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Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni
Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni
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E-book170 pagine2 ore

Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni

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È un romanzo di formazione che narra la storia dello sviluppo emotivo e culturale di un giovane studente-lavoratore meridionale e la realizzazione della sua vocazione.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2020
ISBN9788831664936
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    Anteprima del libro

    Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni - Castrovilli Enrico

    633/1941.

    I

    Una se­ra di fi­ne no­vem­bre del 1967, al­le ore 19.30, do­po un di­sa­gia­to viag­gio dal ca­po­luo­go, Car­lo ar­ri­vò al­la pe­ri­fe­ria del pae­se. Sce­se al­la fer­ma­ta dell’au­to­bus e, pri­ma d’in­cam­mi­nar­si per le so­li­te vie tra­san­da­te, at­te­se che la lun­ga fi­la del­le au­to­mo­bi­li, ru­mo­reg­gian­ti e ve­lo­ci co­me pro­iet­ti­li, la­scias­se li­be­ro il pas­sag­gio pe­do­na­le. Pen­sò «Che traf­fi­co», men­tre si al­za­va il ba­ve­ro dell’im­per­mea­bi­le gri­gio per ri­pa­ra­re la nu­ca e la go­la dall’umi­do not­tur­no.

    Da qual­che an­no il via vai dei trai­ni ti­ra­ti dai ca­val­li e da­gli asi­ni era sta­to so­sti­tui­to da au­to­mo­bi­li di ogni ci­lin­dra­ta e co­lo­re. Era­no tut­te bel­le, gra­zio­se sul se­rio, ma ca­re, al­me­no per la sua fa­mi­glia. Era­no fi­ni­ti i tem­pi per i po­ve­ri spa­la­to­ri di le­ta­me dai poz­zi ne­ri del­le ca­se mes­si in ri­di­co­lo in tut­to il pae­se. Og­gi i car­ret­ti non la­scia­no più per le vie le stra­di­ne di pa­glia, di ster­co e per­co­la­to trac­cia­te du­ran­te la not­te. A Car­lo pia­ce­va­no, le tro­va­va, in ve­ri­tà, sin­go­la­ri e di­ver­ten­ti, an­che se non era ar­ri­va­to a spie­gar­ne il sen­so.

    Car­lo era un gio­va­ne co­me tan­ti al­tri, for­se un tan­ti­no am­bi­zio­so per­ché riu­sci­va a fa­re ciò che a mol­ti sem­bra­va un tra­guar­do im­pos­si­bi­le. Quat­tro an­ni pri­ma ave­va la­vo­ra­to co­me gar­zo­ne in un bar per por­ta­re a ca­sa una ma­gra set­ti­ma­na e qual­che man­cia, do­po la mor­te del pa­dre. Ades­so, non na­vi­ga­va nell’oro, ma gli era pia­ce­vo­le ri­cor­da­re co­me, da gar­zo­ne, fos­se di­ven­ta­to as­si­sten­te cul­tu­ra­le pres­so un col­le­gio ge­sti­to da un en­te pri­va­to; e la sua asce­sa con­ti­nua­va. Quel po­sto era sta­to il pri­mo gra­di­no ver­so la con­qui­sta di più am­bi­ti tra­guar­di so­cia­li. Fu una scel­ta vo­lu­ta, un col­po di for­tu­na, un’oc­ca­sio­ne che af­fer­rò all’istan­te e non se la la­sciò scap­pa­re.

