Delitti al buio: Giorgia del Rio e Doriana Messina indagano tra Torino e Milano
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Info su questo ebook
Emiliano Bezzon è autore di numerosi racconti noir pubblicati in diverse antologie tra cui I luoghi del noir, Odio e amore in noir e Quei sorrisi noir, edite da Fratelli Frilli Editori. Questo è il quarto romanzo con protagonista la coppia di investigatrici formata da Giorgia del Rio e Doriana Messina e fa seguito a ll manoscritto scomparso di Siddharta edito da Robin nel 2017, Il delitto di via Filodrammatici e Legami di sangue, pubblicati da Fratelli Frilli Editori nel 2020 e 2021.
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Anteprima del libro
Delitti al buio - Emiliano Bezzon
Capitolo 1
Oggi a Milano
Alberto lo aveva chiamato, fissando un appuntamento con Ettore nel suo nuovo ufficio, a pochi passi dalla stazione centrale di Milano.
Non c’erano segretarie, autisti o uniformi, ma Ettore sembrava perfettamente a suo agio, anche dopo aver smesso di occuparsi, almeno ufficialmente, di sicurezza.
Come stai Alberto? Bello vederti dopo tutto questo tempo? Ti va un caffè? Te lo faccio io con la macchinetta oppure preferisci che chiami il bar qui sotto e lo faccia portare?
Va benissimo quello della macchinetta, il più corto possibile però!
Ma come mai da queste parti? Tu non fai le cose per caso. I primi tempi facevo fatica, ogni volta, a capire da dove sbucassi e perché ci si incontrasse. Ma adesso non mi freghi più: dimmi cosa bolle in pentola e cosa posso fare per te.
Nulla che abbia a che fare con il lavoro
, lo rassicurò, anche perché mi sono preso un periodo sabbatico, diciamo così.
Una pausa tu? Non ci credo nemmeno se lo vedo scritto in un documento ufficiale dei servizi, a meno che…
Vabbè te lo dico dai, tanto non riesco a nasconderti niente e poi mi sa che lo hai già capito: mi sono messo con una donna e quindi ho deciso di fermarmi, forse definitivamente e di stare qui a Milano con lei.
Ah ecco, allora ci siamo. Certo deve essere una donna straordinaria per avere convinto uno come te a mollare il colpo e mettersi le pantofole per stare sul divano.
Ma quali pantofole? Certo Giorgia è una donna straordinaria.
Bene! Adesso sappiamo anche come si chiama questa misteriosa e immagino affascinante signora; e quando pensi di farmela conoscere?
Veramente sono venuto proprio per invitarti a cena con qualcuno dei vecchi amici e, ovviamente, anche con Giorgia, se ti va.
Certo che mi va. intanto beviti il caffè e poi ne parliamo
Dimmi un po’, il quadro alle tue spalle…
"Bello, vero? ‘Vela’ è proprio un grande artista, anche se per mantenere sé e la famiglia deve fare ben altro. È così meticoloso nel dipingere che impiega mesi (se non anni) a finire un quadro. Gli ho chiesto di dipingermi il Palazzo del Capitano di Giustizia di Milano, quando ormai sentivo che di lì a poco avrei dovuto lasciare il mio ufficio da Comandante dei Ghisa milanesi, travolto da quella assurda inchiesta, che aveva riempito le pagine dei quotidiani e gli spazi dei telegiornali nazionali. Ovviamente tu sai ogni cosa e sai pure che tutto finì in niente, seppure dopo anni. Così come sei perfettamente a conoscenza del motivo per cui qualcuno decise di rovesciarmi addosso quella montagna di merda. Ma ora è acqua passata.
Comunque, un pomeriggio di luglio, Vela si è presentato al comando con Pier, l’amico fotografo, e hanno cominciato a produrre scatti da ogni angolazione, con le diverse luci e le migliori prospettive. Ne è uscito un quadro straordinario che colpisce chiunque lo veda, per l’iperrealismo e la tecnica superba espressa dal Vela, che ha dipinto persino tutti i fili delle linee tranviarie, come puoi vedere. Pochi però sanno di tre piccoli segreti nascosti tra i particolari della grande tavola dipinta: il primo è nel riflesso del cofano dell’auto blu, dove si possono vedere le guglie del Duomo, il secondo è nel riflesso dei finestrini di un Porsche Cayenne, dove si può vedere il Palazzo della Borsa e, infine, nel piccolo tondo di uno specchio parabolico, a margine di una strada, confuso tra altri segnali stradali e i cartelloni elettorali, si vedono i ritratti del Vela di Pier e del sottoscritto."
