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La storia insegna
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E-book146 pagine1 ora

La storia insegna

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Info su questo ebook

Con “La storia insegna…….” sia in forma cartacea che Audiolibro, l’autore si cimenta con una raccolta di poesie, racconti brevi, fiabe eccentriche e pensieri unici, ponendosi domande e cercando soluzioni, com’è nella natura dell’uomo in generale. Un viaggio nel tempo coinvolgendo non solo le persone umane ma anche animali ed altre creature di Madre Natura. Pietro è una persona positiva, guarda con ottimismo al futuro, persino durante la disarmonica stagione del presente. Pazienza e ragionevolezza sono per l’autore le migliori qualità per affrontare la vita, con le sue insidie e bellezze. In Pietro vince sempre il bene, non si avvilisce davanti al male. Conoscere la storia dei libri di scuola è un dovere, provare a guardarla con occhi sempre nuovi e curiosi è ciò che fa la differenza tra chi impara e dimentica e chi ne fa tesoro per la vita. Un autore d’altri tempi, al passo coi tempi.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2020
ISBN9788831666800
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    Anteprima del libro

    La storia insegna - Pietro Sgambati

    Prefazione

    a cu­ra di Do­ra Pe­lul­lo

    Por­si do­man­de è nel­la na­tu­ra dell’uo­mo; cer­ca­re so­lu­zio­ni, poi, è la qua­li­tà di chi non si ac­con­ten­ta e vuo­le di più. Pie­tro è tut­to ciò.

    Co­min­cia con un toc­co di leg­ge­rez­za: de­scri­ve com­pa­gni di vi­ta, pez­zi di un per­cor­so im­por­tan­te, de­di­can­do lo­ro poe­sie ni­ti­de, lea­li e lim­pi­di co­me i lo­ro rap­por­ti. Si la­scia ispi­ra­re dal pas­sa­to e dal pre­sen­te, de­ci­den­do di non la­scia­re nul­la al ca­so, nel­la fer­ma con­vin­zio­ne che sia im­por­tan­te la­sciar trac­cia di mo­men­ti e per­so­ne che, toc­can­do­ti, ine­vi­ta­bil­men­te ti cam­bia­no.

    Si ser­ve, poi, di rac­con­ti bre­vi, dol­ci fia­be e fan­ta­sti­che sto­rie per di­re la sua al mon­do.

    Viag­gia nel tem­po e la­scia par­la­re uo­mi­ni di ogni ran­go, fan­ciul­le di tut­te le età e ad­di­rit­tu­ra straor­di­na­ri ani­ma­li che vo­glio­no ri­cor­dar­ci che sia­mo più si­mi­li di quan­to cre­dia­mo, noi, es­se­ri di tut­te le spe­cie. Rac­con­ta il ri­spet­to mai scon­ta­to, la leal­tà di­men­ti­ca­ta, il ma­le gra­tui­to e in­spie­ga­to, ma fa sem­pre vin­ce­re il be­ne, la pa­zien­za di chi at­ten­de e cre­de che chi me­ri­ta, al­la fi­ne avrà.

    Rac­con­ta nel­la con­sa­pe­vo­lez­za che la sto­ria in­se­gna, se la si sta ad ascol­ta­re. E al­lo­ra, da par­te sua, pro­po­ne so­lu­zio­ni a pro­ble­ma­ti­che di in­te­res­se co­mu­ne, spa­zian­do dal­la Chie­sa al­la po­li­ti­ca, dal­la fe­de ge­nui­na, che è di tut­ti – cre­den­ti e non – al ma­le di tut­ti, i po­ten­ti di tur­no.

    Pie­tro ama la vi­ta in ogni suo aspet­to, cre­de fer­ma­men­te nel­la giu­sti­zia, nell’ami­ci­zia che su­pe­ra tem­po e di­stan­za, nell’amo­re ol­tre gli osta­co­li. Tra­su­da va­lo­ri in ogni sua ri­ga.