    Non avreb­be mai di­men­ti­ca­to quel mat­ti­no tren­ta mar­zo del ’63, un gior­no con po­co so­le e tan­to ven­to, che ac­cu­mu­la­va sul­le ca­se nu­vo­le ne­re ca­ri­che di piog­gia e di gran­di­ne. Egli era in pie­di da­van­ti al­la mac­chi­na del caf­fè, in at­te­sa di clien­ti. Il suo sguar­do si fer­mò sul­la fi­gu­ra zop­pi­can­te di un gio­va­ne – mai vi­sto pri­ma - ma­gro e ve­sti­to con un abi­to con­fe­zio­na­to sgual­ci­to, co­me se aves­se dor­mi­to sot­to un pon­te. Poi, quel­lo stra­no col­lo­quio ini­ziò per ca­so. Car­lo si me­ra­vi­gliò d’udi­re che quel­la fi­gu­ra ap­pe­na vi­si­bi­le fos­se il nuo­vo pro­fes­so­re di let­te­re del li­ceo clas­si­co ubi­ca­to a po­che cen­ti­na­ia di me­tri dal bar do­ve la­vo­ra­va, che ave­va su­pe­ra­to da po­co la tren­ti­na, che aiu­ta­va i ra­gaz­zi, sen­za al­cun com­pen­so, vo­len­te­ro­si ma che non ave­va­no le pos­si­bi­li­tà eco­no­mi­che per fre­quen­ta­re le scuo­le su­pe­rio­ri. Ri­pren­de­re gli stu­di! La pro­po­sta era al­let­tan­te; quell’uo­mo gli ave­va let­to ne­gli oc­chi il suo de­si­de­rio oc­cul­to: non de­si­de­ra­va fi­ni­re i suoi gior­ni a ser­vi­zio di un bar.

    Co­sì Car­lo in­co­min­ciò a tra­scor­re­re le se­ra­te cur­vo sui li­bri, in com­pa­gnia del pro­fes­so­re, in una ca­me­ret­ta d’una pen­sio­ne a con­du­zio­ne fa­mi­lia­re, fred­da d’in­ver­no e cal­da d’esta­te. Car­lo ave­va pre­so sul se­rio lo stu­dio e de­si­de­ra­va im­pa­ra­re. Gra­zie a que­st’aiu­to, Car­lo con­se­guì la ma­tu­ri­tà li­cea­le; poi, ac­cet­tò l’of­fer­ta di la­vo­ro di un con­vit­to pri­va­to: vo­le­va gua­da­gna­re di più per fre­quen­ta­re l’uni­ver­si­tà. Il pri­mo me­se egli ave­va con­ta­to nel­la bu­sta pa­ga ot­tan­ta bi­gliet­ti da mil­le. Non era­no mol­ti, ma ab­ba­stan­za da com­pra­re i li­bri, la co­la­zio­ne di mez­zo­gior­no non se la por­ta­va più da ca­sa, di tan­to in tan­to lui si per­met­te­va le si­ga­ret­te e con il re­sto pa­ga­va il con­to del lat­ta­io e del dro­ghie­re. Da due an­ni fre­quen­ta­va la fa­col­tà di let­te­re, e con sor­pre­sa co­sta­tò che da qual­che tem­po non pas­sa­va un gior­no di va­can­za con gli ami­ci: mat­ti­no e po­me­rig­gio su e giù nel­le au­le con i ra­gaz­zi del col­le­gio, la not­te nel­la sua stan­za da let­to in com­pa­gnia dei clas­si­ci ita­lia­ni e la­ti­ni.

    Quan­do l’ul­ti­ma au­to­mo­bi­le pas­sò, Car­lo si av­viò len­ta­men­te ver­so ca­sa, con le ma­ni in ta­sca e il De Of­fi­ciis di Ci­ce­ro­ne sot­to il brac­cio si­ni­stro. Pro­ce­de­va sal­tel­lan­do per evi­ta­re le nu­me­ro­se poz­zan­ghe­re, che si era­no for­ma­te do­po una mat­ti­na­ta di piog­gia. Le stra­de era­no de­ser­te; la mag­gior par­te dei brac­cian­ti e de­gli ope­rai era an­da­ta a dor­mi­re e, nel pae­se vuo­to, i suoi pas­si ri­suo­na­va­no co­me un eco dif­fu­so di un ali­to va­ga­bon­do del­lo sci­roc­co tra i ca­mi­ni del­le ca­se ad­dor­men­ta­te. Ep­pu­re sot­to quell’ap­pa­ren­te quie­te si agi­ta­va­no nuo­vi even­ti, per il mo­men­to mol­to ri­las­sa­ti, si­mi­li a pol­pi, che seb­be­ne fos­se­ro sta­ti cat­tu­ra­ti da mol­te ore, era­no ca­pa­ci di len­ti ma im­prov­vi­si mo­vi­men­ti. In fon­do al­la via qual­cu­no ave­va ac­ce­so la ra­dio; la mu­si­ca si al­za­va di to­no via via che Car­lo si av­vi­ci­na­va: era un mo­ti­vo me­lo­di­co, una can­zo­ne all’ita­lia­na. Non ti­rò nem­me­no a in­do­vi­nar­la; e quan­do le no­te giun­se­ro fa­mi­lia­ri al suo orec­chio, ri­pe­té il ri­tor­nel­lo del­la can­zo­ne con aria as­sen­te. La mu­si­ca lo se­guì giù per la stra­da fi­no al­la fon­ta­na, che era in mez­zo al­la piaz­zet­ta a for­ma di trian­go­lo, a po­chi pas­si da ca­sa sua.

