Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni
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Anteprima del libro
Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni - Castrovilli Enrico
633/1941.
I
Una sera di fine novembre del 1967, alle ore 19.30, dopo un disagiato viaggio dal capoluogo, Carlo arrivò alla periferia del paese. Scese alla fermata dell’autobus e, prima d’incamminarsi per le solite vie trasandate, attese che la lunga fila delle automobili, rumoreggianti e veloci come proiettili, lasciasse libero il passaggio pedonale. Pensò «Che traffico», mentre si alzava il bavero dell’impermeabile grigio per riparare la nuca e la gola dall’umido notturno.
Da qualche anno il via vai dei traini tirati dai cavalli e dagli asini era stato sostituito da automobili di ogni cilindrata e colore. Erano tutte belle, graziose sul serio, ma care, almeno per la sua famiglia. Erano finiti i tempi per i poveri spalatori di letame dai pozzi neri delle case messi in ridicolo in tutto il paese. Oggi i carretti non lasciano più per le vie le stradine di paglia, di sterco e percolato tracciate durante la notte. A Carlo piacevano, le trovava, in verità, singolari e divertenti, anche se non era arrivato a spiegarne il senso.
Carlo era un giovane come tanti altri, forse un tantino ambizioso perché riusciva a fare ciò che a molti sembrava un traguardo impossibile. Quattro anni prima aveva lavorato come garzone in un bar per portare a casa una magra settimana e qualche mancia, dopo la morte del padre. Adesso, non navigava nell’oro, ma gli era piacevole ricordare come, da garzone, fosse diventato assistente culturale presso un collegio gestito da un ente privato; e la sua ascesa continuava. Quel posto era stato il primo gradino verso la conquista di più ambiti traguardi sociali. Fu una scelta voluta, un colpo di fortuna, un’occasione che afferrò all’istante e non se la lasciò scappare.
Non avrebbe mai dimenticato quel mattino trenta marzo del ’63, un giorno con poco sole e tanto vento, che accumulava sulle case nuvole nere cariche di pioggia e di grandine. Egli era in piedi davanti alla macchina del caffè, in attesa di clienti. Il suo sguardo si fermò sulla figura zoppicante di un giovane – mai visto prima - magro e vestito con un abito confezionato sgualcito, come se avesse dormito sotto un ponte. Poi, quello strano colloquio iniziò per caso. Carlo si meravigliò d’udire che quella figura appena visibile fosse il nuovo professore di lettere del liceo classico ubicato a poche centinaia di metri dal bar dove lavorava, che aveva superato da poco la trentina, che aiutava i ragazzi, senza alcun compenso, volenterosi ma che non avevano le possibilità economiche per frequentare le scuole superiori. Riprendere gli studi! La proposta era allettante; quell’uomo gli aveva letto negli occhi il suo desiderio occulto: non desiderava finire i suoi giorni a servizio di un bar.
Così Carlo incominciò a trascorrere le serate curvo sui libri, in compagnia del professore, in una cameretta d’una pensione a conduzione familiare, fredda d’inverno e calda d’estate. Carlo aveva preso sul serio lo studio e desiderava imparare. Grazie a quest’aiuto, Carlo conseguì la maturità liceale; poi, accettò l’offerta di lavoro di un convitto privato: voleva guadagnare di più per frequentare l’università. Il primo mese egli aveva contato nella busta paga ottanta biglietti da mille. Non erano molti, ma abbastanza da comprare i libri, la colazione di mezzogiorno non se la portava più da casa, di tanto in tanto lui si permetteva le sigarette e con il resto pagava il conto del lattaio e del droghiere. Da due anni frequentava la facoltà di lettere, e con sorpresa costatò che da qualche tempo non passava un giorno di vacanza con gli amici: mattino e pomeriggio su e giù nelle aule con i ragazzi del collegio, la notte nella sua stanza da letto in compagnia dei classici italiani e latini.
