Donne da macello
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Anteprima del libro
Donne da macello - Fernanda García Lao
Table of Contents
Fernanda García Lao - Donne da macello
Fernanda García Lao Donne da macello
Immunizzare
Le M
Affermative
Progetto Vaccino
Capsule di carne
Sedurre o ridurre
L’altro Cifuentes
Femmine per la Patria
Libagione
Leucociti
Ardore cosciente
Repubblica Vaccina
Mattatoio
Pura ripetizione
Limbo
Cabo Raso
Coiti programmati
Liberazione e castigo
Rimandi espliciti e impliciti di un romanzo dirompente
Profilo biografico
Note
Fernanda García Lao - Donne da macello
titolo originale: Nación Vacuna
traduzione dallo spagnolo di Diego Símini
Opera pubblicata nell’ambito del Programma Sur
di supporto alle traduzioni del Ministero degli Affari Esteri, del Commercio Internazionale e del Culto della Repubblica Argentina
Obra editada en el marco del Programa Sur
de Apoyo a las Traducciones del Ministerio de Relaciones Exteriores, Comercio Internacional y Culto de la República Argentina
Prima edizione | Nación Vacuna / Fernanda García Lao. Ciudad Autónoma de Buenos Aires : Emecé, 2017
© Fernanda García Lao
c/o Schavelzon Graham Agencia Literaria
www.schavelzongraham.com
Musicaos Editore, 2020
Via Arc. Roberto Napoli, 82 | 73040 Neviano (Le)
tel. 0836618232 | info@musicaos.it | www.musicaos.org
Musicaos Editore
Marzo 2020 | Vela Latina, 2
Foto Robin Frejd
Progetto grafico | Bookground
Isbn 9788894966763
Isbn ebook 9788894966787
Fernanda García Lao Donne da macello
a cura di Diego Símini
"Patria, assurdo"
Thomas Bernhard, La montagna
Immunizzare
La macelleria di papà la notte era vuota. Di giorno diversi tipi di carne erano esposti sul bancone. Filetto, quarto posteriore, macinato. Una moltitudine tagliata e disposta con cura. La morte dondolava come un gatto sulla corda. Scorreva il sangue e bisognava pulire. Candeggina contro l’odore viziato che persiste. Che interferisce con la respirazione e invade i nodi del mio sistema. Distanziare. Come se fosse una parete.
Per anni ho avuto il compito di affilare i coltelli prima dell’alba. In cambio, papà mi pagava i corsi di amministrazione.
Il primo uccello annunciava il lavoro. Grembiule e mola da affilare. Uno dopo l’altro passavano tutti: quelli da taglio, quelli per disossare, quelli per il pollo, quelli per pelare i maiali. Una fila demenziale, dai manici igienici, ordinata per dimensioni. Dopo, sistemare il prezzemolo. Finto, come me. Il prezzemolo naturale non va bene, appassisce subito, accusa la putrefazione.
Quarti di bue nauseabondi, la crosta viola sul collo del trasportatore. L’odore sanguinolento persiste tutta la giornata. Prendevo i miei appunti ed entravo nel mondo prima delle otto. Ma mi portavo addosso l’attività macabra, da tutte le parti. Ogni numero mi suggeriva una morte. Fortunatamente presi il diploma e non dovetti più tornare. Un terziario è esperto di nulla, un collezionista di segnali. L’amministrativo è tra i peggiori. Siamo gente insulsa.
Ora che sono impiegato, la mano destra mi fa male a furia di manipolare coscienze e carte. Dopo aver riempito mille moduli, non la sento più. Penso alla mia estremità superiore come a un pezzo di muscolo appeso. La ripetizione mi lascia in questo stato di indifferenza. La giornata di ieri, per esempio. Una sfilata di braccia nude. Mi sono messo accanto all’infermiere. Io facevo le domande. Lui cercava la vena, l’odore. La paura è acre.