    Ap­pe­na im­boc­cò il ver­ti­ce del­la pic­co­la ra­du­ra, Car­lo av­ver­tì una fit­ta re­tro ster­na­le, un do­lo­re tre­men­do che moz­za­va il re­spi­ro. Si fer­mò di col­po e cer­cò un ap­pog­gio, te­men­do di ca­de­re. Si ad­dos­sò al mu­ro e re­stò im­mo­bi­liz­za­to dal­la pau­ra, che con­tro la sua vo­lon­tà, sta­va na­scen­do in lui.

    Dio mio!..Nel caos del­la sua men­te cer­cò un aiu­to di­spe­ra­to. Por­tò per istin­to la ma­no ver­so il la­to si­ni­stro del to­ra­ce, co­me se cer­cas­se con la pres­sio­ne del­le di­ta di mi­ti­ga­re il do­lo­re, sen­za ri­sul­ta­to: es­so si era fat­to an­co­ra più for­te, tan­to che Car­lo si pie­gò in due per il ma­le; la men­te pe­rò ri­ma­ne­va lu­ci­da. Con uno sfor­zo psi­chi­co con­trol­lò il re­spi­ro; fu un sol­lie­vo quan­do sen­tì si­bi­la­re l’ali­to tra le lab­bra ser­ra­te dall’an­sia. Ades­so ave­va fia­to suf­fi­cien­te per gri­da­re aiu­to; ma pro­prio al­lo­ra, co­me per in­can­to, il do­lo­re sva­nì. La cri­si era du­ra­ta po­chi mi­nu­ti, gli sem­brò un’eter­ni­tà, tan­to era sfi­ni­to.

    Che co­sa gli sta­va suc­ce­den­do? Che co­sa era­no quel­le fit­te che da qual­che se­ra gli ve­ni­va­no con pun­tua­le re­go­la­ri­tà? Si chie­de­va tra sé di­vo­ra­to dall’an­sia.

    Ri­pre­se a cam­mi­na­re. Fat­ti po­chi pas­si, do­vet­te, pe­rò, chie­de­re un nuo­vo ap­pog­gio, per­ché bar­col­la­va co­me un ubria­co. Un’im­prov­vi­sa de­bo­lez­za si era im­pos­ses­sa­ta di tut­te le sue mem­bra. Tras­se un re­spi­ro pro­fon­do. Con sua sor­pre­sa si ac­cor­se di aver riac­qui­sta­to le for­ze e, no­no­stan­te i dub­bi che sen­ti­va den­tro, egli si co­strin­se ad as­su­me­re un com­por­ta­men­to che ras­so­mi­glias­se al­la nor­ma­li­tà. Nel gi­ro di die­ci mi­nu­ti, Car­lo si era del tut­to ri­pre­so: cam­mi­na­va con pas­so si­cu­ro. Giun­se vi­ci­no a ca­sa e aprì sen­za esi­ta­zio­ne la por­ta. Quan­do en­trò nel sog­gior­no, una gran­de stan­za al pian­ter­re­no ar­re­da­to con un sa­lot­to di vi­nil­pel­le, una cri­stal­lie­ra a mu­ro e qua­dri di san­ti e fo­to­gra­fie di fa­mi­lia­ri de­fun­ti, gli par­ve che tut­ti i suoi fos­se­ro ad aspet­tar­lo, pic­co­li e gran­di, con gli oc­chi pun­ta­ti su di lui con l’aria di vo­ler­lo esa­mi­na­re. Ci fu ap­pe­na il tem­po per un bre­ve sa­lu­to. La ma­dre, una don­ni­na mi­nu­ta sul­la cin­quan­ti­na, al­ta non più di un me­tro e ses­san­ta per un pe­so di cir­ca qua­ran­ta­set­te chi­li, con un abi­to ne­ro lun­go si­no ai pie­di e con uno scial­le di la­na sul­le spal­le, gli ven­ne pia­no pia­no in­con­tro.