Quel quadro racchiudeva un pezzo importante della sua vita, non solo professionale, e il piccolo ritratto dei tre amici lo impreziosiva più di ogni altra cosa.
Ettore lo guardava spessissimo e ogni volta pensava a quegli anni intensi e febbrili, alla precipitosa fine di quel periodo e alle sofferenze conseguenti ma, sorrideva, sapendo che in un angolo nascosto, che nessuno sapeva scovare, c’erano i suoi amici e che tra le mura di quel palazzo cinquecentesco aveva vissuto anni importanti per la città, fatti di successi e di sconfitte, come sempre accade nella vita.
Alberto conosceva perfettamente quanto era accaduto, tempo prima, all’amico che aveva di fronte. Aveva anche cercato di avvisarlo della tempesta che si sarebbe scatenata su di lui, ma Ettore non voleva sentire ragioni, convinto della sua totale estraneità ad ogni addebito. E così era rimasto sulla graticola per oltre quattro anni: tanto c’era voluto perché un giudice finalmente decidesse che a suo carico non c’era assolutamente nulla, nonostante qualcuno avesse provato in ogni modo a gettare fango sulla sua persona. In fondo, c’erano anche riusciti attraverso un processo mediatico spietato e, come sempre, senza alcuna possibilità di appello. Alla fine di tutto, un trafiletto in cronaca locale avrebbe dovuto rimediare alle pagine intere di quotidiani e settimanali.
So perfettamente cosa stai pensando Alberto e cioè che sia quasi masochistico da parte mia convivere con un’immagine che mi riporti al tempo delle mie traversie giudiziarie. Ma per me è anche un modo per esorcizzare incubi che ogni tanto tentano di riemergere da quel passato.
Scusami, Ettore, è che, insomma, è sempre difficile affrontare certi discorsi…
Non per me, credimi, non adesso almeno. Ho superato anche la fase della rabbia e dell’odio verso chi ha voluto tutto quello e mi godo la mia nuova vita. È vero, sai, il detto secondo cui quando si chiudono porte si aprono portoni. Comunque, dovevamo decidere per una cena giusto?
Sì sì giusto, dobbiamo pensare a una gran bella cena e poi non vedo l’ora di farti conoscere Giorgia, perché sono sicuro che ti piacerà e, adesso che ci penso anche tu potresti piacerle…
Non farmi il geloso ora Alberto, non sei credibile, dai!
Ok, ok dove potremmo andare per una bella rimpatriata? Qui attorno ormai è pieno di locali interessanti, giusto?
Sì, ce ne sono diversi, ma per la nostra cena, c’è solo un posto possibile e sai benissimo anche tu qual è.
Il cinese!
"Appunto. Guarda caso è anche nella via parallela a questa e mi viene comodo arrivarci finito di lavorare; quando facciamo allora?
Dammi il tempo di sentire Giorgia, di avvisare gli amici poi si fa. Diciamo fra due o tre giorni, per te può andare bene?
Non ci posso credere! Deve sentire Giorgia… ammazza Alberto ma non è che questa donna è una strega, che ti ha trasformato così?
No, è una psicologa, anzi ora soprattutto una detective privata…
Ma stai parlando sul serio?
Mai come prima d’ora, amico mio. Ci vediamo Ettore. Ti chiamo domani o più tardi, ok?
Alberto, uscito dall’ufficio dell’amico, cominciò a camminare lungo via Vittor Pisani, allontanandosi dall’imponente costruzione della stazione centrale. In fondo, si stava lasciando alle spalle anche anni di continui arrivi e partenze, quasi senza sosta, senza una casa propria e un affetto stabile. Con buon passo, superò l’incrocio dove avrebbe dovuto svoltare per raggiungere la casa di Giorgia, decidendo di arrivare dritto fino a piazza della Scala. Aveva voglia di camminare, assaporando l’inconsueto piacere di non avere alcun appuntamento, alcun obiettivo, alcuna missione se non quella di pensare finalmente a sé stesso e ai pochi amici che era riuscito a conservare e, soprattutto, a lei.
In largo Donegani, incrociò l’edificio che tutti riconoscono come sede di popolari e ascoltatissime stazioni radio, ma che è soprattutto la sede del consolato americano e, quindi, base della CIA. In un attimo, guardando verso il tetto dell’edificio, gli tornò vivissimo il ricordo dei brunch del giovedì, con i marines di guardia al consolato che si sbizzarrivano al barbecue. E ripensò anche alle feste a casa del console, nel cuore di Brera, accanto al palazzo sede della pinacoteca. C’era tutto il corpo consolare milanese oltre ai maggiorenti cittadini. Naturalmente, anche la densità di agenti dei servizi, provenienti dai Paesi di tre quarti del pianeta, era elevata: alcuni li conosceva direttamente o indirettamente, altri li riconosceva al volo, così come certamente era riconoscibile lui, pur confuso tra centinaia di uomini e donne. D’altro canto, a Milano opera un numero elevatissimo di consolati, secondo solo a quello di New York: la concentrazione di spie in città è inevitabile.