Veder scorrere il vaccino scuro lungo il tubo di plastica mi ha ricordato papà. Anche se è una questione delicata, distrae mentre avviene. Il colpetto sulla pelle e l’alcol diventano uno spettacolo vacuo. Il naso diventa cieco, si anestetizza il mondo. È come fare salsicce.
Da quando abbiamo vinto la guerra, tutto si è deteriorato. La città si è riempita di impiegati, il cielo sembra diverso. La Giunta che ha preso il potere si è insediata qui, a Rawson. Sono un terzetto di civili, non ci sono più militari di rango a terra. Professionisti. Un Ginecologo, un Ingegnere e un Commissario. La Giunta lavora in diverse direzioni, trasmette il suo mediocre programma con fare marziale. Ma le manca lo spazio. Corpi e Cause si contendono lo stesso edificio.
Chiudo gli occhi, mi tolgo gli occhiali abbacinati da quelle braccia: ritagli di donna. Le donne qui arrivano frammentate. Non riesco a vedere un corpo intero. Un gluteo, un braccio. Piccoli indizi di carne. Mai la nudità completa, l’abbandono. Mi tengo quell’immagine pungente, lo scintillio dell’ago. L’ematoma è come un’orma di fango sulla pelle.
Ogni vaccinata sarà oggetto di un’analisi oculare e di un test, secondo il Modello di cure di Virginia Henderson. Bisogna fare le quattordici domande basilari. Ma mi fa paura l’esame, non mi piacciono le risposte. Preferisco non essere contraddetto. La testa degli altri è un coagulo tetro.
Riempire moduli a macchina, che lavoro infinito. Ricordo i primi giorni. Il fascino della tastiera. Ogni lettera uno schiaffo. L’inchiostro è un fluido d’ebano sulla pagina immacolata. Non importa il contenuto, il lavoro scaccia il fischio dal petto. Batte la morte. Il colpo secco sulla lettera annulla la famiglia, la patria, la coscienza.
Visti i risultati, sarà necessario operare una selezione. Cercare bisogni alterati o a rischio di alterarsi. Abbiamo poco margine. Siamo impazienti. Ci impongono di offendere il tempo. Di lavorare contro di esso. La Giunta è nervosa, lo Stato è effimero. Nasce e si sta già sgretolando.
Dolore alle giunture. Sognare il nastro della macchina da scrivere e la carta, perfino da sveglio. Le lettere hanno il corpo ma non si toccano. Rimangono paralizzate, s’inventano un punto focale. Fanno ogni volta una fila diversa per causare parola. Si alleano, cambiano posizione. Sono vergini dalla carne scura. Un esercito sparpagliato in piena battaglia, che si arruola per dire. Sminetra non è la stessa cosa di Minestra. Cambiare posto, un Kama Sutra del linguaggio.
Gli infermieri consegnano relazioni scritte a matita che non leggo. Sono piene di errori di ortografia: s’offre d’insonnia. Ritensione dell’urina.
Delle vaccinate, nessuna ottiene Quattordici sì. Quella che non dorme adeguatamente ha la temperatura alta. Quella che partecipa ad attività ricreative non si lava. La perfezione non esiste. Regna l’asimmetria, la zoppìa. Controllo le risposte erratiche delle femmine in osservazione con una smorfia d’angoscia. Non mi interessa ciò che faccio. Il mondo mi disgusta da parecchio. Voglio correre. Ma non faccio mai quello che voglio.
La macchina del caffè è guasta. Rimango in piedi accanto alle tazze vuote. Nel cortile interno ci sono avvocati che fumano. Hanno le dita sudicie a forza di sfogliare pratiche e di ingoiare fumo. Gente nera, allora. Con altro inchiostro. Condividere la sede finirà per renderci uguali.
Torno alle mie attività. Donne senza storia passano dalle mie domande, che si succedono come sfilze di insaccati. Stufo di divagazioni, metto un sì generale. La domanda numero sei mi fa vergognare. Se sono costrette a indossare la stessa camicia e un’identica gonna, che bisogno c’è di ricordarglielo. Decido di evitarla. La coerenza ha perso significato in questo lembo di mondo. Invento le risposte. Consegno i formulari e mi ritiro. Sono un disadattato.
