Racconti di vita e di morte
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Anteprima del libro
Racconti di vita e di morte - Claudio Cajati
633/1941.
L’importanza delle mani
Quando si nasce si presenta sempre qualche tratto caratteristico: rassomiglianza con uno dei genitori, o con nessuno di loro; corpicino piccolo, magari settimino, o corpo gigantesco e pesante; completa calvizie o già una florida capigliatura; pelle chiara o abbronzata, come se si fosse stati esposti a lungo al sole; finezza o grossolanità di lineamenti. E così via.
Quando nacqui io, Carlo Mannone, mi feci notare subito per le mani enormi. Altro che quelle manine graziose che hanno i neonati!
I miei genitori rimasero esterrefatti, non credevano ai loro occhi. Subito si guardarono le loro mani: erano normalissime, come lo erano, a loro volta, quelle dei loro genitori. Non capivano. Ma non c’era niente da capire. C’era solo da agire.
Primo impulso dei miei genitori e dei miei nonni fu di non far vedere le mie mani da nessuno, soprattutto da parenti, amici e conoscenti. Ma la notizia della mia nascita si era ormai diffusa, non si potevano certo rifiutare le visite.
Così, mentre mio padre si lambiccava il cervello sul da farsi, mia madre che è un tipo pronto e fulmineo, in un istante trovò la soluzione: mi coprì nella culla con un plaid così che non mi si vedessero le mani gigantesche, per quanto io potessi agitarle. Era già primavera avanzata e qualcuno dei visitatori osservò che così, con questo plaid addosso, il piccolo Carlo sarebbe morto di caldo. Mia madre ribattè subito che io ero molto freddoloso, e questa bugia, poco convincente, stoppò comunque le perplessità.
Ma il rimedio del plaid non poteva durare a lungo. Ero destinato a uscire dalla culla ed esibire senza difese la mia anomalia.
Mio padre pensò che bisognava tentare un rimedio radicale. Patito di medicina e chirurgia, si mise a studiare accanitamente su Internet quale potesse essere la soluzione. Ma non trovò niente che facesse al caso. Allora cominciò a fantasticare su quale mestiere avrei potuto fare con quelle mani: il buttafuori? Il vigile urbano? Il prestigiatore? O il pugile?
Mia madre, che invece è concreta e propensa a trasformare gli inconvenienti in opportunità, decise che nella mia condizione ero adatto a fare il pianista. Perciò mi affidò ad una mia zia, esperta maestra di piano.
Non furono anni facili. Non basta avere una buona insegnante e avere mani grandi per diventare un bravo pianista. Molte sono le abilità che bisogna acquisire con un costante e lungo esercizio. Ed occorre che l’entusiasmo, la passione, siano più forti della fatica, della scarsità dei risultati, dei rimproveri. Io ero convinto della bontà della scelta di mia madre: il mio destino era proprio fare il pianista. E così ce la misi tutta. Dopo anni e anni di tenace studio diventai un discreto pianista. E cominciai a provare l’impatto con il pubblico esibendomi in festicciole familiari o fra amici.
Il mondo però è cattivo. Le mie mani attiravano ogni genere di facili ironie, di rabbiosa cattiveria. A scuola mi prendevano in giro: Ma per caso sei figlio di Gianni Morandi, o proprio di uno scimmione? E tuo padre lo sa che è cornuto?
. Il mio cognome, Mannone, a causa delle mie mani venne subito mutato in Manone. E allora io incassavo, incassavo. Poi ad un certo punto non ce la facevo più: picchiavo quelli che mi offendevano e si prendevano gioco di me dandogli delle terribili manate con cui li facevo sbattere perfino per terra.
Da discreto pianista volevo arrivare ad essere concertista. La mia ambizione era alta, e la condividevo con mia madre (mio padre invece rimaneva perplesso). Andai perciò al Conservatorio a perfezionarmi. Sapevo quanto gli insegnanti fossero esigenti, e come l’ambiente fosse improntato alla severità e al perfezionismo. Ma la loro accoglienza fu stupenda: entusiasti quando videro le mie mani, mi diedero affettuose pacche sulle spalle e mi insegnarono quanto dovevo imparare con un occhio di riguardo. Anche loro mi chiamavano Manone e non Mannone, ma era detto con un tono scherzoso e complice.