Tirò dritto, verso piazza Cavour e quello che era stato il Palazzo dell’Informazione, dove nel 1942 il Duce aveva fatto ingresso come direttore del Popolo d’Italia
.
Lui ci era entrato un paio di volte, agli inizi degli anni Novanta, quando ancora era sede del quotidiano dell’Eni Il Giorno
.
Chissà se tra quelli che ogni giorno passano lì davanti, ci entrano per lavoro o per sudare nelle palestre che oggi ne occupano una parte, qualcuno sa che lì avevano girato le rotative di stampa donate a Mussolini da Hitler in persona… si domandò. Probabilmente no, si rispose, abbiamo tantissime opportunità per toccare e respirare la storia, invece, quando va bene, ci limitiamo a fugaci ricerche sul web, giusto per rispondere a qualche curiosità. Roba che le rubriche de La Settimana Enigmistica
sono ormai da considerare perle di cultura. Si accorse di parlare da solo, anche perché erano tutti così di fretta che nessuno avrebbe sentito una parola del suo discorso.
Attraversando gli archi di Porta Nuova, all’inizio di via Manzoni, arrivò dritto fino a piazza della Scala e in Galleria.
Nonostante il frastuono generato dal traffico, cui si aggiungevano lo sferragliare del tram e il vociare delle centinaia di persone al cellulare, su e giù per i marciapiedi, non poté evitare di immaginare Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi passeggiare proprio lì, dove camminava lui. Il primo diretto alla sua casa, nella vicina via Morone, l’altro verso il Teatro alla Scala o il Grand Hotel et de Milan, dove avrebbe alloggiato fino alla morte. Poche volte, pensò, accade che le strade portino il nome di grandi della storia, essendo anche i luoghi della loro esistenza quotidiana: è un privilegio delle grandi città di un grande Paese, quello per cui aveva sacrificato decenni della sua vita privata.
Quante città aveva visto in tutti gli anni del suo servizio? Tante da perderne la memoria. Ma fino ad allora erano solo luoghi, contesti o teatri di operazioni. Adesso avrebbe potuto cominciare a viverle in profondità.
Anche lì, nel cuore di Milano, in tanti anni, aveva incontrato persone apparentemente comuni. Nessuno può nemmeno immaginare quanti siano gli agenti dei servizi segreti di tutto il mondo che si muovono in una città come Milano. Per la verità, spessissimo capita di aver a che fare con loro, uomini o donne che siano, magari anche per anni, senza supporre, nemmeno per un attimo, chi siano realmente.
La capacità di osservazione e di immediata contestualizzazione delle informazioni a lui, invece, erano spesso servite a portare a casa la pelle.
Ora poteva rallentare e gustare.
Capitolo 2
Qualche tempo addietro a Milano
Comandante buon giorno. La vogliono urgentemente dal Sindaco per un problema legato al concerto di domani allo stadio
. Il capo della sua segreteria sapeva benissimo quanto Ettore Buzzati mal digerisse l’idea di dover partecipare all’ennesima riunione in cui si sarebbe discusso per ore, ma non poteva evitarglielo perché il Sindaco aveva espressamente chiesto di lui e tra loro non correva buon sangue; ma proprio per questo non si poteva mandare un sostituto.
Ti ringrazio Roberto, giusto il tempo del caffè e vado a Palazzo Marino
.
Dico all’autista di prepararsi già in cortile con l’auto accesa allora, così…
Niente auto Roberto, vado a piedi. Sai benissimo che mi diverto a vedere i venditori abusivi correre all’impazzata appena mi vedono da lontano e poi da qui a Palazzo sono davvero quattro passi.
Ettore sapeva perfettamente che di lì a qualche minuto si sarebbe celebrato il consueto rituale: un po’ di anticamera nella splendida sala dell’orologio, poi l’ingresso nella stanza delle riunioni adiacente l’ufficio del Sindaco, dove avrebbero preso posto dirigenti, assessori, rappresentanti dei diversi enti convocati; ognuno avrebbe manifestato il suo impegno massimo a fare in modo che il grande concerto si tenesse senza alcun problema, garantendo un migliore servizio dei mezzi di trasporto pubblico, la pulizia del piazzale etc. etc., tanto alla fine sarebbe toccato ai ghisa fare in modo che diverse decine di migliaia di persone – praticamente gli abitanti di una città capoluogo di provincia – se ne andassero al termine del concerto, a bordo di migliaia di auto e moto, possibilmente in poco tempo, per non causare ulteriore disturbo.
