestire. Credo che quell’uomo, mio padre, sia stato veramente forte. Faceva l’operaio in un’acciaieria e ad un certo punto non riusciva a starci dietro, così piazzò me da alcuni parenti e mio fratello da altri, ci divise per cause di forza maggiore.
Il ricordo più remoto che ho nel tempo, non so come faccia a ricordarlo – forse perché ho continuato a volerlo ricordare – è mia mamma nel letto, in Via Udine, in una delle prime case dove vivevo. Dopo questo, di lei non ricordo nulla. Una cosa però voglio raccontarla, me la ricordò anche mio padre quell’unica volta che parlammo di lei. Una volta ero a casa dei nonni in via Genova e uscii a sbattere la tovaglia per togliere le briciole, quando ad un tratto alzai gli occhi verso le nuvole e sentii la voce della mia mamma salutarmi dal cielo.
A questo si può credere o meno, credo sia legittimo. Io so solo che ricordo questo, e lo ricordo nitidamente, poi ci si può dipingere quello che si vuole.
Lui che non mi aveva mai parlato di mamma, durante un viaggio in cui scendevamo da Don a Bolzano, quell’unica volta che parlammo di lei, mi ricordò questa cosa, quanto da piccolo insistessi nel dire che la mamma mi aveva parlato dal cielo.
In quel periodo sono stato sballottato da un parente all’altro, prevalentemente da mia zia Ermes e mio zio Silvio. Zia Ermes era la sorella di mio padre e aveva questa casetta in campagna, due persone magnifiche, grandissime. Poi in famiglia c’erano Paolo (un mio cugino che era praticamente un fratello) e mia cugina Sonia. Era bello vivere a contatto con la natura, con la possibilità di arrampicarsi su un albero per prenderne la frutta, o tanto per gioco, fare un bagno al fiume; mi manca vedere intorno a me galline, conigli, animali da cortile, cose così. Paolo aveva venti anni più di me, mi insegnò come si fanno i bambini! Oggi purtroppo non c’è più. Era un grande, Paolo, credo mi abbia trasmesso una incredibile passione, un profondo amore per la musica. Stavo sempre con lui nonostante la differenza d’età. Ho moltissimi ricordi di quel periodo, di quella casa in campagna anche perché fino ai dodici anni ho trascorso lì praticamente ogni estate, mi piaceva starci e non vedevo l’ora di tornare, ogni volta.
Ci sono tre fiumi vicino Bolzano, il Talvera, dove da bambino andavo con mio zio Silvio a fare il bagno perché passava accanto alla loro piccola casetta, l’Isarco e l’Adige.
Allora non c’era niente, il paesaggio era dominato dalla natura incontaminata dalla mano dell’uomo, il boom edilizio in quella zona avvenne negli anni successivi.
Oggi quelle rive sono caratterizzate da spiagge artificiali molto carine, sicuramente pratiche e comunque belle per i turisti che cercano relax tra natura e comfort, ma sono bocciate per i nostalgici come me.
Smisi di farci il bagno quando mi trovai un serpente in mezzo alle gambe, ebbi così tanta paura che non ci andai più. Che poi era una biscia d’acqua, niente di pericoloso, ma sono quelle fobie che finisci col portarti dietro.
Mio padre si risposò che avevo quattro anni con la persona che ad oggi, Angela, chiamo mamma. Oggi lo faccio consapevolmente, ma allora ero piccolissimo e mi dicono che chiamavo mamma ogni donna che mi prendesse in braccio.
Un giorno, al cimitero, io, Stefano e Angela, eravamo sulla tomba del papà di Angela, nonno Michele che non ho mai conosciuto, e mio fratello mi disse: dai ti faccio vedere dov’è la mamma
, avevo cinque o sei anni, mi mostrò la lapide e poi disse che era in cielo, le solite cose che si raccontano. A voler vedere un lato positivo, nella mia situazione avevo avuto in pratica due mamme, tre nonni, tre nonne, e... stava arrivando un nuovo cuginetto, Michele.
Dei nonni ho conosciuto solo Modesto, che faceva il falegname ed era il padre della mia vera mamma, Assunta. Di nonne invece, come dicevo, ne ho avute tre. E quando lo raccontavo a scuola faceva sempre sorridere, era sicuramente una situazione insolita.
Avevo nonna Amelia, la mamma della mia vera mamma nonché moglie di Modesto. Era una donna fantastica, bassina, magrolina, non credo di averla mai vista arrabbiata in tutta la sua vita. Una donna incredibile. Poi c’era nonna Maria, la mamma di mio padre, che era un po’ più anziana e viveva con la zia Francesca e lo zio Stefano.
Nonna Argia invece era la mamma di Angela, mia madre, ed è la nonna con la quale ho passato più tempo, quella che si è maggiormente presa cura di me. Rimase vedova di suo marito Michele sul presto, morì intorno al ‘71, credo fui una buona distrazione per lei. Mi veniva a prendere a scuola, mi preparava da mangiare e mi faceva giocare. Sono cose che quando perdi qualcuno di caro ti aiutano, in più era di supporto anche alla famiglia, visto che Angela, come mio padre, lavorava in acciaieria.
Lei in mensa e lui ai forni. Credo ai forni, faceva l’operaio.
Il matrimonio tra i miei genitori è una fotografia ben impressa nella mia mente. Era logicamente inusuale che un figlio
partecipasse al matrimonio dei propri genitori. Avevo un fazzoletto pieno di confetti che raccoglievo in giro, perché in quel periodo era abitudine lanciare in aria riso e confetti, ricordo questo di quel giorno, e qualche foto che mi mostrò mio padre in seguito. Poco e niente, quindi.
Una volta sposati continuammo a vivere nelle casette semi-rurali di via Udine, sempre a Bolzano. Erano tutte casette di quattro abitazioni per quattro famiglie, piccole, piccolissime, con una cucina, un cucinino, una stanza e un tinello che pareva una vasca da bagno. Niente vasca o doccia, tutto molto semplice. Però c’era un piccolo giardino con l’uva fragola e un piccolo orto, erano realtà diverse da oggi, allora potevi prendere la tua sana boccata di aria al giorno, era bello. E poi di quel periodo ricordo una cosa di cui parlavo con mia mamma qualche giorno fa, quando le ho chiesto: mamma, ma tu da quanto non guidi?
. Da tanto
, mi ha risposto. E mi sono ricordato di questo vicolo strettissimo di via Udine attraverso il quale si arrivava ai vari civici delle abitazioni, tra cui casa nostra. Mia madre una volta aveva fatto tutta la fiancata della nostra macchina, e da quel momento non aveva guidato più. Quando glielo ho detto ha negato tutto, ha detto che non era vero