Non nego che fu comunque dura. Ci furono momenti di delusione e di sconforto in cui arrivai a pensare di rinunciare. Ma, con il sostegno unanime degli insegnanti e quello costante di mia madre, alla fine ce la feci. Mi potevo infine definire un concertista!
Vinsi un concorso per giovani promesse. E cominciai a tenere concerti in tutta Italia. Poi in Europa. Avevo successo perché ero bravo a suonare, ma attiravo il pubblico soprattutto per le mie mani smisurate. Nelle molte foto che mi scattavano, nei molti video che mi dedicavano, io salutavo esibendole spavaldo.
Alle ragazze facevo impressione, erano spaventate o intimidite. Ma una di loro, attratta piuttosto che respinta dall’enormità delle mie mani, accettò di fidanzarsi con me. Dopo pochi mesi ci sposammo. E un anno dopo avemmo un figlio. Io temevo che potesse ereditare la grandezza delle mie mani (avrebbe fatto anche lui il pianista?). E invece no. Le sue mani erano normalissime. Io gliele carezzavo e baciavo teneramente.
Una mattina però, all’improvviso, il disastro. Quando l’assurdo, il mistero inspiegabile diventa realtà: mi svegliai con le mani rimpicciolite, più piccole perfino di quelle normali! Non capivo come potesse essere accaduto, ma era accaduto. Cercai all’inizio di nasconderle, prima di tutto a mia moglie e a mio figlio. Ma invano, naturalmente.
Dovetti annullare, con la prima scusa che mi venne a mente – un fortissimo raffreddore - il concerto che avrei dovuto tenere a giorni.
Poi cercai di rimediare. Cercai un aiuto qualificato. Ricorsi a un bravo fisioterapista e quindi a un ortopedico di chiara fama. Mi fecero robusti massaggi e violente trazioni meccaniche. Ma ne ricavai soltanto forti dolori: le mani rimanevano spaventosamente minuscole!
Non potevo fare più il pianista, ovviamente: la tastiera del piano era diventata enorme e ingestibile. Pensieri disperati, stravaganti cominciarono a circolare nella mia mente allucinata. Come mi sarei guadagnato da vivere, ora? Arrivai a pensare che avrei potuto fare il borseggiatore. Ma no, figuriamoci, sono una persona onesta, io.
Per un certo tempo, pur di nascondere le manine, continuai a indossare i grandi guanti di prima, quelli artigianali personalizzati che mi ero fatto fare su misura. Ora li imbottii alla meglio per camuffare la mia menomazione. Ma non potevo stringere le mani alla gente, e questo veniva interpretato come segno di presunzione, arroganza, asocialità.
Rimasto senza lavoro, mi venne in soccorso un amico che mi apprezzava molto come pianista e a cui non potetti celare la mia disgrazia. Mi trovò un lavoro di ripiego, aiutante fruttivendolo: non era un granché ma ce la mettevo tutta pur di portare qualcosa di soldi a casa (la mia dannazione erano i grandi cocomeri, le grandi zucche, che mi scappavano di mano).
Con le nuove mani avevo vari problemi: non potevo più dare robuste pacche sulle spalle degli amici e conoscenti. Non potevo più dare sonori schiaffoni a mio figlio quando faceva lo scostumato. E soprattutto non potevo più avvolgere e chiudere in una sola mano le tette e le chiappe di mia moglie, cosa che a lei piaceva da morire.
Papà, cosa hai combinato alle mani?
mi fa un giorno mio figlio. Non so cosa rispondergli. Alla fine gli dico: E’ stata una maga cattiva...
e sorrido amaro. Mia moglie fa una smorfia di riprovazione, ai bambini non si devono dire queste stupidaggini. Mi guarda le mani e si gira disgustata da un’altra parte. Ogni tanto cerca pretesti per bisticciare o addirittura allude al fatto che potrebbe decidere di lasciarmi.