    Ave­va tra le ma­ni il so­li­to stro­fi­nac­cio bru­ciac­chia­to dal­la fiam­ma dei for­nel­li e una espres­sio­ne in­ter­ro­ga­ti­va sul vol­to, co­me se aves­se in­tui­to il di­sa­gio del fi­glio.

    «C’è qual­co­sa nel tuo la­vo­ro che non va,» gli do­man­dò guar­dan­do­lo fis­so ne­gli oc­chi « o ti sen­ti stan­co?».

    Car­lo si fer­mò, esi­tò per un at­ti­mo, poi an­dò ver­so di lei, che si sta­va spo­stan­do col dor­so dell’os­su­ta ma­no un ciuf­fo di ca­pel­li da­gli oc­chi.

    «Mam­ma, ho avu­to una ta­le gior­na­tac­cia!» Escla­mò, ac­com­pa­gnan­do le pa­ro­le con un ge­sto del­la ma­no no­to a tut­ti noi.

    E ciò era ve­ro, pen­sò men­tre fis­sa­va il suo vi­so pal­li­do, co­me se fos­se spa­ven­ta­to, nel­lo spec­chio di una stra­na cap­pot­tie­ra, in­so­li­ta per­ché quel vec­chio mo­bi­le tar­la­to ser­vi­va a mil­le usi. Cer­cò di man­da­re fuo­ri il to­ra­ce, dal suo aspet­to si ca­pi­va be­ne quan­to fos­se sta­to ma­le. Con­si­de­rò un’inu­ti­le pan­to­mi­ma re­ci­ta­re la par­te del­lo stu­den­te-la­vo­ra­to­re che ri­tor­na a ca­sa , do­po una gior­na­ta d’in­ten­sa at­ti­vi­tà, sfo­de­ran­do il suo abi­tua­le aspet­to fi­si­co di eter­na gio­vi­nez­za. Ep­pu­re Car­lo ave­va so­lo ven­tu­no an­ni e una gran vo­glia di vi­ve­re, e ciò sen­za dub­bio po­te­va co­sti­tui­re la for­za del suo io, che do­ve­va sor­reg­ger­lo nel­la quo­ti­dia­na lot­ta con­tro ogni ti­po di ma­les­se­re.

    Spes­so non ba­sta­no le pro­prie ener­gie fi­si­che e psi­chi­che per rag­giun­ge­re tra­guar­di am­bi­zio­si, per­ché nel cam­mi­no uma­no s’in­con­tra­no adul­ti po­co di­spo­sti a da­re ad al­tri il pro­prio sa­pe­re o un con­tri­bu­to eco­no­mi­co.

    Che fa­re, smet­te­re di stu­dia­re, di lot­ta­re per una vi­ta mi­glio­re? Ri­fiu­tò l’idea, for­se per­ché la sua men­te per­ce­pì fat­ti e da­ti di­ver­si. Ri­cor­dò, in­fat­ti, che nel­le uni­ver­si­tà c’era in at­to un gran­de fer­men­to. I gio­va­ni era­no stan­chi di sen­tir­si con­si­de­ra­ti dei di­ver­si, de­gli esclu­si dai be­ni ma­te­ria­li e cul­tu­ra­li del­la so­cie­tà.

    La ma­dre lo guar­dò. Le so­prac­ci­glia si sol­le­va­ro­no in al­to:

    «Te lo ri­pe­to sem­pre lo stu­dio fi­ni­rà per am­maz­zar­ti. Il tuo cer­vel­lo non ri­po­sa mai. Dio ti aiu­ti! Fi­glio mio» dis­se in­dul­gen­te.