    Co­no­sce­re la sto­ria dei li­bri di scuo­la è un do­ve­re, pro­va­re a guar­dar­la con oc­chi sem­pre nuo­vi e cu­rio­si è ciò che fa la dif­fe­ren­za tra chi im­pa­ra e di­men­ti­ca e chi ne fa te­so­ro per la vi­ta.

    Pie­tro: un au­to­re d’al­tri tem­pi, al pas­so coi tem­pi.

    Da lui non si può che im­pa­ra­re.

    Do­ra Pe­lul­lo

    Au­tri­ce di Se so­lo aves­si co­rag­gio

    Lau­rean­da in Scien­ze e tec­ni­che psi­co­lo­gi­che

    PRIMA PARTE

    Poesie

    A Mio Padre

    Un ge­ni­to­re so­ven­te si do­man­da

    se ab­ba­stan­za fe­ce per i suoi ca­ri,

    un fi­glio: te­me non fu suf­fi­cien­te

    quan­to per lui s’è ado­pe­ra­to;

    ed in tal di­lem­ma, per­pe­tuo,

    si strug­ge e si dis­sol­ve l’ani­mo.

    Il tem­po con­ti­nua la sua mar­cia

    co­stan­te, for­se len­ta ma ine­so­ra­bi­le,

    la­scian­do die­tro or­me in­de­le­bi­li:

    ama­rez­ze e fe­li­ci­tà, spe­ran­ze e

    tre­pi­da­zio­ni, ap­pa­ga­men­ti ed il­lu­sio­ni;

    non sen­ten­zia, non con­si­glia, do­cu­men­ta.

    Il can­to del gal­lo, il ver­de dei pra­ti,

    l’eco del­la mon­ta­gna ed il cin­guet­tio dei

    pas­se­ri, il sof­fo­ca­to mor­mo­rio del ru­scel­lo

    a val­le, le fon­ta­ne dal­le ac­que sa­lu­ta­ri,

    le dia­tri­be elet­to­ra­li del­la bor­ga­ta,

    stan­no a si­gni­fi­car che la vi­ta va avan­ti!

    Men­tre il tuo cor­po si la­ce­ra e si tra­sfor­ma

    la tua ani­ma ve­glia sul lo­co che tan­to ama­sti

    co­stret­to a la­sciar­lo ma che mai ab­ban­do­na­sti

    la tua vi­ta fu un in­vi­to al­la sem­pli­ci­tà,

    al ri­spet­to del­la na­tu­ra e del di­vi­no,

    sen­za ri­nun­ciar mai al­le tue vel­lei­tà.

    Quel­la ter­ra che in­stan­ca­bil­men­te cu­ra­sti,

    ades­so pro­teg­ge le tue spo­glie stan­che;

    il tuo vi­so ret­to, cal­mo e an­co­ra in­tat­to,

    te­sti­mo­nia che la mor­te non t’ha di­sfat­to,

    e lo­da­to, per l’in­fi­ni­tà del crea­to,

    a Dio rac­co­man­di que­sta in­gra­ta uma­ni­tà.

    Il Giardino

    La mat­ti­na, ap­pe­na de­sto e sce­so dal let­to

    al ba­gno va­do e pri­ma di fa­re il con­sue­to ge­sto,

    apro la fi­ne­stra e mi­ro con en­tu­sia­smo

    il mio giar­di­no che mi sa­lu­ta soa­ve,

    e qua­si vo­les­se par­lar­mi e sus­sur­rar­mi

    mi man­da tut­ta lim­pi­da e pu­ra una boc­ca­ta d’aria.

    E gi­ro il ca­po a de­stra e a man­ca.

    E gli oc­chi si po­sa­no tut­to bea­ti,

    sul­la vi­te, sul li­mo­ne, sui fio­ri e pra­to

    co­me l’ar­ti­sta che pron­to a di­pin­ge­re il qua­dro

    nul­la sfug­ge, ogni det­ta­glio re­sta vi­vo

    af­fin­ché la men­te ed il pen­nel­lo lo scol­pi­sce.