In ogni caso, si sarebbero lette sui giornali del giorno dopo le polemiche perché ci erano volute due ore per far andare tutti verso casa, come se per spostare un’intera città potessero bastare solo pochi minuti…
Ogni volta che sentiva o leggeva queste polemiche, che diventavano poi pesanti critiche all’operato dei suoi uomini, il Comandante non poteva non pensare, almeno per un attimo, alle parole di un assessore milanese che, di fronte alle proteste dei cittadini aveva ricordato che lo stadio c’era da ben prima che loro andassero lì vicino ad abitare e che un impianto capace di ospitare ottantamila persone non lo si usa per le partite scapoli contro ammogliati o per i concerti da camera.
La riunione era andata come previsto, cioè con un conciliabolo di oltre un’ora per lasciarsi esattamente come ci si era incontrati.
Cosa significa davvero e nel concreto diritto alla salute? E il diritto al riposo come si misura, come si quantifica? La domanda è: contano alcune decine di migliaia di persone, che pagano un biglietto e – magari – si sobbarcano un discreto viaggio, per vivere il concerto di un artista di calibro internazionale, di quelli che ti capita una volta sola nella vita di poter ascoltare dal vivo? Oppure vale di più l’interesse di una cinquantina di persone, che abitano in lussuosissimi palazzi vicino allo stadio meneghino – la Scala del calcio divenuta tempio della grande musica internazionale – e si ritengono danneggiate dal fastidioso rumore che esce dalla potente amplificazione di un rocker, che vuole farsi sentire da sessantamila persone e, quindi, non può certo cantare e suonare sussurrando?
In questo Paese lo decide il Sindaco che, raccolti i pareri di diversi tecnici, stabilisce la potenza massima del suono e l’orario entro cui deve cessare l’indimenticabile esperienza dei sessantamila che è, invece, il fastidioso incubo dei cinquanta. Giusto o sbagliato che sia, le regole sono queste ed è del tutto inutile metterle in discussione, a meno che non si abbia il potere di cambiarle. È una bella responsabilità quella di decidere come contemperare questi diritti contrastanti. Anche perché ci sarebbe un terzo interesse, di certo non meno significativo, che è quello dell’imprenditore che organizza il concerto e muove milioni di euro, facendo lavorare centinaia, se non migliaia, di persone.
Tutto questo per dire che non si tratta di una questione banale o di poco conto, da qualsiasi parte la si prenda e, proprio per questo, la ragionevolezza e la tolleranza dovrebbero costituire il cardine dei comportamenti di ognuno, quando ci si imbatte in queste storie, che hanno il potere di annichilire la straordinaria forza generata da un evento musicale di tale portata, riducendola a righe di inchiostro su carte bollate e fiumi di inchiostro sulle pagine dei giornali.
Nell’estate del 2008, durante il concerto di Bruce Springsteen allo stadio di San Siro, si consumò il dramma: il Boss
ha sforato di ventidue minuti, suonando fino a otto minuti prima della mezzanotte invece di smettere mezzora prima della mezzanotte. E che sarà mai stato? Mica si è tenuto un quartiere sveglio tutta la notte! Ora non sarà mica un delitto far divertire sessantamila persone, che hanno pagato, ventidue minuti in più! Semmai, al contrario, ci sarebbe da ringraziare l’artista che ha regalato ancora più tempo ed energie ai suoi ammiratori venuti da mezza Italia! E invece no! Perché ci sono i quarantasei residenti nei lussuosi palazzi lì attorno che quei ventidue minuti proprio non li hanno potuti sopportare, tanto da denunciare l’organizzatore del concerto, che ha dovuto subire un processo, per essere poi assolto, due anni dopo.
Non è vero che chi rompe paga! Proprio no. Perché quando succedono queste cose e si causano danni notevoli, da ogni punto di vista, non paga mai chi ha sbagliato.
Ci sono voluti anni per stabilire che chi ha consentito al Boss
di suonare per ventidue minuti in più del previsto non ha commesso nessun reato.
Ma tutti dimenticano in fretta, perché la vita scorre velocissima, senza curarsi di quelli che non tengono il passo.
Ettore Buzzati era il Comandante della Polizia Municipale quando era successo tutto questo, in quell’estate complicata da tanti altri eventi, come è inevitabile in una metropoli e adesso, leggendo i giornali dal suo nuovo ufficio, non aveva davvero alcun rimpianto di quei giorni febbrili né di ogni altra giornata in cui si era dovuto preoccupare del lavoro di tremila uomini donne e delle esigenze di milioni di persone