    «Oh, smet­ti­la, bron­to­lo­na» la in­ter­rup­pe lui, sul­la di­fen­si­va, bru­sco, ma ri­den­do. Poi, sem­pre col sor­ri­so sul­le lab­bra, si av­vi­ci­nò e la ba­ciò sul­la guan­cia.

    La ma­dre os­ser­vò una pau­sa. Dal­la stan­za ac­can­to giun­ge­va il fra­cas­so del te­le­vi­so­re. Era dif­fi­ci­le con­vin­ce­re i bam­bi­ni a unir­si agli al­tri mem­bri del­la fa­mi­glia per la so­li­ta chiac­chie­ra­ta se­ra­le. Lo­ro era­no im­pe­gna­ti a tem­po pie­no a se­gui­re le av­ven­tu­re di Brac­cio di fer­ro o le sto­rie di quei ra­gaz­zi, che fan­no tut­to quel­lo che lo­ro non pos­so­no fa­re; e ci vo­le­va tut­ta l’au­to­ri­tà ma­ter­na per por­tar­li a ta­vo­la, per la ce­na.

    Ida, che ave­va se­gui­to la sce­na, ap­pe­na tur­ba­ta, in­ter­rup­pe il tic­chet­tio dei fer­ri, ab­ban­do­nò il suo la­vo­ro a ma­glia e an­dò in­con­tro al­la ma­dre.

    «Mam­ma, non te la pren­de­re, Car­lo tan­to me­no vo­le­va of­fen­der­ti. Con pro­ba­bi­li­tà è dif­fi­ci­le com­pren­de­re il suo sta­to d’ani­mo at­tua­le, ma è uma­no che lui, co­me per me, co­me per tut­ti i gio­va­ni del mon­do, aspi­ri a una vi­ta mi­glio­re» dis­se con vo­ce cal­ma. Si co­lo­ra­ro­no lie­ve­men­te di ros­so le guan­ce.

    Car­lo la fis­sa­va con le lab­bra soc­chiu­se e gli oc­chi lu­ci­di, sen­za par­la­re, espri­men­do col si­len­zio tut­ta la sua gra­ti­tu­di­ne.

    Ida, che aiu­ta­va la ma­dre nei la­vo­ri do­me­sti­ci, quan­do non an­da­va a rac­co­glie­re le oli­ve o i ca­po­li­ni dei car­cio­fi, ave­va di­ciot­to an­ni. Era una ra­gaz­za al­ta e snel­la, sem­pli­ce ma mol­to ca­ri­na, con i ca­pel­li ne­ri, lun­ghi e sciol­ti sul­le spal­le, gli oc­chi al­la sa­ra­ce­na e un vi­so tut­to ac­qua e sa­po­ne. Ave­va fre­quen­ta­to la scuo­la dell’ob­bli­go; poi, con­se­guì il di­plo­ma di sar­ta, per il fu­tu­ro, poi­ché per il mo­men­to la­vo­ro non ce n’era. An­che lei era stan­ca del­la cam­pa­gna e dei ca­po­ra­li con i lo­ro pul­mi­ni, in cui le don­ne, sti­va­te co­me sar­di­ne, era­no con­dot­te un gior­no in que­sto cam­po e un al­tro in un or­to lon­ta­no set­te - ot­to ore di mac­chi­na, per quat­tro sol­di.

    Guai a la­men­tar­si! A par­la­re si per­de­va an­che quel mi­se­ro la­vo­ro sal­tua­rio.

    «So­no una scioc­ca vec­chia» dis­se la ma­dre asciu­gan­do­si gli oc­chi. «An­dia­mo a ta­vo­la». Si av­viò con le spal­le cur­ve e stri­scian­do le pan­to­fo­le.

    Car­lo ag­grot­tò la fron­te e os­ser­vò con at­ten­zio­ne la fi­gu­ra del­la ma­dre, che si al­lon­ta­na­va. Si me­ra­vi­gliò di non aver no­ta­to pri­ma che il tem­po e le pre­oc­cu­pa­zio­ni ave­va­no se­gna­to in mo­do ir­re­ver­si­bi­le il suo cor­po. Ave­va cre­du­to che la ma­dre non sa­reb­be mai in­vec­chia­ta; ades­so quell’im­ma­gi­ne gli ri­cor­da­va

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