Quando l’ultima automobile passò, Carlo si avviò lentamente verso casa, con le mani in tasca e il De Officiis di Cicerone sotto il braccio sinistro. Procedeva saltellando per evitare le numerose pozzanghere, che si erano formate dopo una mattinata di pioggia. Le strade erano deserte; la maggior parte dei braccianti e degli operai era andata a dormire e, nel paese vuoto, i suoi passi risuonavano come un eco diffuso di un alito vagabondo dello scirocco tra i camini delle case addormentate. Eppure sotto quell’apparente quiete si agitavano nuovi eventi, per il momento molto rilassati, simili a polpi, che sebbene fossero stati catturati da molte ore, erano capaci di lenti ma improvvisi movimenti. In fondo alla via qualcuno aveva acceso la radio; la musica si alzava di tono via via che Carlo si avvicinava: era un motivo melodico, una canzone all’italiana. Non tirò nemmeno a indovinarla; e quando le note giunsero familiari al suo orecchio, ripeté il ritornello della canzone con aria assente. La musica lo seguì giù per la strada fino alla fontana, che era in mezzo alla piazzetta a forma di triangolo, a pochi passi da casa sua.
Appena imboccò il vertice della piccola radura, Carlo avvertì una fitta retro sternale, un dolore tremendo che mozzava il respiro. Si fermò di colpo e cercò un appoggio, temendo di cadere. Si addossò al muro e restò immobilizzato dalla paura, che contro la sua volontà, stava nascendo in lui.
Dio mio!..Nel caos della sua mente cercò un aiuto disperato. Portò per istinto la mano verso il lato sinistro del torace, come se cercasse con la pressione delle dita di mitigare il dolore, senza risultato: esso si era fatto ancora più forte, tanto che Carlo si piegò in due per il male; la mente però rimaneva lucida. Con uno sforzo psichico controllò il respiro; fu un sollievo quando sentì sibilare l’alito tra le labbra serrate dall’ansia. Adesso aveva fiato sufficiente per gridare aiuto; ma proprio allora, come per incanto, il dolore svanì. La crisi era durata pochi minuti, gli sembrò un’eternità, tanto era sfinito.
Che cosa gli stava succedendo? Che cosa erano quelle fitte che da qualche sera gli venivano con puntuale regolarità? Si chiedeva tra sé divorato dall’ansia.
Riprese a camminare. Fatti pochi passi, dovette, però, chiedere un nuovo appoggio, perché barcollava come un ubriaco. Un’improvvisa debolezza si era impossessata di tutte le sue membra. Trasse un respiro profondo. Con sua sorpresa si accorse di aver riacquistato le forze e, nonostante i dubbi che sentiva dentro, egli si costrinse ad assumere un comportamento che rassomigliasse alla normalità. Nel giro di dieci minuti, Carlo si era del tutto ripreso: camminava con passo sicuro. Giunse vicino a casa e aprì senza esitazione la porta. Quando entrò nel soggiorno, una grande stanza al pianterreno arredato con un salotto di vinilpelle, una cristalliera a muro e quadri di santi e fotografie di familiari defunti, gli parve che tutti i suoi fossero ad aspettarlo, piccoli e grandi, con gli occhi puntati su di lui con l’aria di volerlo esaminare. Ci fu appena il tempo per un breve saluto. La madre, una donnina minuta sulla cinquantina, alta non più di un metro e sessanta per un peso di circa quarantasette chili, con un abito nero lungo sino ai piedi e con uno scialle di lana sulle spalle, gli venne piano piano incontro.
Aveva tra le mani il solito strofinaccio bruciacchiato dalla fiamma dei fornelli e una espressione interrogativa sul volto, come se avesse intuito il disagio del figlio.
«C’è qualcosa nel tuo lavoro che non va,» gli domandò guardandolo fisso negli occhi « o ti senti stanco?».
Carlo si fermò, esitò per un attimo, poi andò verso di lei, che si stava spostando col dorso dell’ossuta mano un ciuffo di capelli dagli occhi.
«Mamma, ho avuto una tale giornataccia!» Esclamò, accompagnando le parole con un gesto della mano noto a tutti noi.