    Più non pos­so aspet­ta­re an­zi de­vo far­lo;

    poi, do­po un’oc­chia­ta ai par­go­let­ti ca­ri,

    m’as­si­cu­ro d’aver in­dos­so pan­ni e cal­ze

    e giù per le fer­ro­se sca­le cau­to va­do

    per non ca­scar e rom­per­mi le co­sta­te

    com’av­ven­ne qual­che tem­po fa.

    Tal­vol­ta un leg­ge­ro e be­ne­vo­le ven­to,

    lun­go e di tra­ver­so, co­me vo­les­se ac­ca­rez­zar,

    gio­ca tra le pian­te, i fio­ri ed il pra­to;

    men­tre i pas­se­ri cin­guet­ta­no al­le­gra­men­te

    e si as­so­cia­no al­la na­tu­ra, in­vi­ta­no me me­de­si­mo

    a can­tar con gau­dio le me­ra­vi­glie del crea­to.

    Nel mon­do sì fu­ne­sto, sem­pre più scia­gu­ra­to

    ve­ni­te a guar­dar, com’è bel­lo e na­tu­ra­le,

    l’in­can­to che d’ogni par­te ema­na.

    L’ani­mo ri­flet­te e s’ac­cor­ge d’es­ser svia­to,

    sui pas­si fal­si e pseu­do fe­li­ci­tà, si pro­met­te

    di non ri­tor­nar; usar la ra­gion che tan­to va­le.

    A Mia Figlia

    E tut­to d’un trat­to, qua­si per ca­so, in re­mo­to pas­sa­to,

    tu, di­let­ta mia, or­mai sta­vi per ar­ri­var.

    In­cer­ti e ti­tu­ban­ti, ci met­tem­mo a sfo­gliar

    la mar­ghe­ri­ta: dol­ce fior di pra­to.

    Eri in ag­gua­to! De­ci­sa, pron­ta a scat­tar

    per di­re a tut­ti: Ec­co­mi qua!

    Un no­me ci in­ge­gnam­mo a cer­car

    che non fos­se ar­cai­co, an­zi bel­lo e at­tua­le.

    In­cer­ti del­la tua iden­ti­tà, si­cu­ri del tuo ar­ri­vo,

    ora senz'al­tro de­si­de­ra­ta; un tre­mi­to

    le mem­bra no­stre per­cos­se, al pen­sie­ro

    che un fio­re a re­ci­der sta­va­mo.

    Pri­ma che la mi­te sta­gio­ne s’af­fac­cias­se,

    po­chi pre­am­bo­li, dol­ce­men­te sboc­cia­sti.

    Era sa­ba­to. Set­te mar­zo, po­che do­glie,

    al mon­do gri­da­sti: Ec­co­mi qua!

    Son Ros­sel­la e non Ivan,

    nes­sun dub­bio sull’iden­ti­tà.

    Il dì del­la re­den­zio­ne, lo squil­la­re del­le cam­pa­ne,

    la pri­ma­ve­ra ben ar­ri­va­ta e gli ala­ti svo­laz­zar,

    in chie­sa con splen­den­ti fio­ri ador­na­ta, fo­sti por­ta­ta,

    a ri­ce­ve­re la pri­ma ac­qua san­ta.

    La spo­sa col ve­lo bian­co ti sa­lu­tò,

    a Dio en­tram­bi ren­de­ste omag­gio.

    Ros­sel­la, pro­nun­ciò an­che il pre­te,

    in­sie­me al­la ma­dri­na ne­ga­ste il ma­le,

    ac­cet­ta­ste il be­ne. Un an­ge­lo dal Cie­lo

    ti sor­ri­se, ti sa­reb­be sta­to sem­pre ac­can­to.

    A se­ra fo­sti fe­steg­gia­ta, con suo­ni e can­ti.

    Dall’al­to la non­na si com­piac­que.

    A Mio Fratello Mario

    Eri per no­stro pa­dre, ciò

    che Giu­sep­pe fu per Gia­cob­be:

    se­gui­vi le or­me di Pel­le­gri­no,

    quan­do dis­so­da­vi il ter­re­no;

    se­mi­na­vi, pian­ta­vi, rac­co­glie­vi.