Non vuole fare più l’amore con me, mi tiene a distanza, non ha più gesti affettuosi, non mi cucina più i piatti che preferisco. Con le mie mani minuscole non riesco a carezzarla, lei subito si scosta. Mi insospettisco sempre di più e comincio a spiarla.
Un giorno che ha lasciato il suo smartphone incustodito (l’ha fatto apposta?) vi trovo dentro un filmato: un uomo dalle mani gigantesche, come erano le mie, suona il piano: poi compare una donna nuda, è mia moglie! Lui le avvolge i seni con le sue manone e li carezza a lungo. Allora si sente il gemito godurioso di lei, che dice con voce rauca: Tu sì che sai farmi godere... oh, benedette le tue mani!
.
Ahiahiahi, signora
Teresa, impiegata comunale cinquantenne, aveva un marito, Jacopo. Uomo morigerato e affidabile, il tipo che non tradisce da giovane, non tradisce da maturo, e neppure da anziano.
E invece un giorno Teresa l’ha sorpreso per strada che si sbaciucchiava con spudorata imprudenza con una ragazzotta fresca, disinibita, bonazza e alquanto volgarotta. Una di non più di venti anni, trentacinque meno di lui, che ne ha appunto cinquantacinque.
A niente sono servite accuse, grida, imputazioni di vergogna ("Ma ti sei guardato? Con una che potrebbe essere tua figlia! E perché dovevi farmi questa canagliata, schifoso che sei? E dire che sembravi una persona seria, un brav’uomo!)
Il giorno dopo lui semplicemente ha fatto in fretta i bagagli e, veloce e pimpante, è andato via. E’ andato a vivere con la troietta.
Teresa è combattuta. Fra la rabbia e la depressione: vorrebbe andare a casa della troietta per suonargliele di santa ragione (ma se non sa nemmeno dove stia!) ma poi ha la tentazione di buttarsi sul letto e abbandonarsi ad un pianto dirotto, come una bestia ferita e ormai agonizzante.
Per salvarsi le serve qualche robusta gratificazione.
Nell’ufficio comunale la notizia è arrivata subito, non si sa per quali misteriosi canali, e si è diffusa a macchia d’olio. Tutti i colleghi la guardano, in un misto di compassione e curiosità. C’è solidarietà negli sguardi e nelle frasi delle donne. C’è imbarazzo e titubanza negli uomini. Ma quelli sotto i sessanta hanno subito cominciato a guardarla in un modo nuovo: ora che è rimasta sola, è una preda potenziale, è possibile e può essere facile portarsela a letto. Gli sguardi si fanno insistenti, ammiccanti, i gesti carichi di una carineria sospetta, certi toccamenti non certo involontari. Lei è una preda, molti sono i cacciatori.
Accetterebbe una storia, sia pure breve, magari, con uno di loro? Alcuni si mantengono ancora bene, perfino dimostrano meno degli anni che hanno. Ma sono le loro maniere, esagerate, goffe, volgari, che le dispiacciono, che sconfiggono la tentazione. E con il garbo di un consolidato esercizio alla diplomazia, li tiene a distanza, recita la parte della moglie comunque, nonostante tutto, fedele.
si sente umiliata e offesa. E si sente sola, anche se nel suo ufficio la notizia della sua disavventura matrimoniale si è subito misteriosamente diffusa, e alcuni colleghi la corteggiano con goffa e malaccorta insistenza, al limite della volgarità. Teresa li respinge con diplomatica fermezza, per non complicarsi la vita
Oggi un evento che la potrà strappare al suo tormento: la figlia Flavia ha invitato per un aperitivo il fidanzato Ruggero: un pretesto per farlo conoscere alla madre, nella speranza della sua approvazione al fidanzamento
A Teresa bastano pochi secondi per restare folgorata dalla visione del giovane. In petto prova una fitta dolorosamente dolce: Ruggero le piace molto, ma non come fidanzato di Flavia, le piace a lei, come uomo degno di essere conquistato
E comincia a tessere la sua trama seduttiva. Dopo l’incontro, dice a Flavia che Ruggero le è sembrato un uomo molto maturo, degno di una compagna più matura, meno ragazza infantile come è Flavia. Flavia è fortemente