E ciò era vero, pensò mentre fissava il suo viso pallido, come se fosse spaventato, nello specchio di una strana cappottiera, insolita perché quel vecchio mobile tarlato serviva a mille usi. Cercò di mandare fuori il torace, dal suo aspetto si capiva bene quanto fosse stato male. Considerò un’inutile pantomima recitare la parte dello studente-lavoratore che ritorna a casa , dopo una giornata d’intensa attività, sfoderando il suo abituale aspetto fisico di eterna giovinezza. Eppure Carlo aveva solo ventuno anni e una gran voglia di vivere, e ciò senza dubbio poteva costituire la forza del suo io, che doveva sorreggerlo nella quotidiana lotta contro ogni tipo di malessere.
Spesso non bastano le proprie energie fisiche e psichiche per raggiungere traguardi ambiziosi, perché nel cammino umano s’incontrano adulti poco disposti a dare ad altri il proprio sapere o un contributo economico.
Che fare, smettere di studiare, di lottare per una vita migliore? Rifiutò l’idea, forse perché la sua mente percepì fatti e dati diversi. Ricordò, infatti, che nelle università c’era in atto un grande fermento. I giovani erano stanchi di sentirsi considerati dei diversi, degli esclusi dai beni materiali e culturali della società.
La madre lo guardò. Le sopracciglia si sollevarono in alto:
«Te lo ripeto sempre lo studio finirà per ammazzarti. Il tuo cervello non riposa mai. Dio ti aiuti! Figlio mio» disse indulgente.
«Oh, smettila, brontolona» la interruppe lui, sulla difensiva, brusco, ma ridendo. Poi, sempre col sorriso sulle labbra, si avvicinò e la baciò sulla guancia.
La madre osservò una pausa. Dalla stanza accanto giungeva il fracasso del televisore. Era difficile convincere i bambini a unirsi agli altri membri della famiglia per la solita chiacchierata serale. Loro erano impegnati a tempo pieno a seguire le avventure di Braccio di ferro
o le storie di quei ragazzi, che fanno tutto quello che loro non possono fare; e ci voleva tutta l’autorità materna per portarli a tavola, per la cena.
Ida, che aveva seguito la scena, appena turbata, interruppe il ticchettio dei ferri, abbandonò il suo lavoro a maglia e andò incontro alla madre.
«Mamma, non te la prendere, Carlo tanto meno voleva offenderti. Con probabilità è difficile comprendere il suo stato d’animo attuale, ma è umano che lui, come per me, come per tutti i giovani del mondo, aspiri a una vita migliore» disse con voce calma. Si colorarono lievemente di rosso le guance.
Carlo la fissava con le labbra socchiuse e gli occhi lucidi, senza parlare, esprimendo col silenzio tutta la sua gratitudine.
Ida, che aiutava la madre nei lavori domestici, quando non andava a raccogliere le olive o i capolini dei carciofi, aveva diciotto anni. Era una ragazza alta e snella, semplice ma molto carina, con i capelli neri, lunghi e sciolti sulle spalle, gli occhi alla saracena e un viso tutto acqua e sapone. Aveva frequentato la scuola dell’obbligo; poi, conseguì il diploma di sarta, per il futuro, poiché per il momento lavoro non ce n’era. Anche lei era stanca della campagna e dei caporali con i loro pulmini, in cui le donne, stivate come sardine, erano condotte un giorno in questo campo e un altro in un orto lontano sette - otto ore di macchina, per quattro soldi.
Guai a lamentarsi! A parlare si perdeva anche quel misero lavoro saltuario.
«Sono una sciocca vecchia» disse la madre asciugandosi gli occhi. «Andiamo a tavola». Si avviò con le spalle curve e strisciando le pantofole.
Carlo aggrottò la fronte e osservò con attenzione la figura della madre, che si allontanava. Si meravigliò di non aver notato prima che il tempo e le preoccupazioni avevano segnato in modo irreversibile il suo corpo. Aveva creduto che la madre non sarebbe mai invecchiata; adesso quell’immagine gli ricordava