    Ti sol­laz­za­vi nell’ara­re la cam­pa­gna,

    mon­dar­la dal­la gra­mi­gna,

    per do­nar­la con al­tre ster­pa­glie,

    bul­bi adi­po­si, al mi­nu­to be­stia­me.

    Ti se­gui­va Pa­lum­bo, il ca­ne t’ado­ra­va.

    Le don­zel­le ti man­gia­va­no co­gli oc­chi.

    La cam­pa­gna che ama­vi più di lo­ro,

    a se­ra, d’in­ver­no, quan­do rin­ca­sam­mo

    dal Co­los­seo do­po il film di cap­pa e spa­da

    di­vo­ra­va­mo sal­sic­ce e pa­ta­te, al fo­co­la­re.

    Un me­sto gior­no, se­gui­sti, tuo mal­gra­do,

    il cam­mi­no di tri­sti e spe­ran­zo­si pae­sa­ni.

    Ti fu sol­lie­vo, nel­la Ter­ra dei Fran­chi,

    nell’al­to Re­no, Pel­le­gri­no tro­va­sti.

    Per­ce­pi­vi la mam­ma e la vo­ce di pa­pà.

    Lì, la cam­pa­gna se­gui­ta­sti ad ap­prez­zar,

    sde­gna­sti fab­bri­ca e mi­glior sa­la­rio, 

    cu­ra­re bo­schi, con pian­te e fio­ri ab­bel­li­re

    all’or­di­ne del sin­da­co, la cit­tà di Bru­ma­th.

    Ti ral­le­gra­vi; pen­sa­vi sem­pre a pa­pà.

    Ti in­na­mo­ra­sti; un’Al­sa­zia­na por­ta­sti

    all’Al­tar. E le pae­sa­ne co­ster­na­te.

    Ti ave­va­no at­te­so, an­sio­se, in­va­no.

    Una vil­la eri­ge­sti qua­si con le tue so­le ma­ni.

    Tra i Fran­chi, Ter­ra ami­ca, gia­ci.

    Sotto il Pergolato

    Sot­to la tet­to­ia, in­nan­zi al­la ca­sa di cam­pa­gna,

    la mam­ma, il pran­zo per i brac­cian­ti, pre­pa­ra­va;

    a mez­zo­gior­no, ad un ta­vo­lo di le­gna, adu­na­ti,

    su sga­bel­li, pa­nie­ri e spor­te ro­ve­scia­ti,

    il so­spi­ra­to pa­sto si con­su­ma­va.

    A me pia­ce­va, col con­sen­so del­la mam­ma,

    con lo­ro, nel­la bel­la sta­gio­ne a pran­zar.

    Zio Vin­cen­zo, due e tre piat­ti di pa­sta,

    spe­cie con fa­gio­li era ca­pa­ce di in­gur­gi­tar;

    ri­fo­cil­la­va più de­gli al­tri, al­tret­tan­to abi­le

    a zap­par e dis­so­dar, ti­ra­va pa­dro­ne e brac­cian­ti,

    in ogni an­go­lo del cam­po.

    Ed io, le sue ru­ghe non po­te­vo con­tar,

    no­ta­vo il suo vol­to, ve­ge­to e chia­ro.

    Del fon­do i brac­cian­ti, ri­sto­ra­ti, nei din­tor­ni

    si spar­ge­va­no, su un gia­ci­glio a ri­po­sar.

    Il sag­gio, ac­can­to a me pia­ce­va re­star,

    e sto­riel­le av­vin­cen­ti, so­le­va ri­por­ta­re,

    d’an­ti­co tem­po, sot­to il ver­de per­go­la­to.

    Al­lo­ra, cu­rio­so, con oc­chi di­la­ta­ti, 

    resta­vo al­let­ta­to dal suo rac­con­tar. 

    In al­to, per di­strar­mi so­le­vo mi­rar,

    di chic­chi acer­bi, sa­tu­ri e pen­den­ti,

    di fron­de gron­dan­ti il per­go­la­to,

    ri­go­glio­so, d’uva mae­sto­sa la rac­col­ta 

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