Decido di non andare a mensa. Preferisco camminare un po’. La città è muta a quest’ora. Solo una pioggia leggera. Arrivo a una fermata del bus. Al mio fianco un uomo cicciottello e sua figlia guardano avanti, assenti. Occupano l’intera panchina. Rimango da una parte e osservo. La bimba ha la pelle delicata ma la sua struttura ossea è robusta. E tossisce. Sembra un cane, una combinazione da fare spavento. Guardarla fa paura. Scuote i capelli lisci e opachi come se volesse toglierseli di dosso. Un autobus si avvicina mordendo il marciapiede. La bimba smuove il papà. Si alzano pigramente. Lei cerca le monete e mi butta uno sguardo aspro. Lo sento, ha odorato la paura che mi suscita. Salgono e si chiude la porta. I suoi occhi si inchiodano sul finestrino. Non me li toglie di dosso, scivolano via finché non diventano piccoli e poi non si distinguono più. Ho bisogno di piangere.
Il giorno scorre veloce trascinato dal vento finché non si ferma e mi guarda. Tremano le finestre e l’ululato esterno sembra una frusta. La furia si scontra sui telai. Quella perturbazione intensifica il mio malessere. La nebbia ci rende invisibili. Il cielo è un ventre al rovescio, con le mammelle verso l’interno. Ogni istante genera un mostro. Me, per esempio.
A volte cammino fino al vecchio ponte. Gli altri bevono e ridono in gruppo. Gli avvocati con le procuratrici, le infermiere con i clinici. La bava degli uni sulle lingue delle altre.
Di notte, davanti al fiume Chubut, quella macchina spaventosa che si muove da sola, orino. E mi diverto a immaginare il getto pallido che matura a colori nella penombra spessa. Qualcosa di me si suicida nel fiume. I miei resti vanno in mare.
Oggi, una vaccinata morta. È stata portata via dalla porta sul retro. Era arrivata in barella. Spina, la nuova, aveva trascinato il corpo senza rendersi conto del suo stato. L’ha lasciata davanti a me e se n’è andata. Le ho parlato un momento e ne ho ricavato solo silenzio. La tipa era entrata nella sua eternità chissà da quanto tempo. Qui nessuno ha una bella cera, la clausura ci fa sfigurare. Le ho parlato di me, fuori dal protocollo. Sono duro, ho detto. A volte oscillo, sembro un’intenzione di persona, posso desiderare il mio finale. Non condivido tendenze con nessuno. Tutto per farla reagire, per colpire il suo senso comune. Niente. La morte distrugge ogni sorpresa lirica. Livella nell’idiozia. La defunta taceva, ma sembrava capire. Mi sono sentito libero perché non mi ha fatto domande. Alla fine della confessione della mia assoluta miseria, mi è venuto in mente di guardarla. La maschera del suo volto era inerte, neanche un pizzico di calore, labbra senza esistenza, carne in disgregazione. Un grigio verdognolo le stava invadendo il collo e scivolava al rallentatore verso il torso. Non ho potuto toccarla, ma ho capito subito che avevo parlato da solo. Non ho nemmeno saputo come si chiamava. Ho archiviato la pratica. Un no alla domanda Respira?
annulla il resto del modulo. Mi sono lavato le mani con cura.
Le M
Da due anni abbiamo le M, ma abbiamo perso la difesa, il controllo dei corpi. Il nemico, prima di arrendersi strategicamente, aveva avvelenato segretamente le acque, spargendo il nostro combustibile fino all’ultima goccia.
Il nostro stato maggiore si era trasferito al completo per la celebrazione, ignaro della manovra sporca. Nessuno voleva mancare sulla foto della presunta vittoria. Dall’altra parte, nemmeno un ufficiale. Gli avversari, quei falsi galantuomini, ammainarono la