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Miti e leggende degli Indiani d'America
Miti e leggende degli Indiani d'America
Miti e leggende degli Indiani d'America
E-book364 pagine3 ore

Miti e leggende degli Indiani d'America

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Info su questo ebook

Raccolte da un esperto di letteratura indiana americana, questa antologia si divide in due parti corrispondenti a due periodi storici fondamentali: “prima dell’arrivo dell’uomo bianco” e “dopo l’arrivo dell’uomo bianco”.
È questo evento che lega tra loro popolazioni dapprima indefinite, sparse ai quattro lati del continente nordamericano, negli altipiani e nelle praterie. Diversi tra loro anche nei tratti fisici, ma uniti da un comune passato di lotta per la loro preservazione materiale e culturale, questi uomini che non conoscevano la scrittura hanno tuttavia accumulato un ricco patrimonio di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane che testimoniano la loro resistenza alla distruzione, tanto che oggi, anziché scomparire, la cultura indiana americana viene propagata in tutto il continente da movimenti di liberazione/salvezza sempre più attivi e determinati.
Un libro per tutti gli amanti dell’etnologia, dell’antropologia, del folclore, della favolistica e della poesia.

Francesco Meli ha insegnato letteratura americana all’Istituto Universitario di Lingue Moderne di Milano. Ha introdotto in Italia la letteratura indiana americana contemporanea. Ha scritto e curato molte pubblicazioni sull’argomento.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788874132805
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    Miti e leggende degli Indiani d'America - Francesco Meli

    Miti e leggende

    degli

    Indiani d’America

    A cura di

    Francesco Meli

    Franco Muzzio Editore

    Francesco Meli

    Ha insegnato letteratura americana all’Istituto Universitario di Lingue Moderne di Milano. Ha introdotto in Italia la letteratura indiana americana contemporanea. Ha scritto e curato molte pubblicazioni sull’argomento.

    I edizione italiana: Novembre 1995

    I edizione cartacea in questa nuova collana Novembre 2020

    I edizione digitale Novembre 2020

    © 2020 Franco Muzzio editore – Roma

    di Gruppo Editoriale Italiano srl – Roma

    Traduzione dall’inglese di Mariella Lorusso

    L’autore dell’immagine di copertina è © James Ayers

    ISBN 97888-7413-280-5

    www.francomuzzioeditore.com

    Tutti i diritti sono riservati

    È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata.

    Ebook della Collana Parola di Fiaba

    • Abbiati S., Fiabe di Praga magica. (2020)

    • Carrara L., Elfi e streghe di Scozia. (2019)

    • Carrara L., Fiabe inglesi di spettri e magie. (2019)

    • Carrara L., De Marco C., Saghe e leggende irlandesi. (2019)

    • Del Mare C., Fiabe e leggende della Malesia. (2020)

    • Meli F., Miti e leggende degli indiani d'America. (2020)

    • Meza O., Leggende Maya e Azteche. (2020)

    Introduzione

    La grande varietà linguistica e culturale presente sul continente americano induce a ritenere che, paradossalmente, l’Indiano non esista: mero frutto della fantasia del conquistatore europeo. Ma per quanto diversi tra loro, anche nei tratti fisici, gli Indiani d’America possiedono un comune passato di distruzione e di lotta per la preservazione fisica e culturale. Non può sorprendere quindi che, al di là di profonde diversità, la loro letteratura, ossia il ricco patrimonio di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane, conosca temi ed eventi comuni.

    Le scelte attuate per la presente antologia¹ si attengono al fondamentale concetto antropologico di area culturale e riflettono l’esigenza di presentare uno spettro piuttosto ampio di modalità espressive che, sia pure nella loro incontrovertibile unità, sono contrassegnate da un evento traumatico che crea un prima e un dopo l’arrivo dell’uomo bianco. Sia essa di carattere religioso o eroico, guerresco o elegiaco, umoristico o tragico, sia che rifletta avvenimenti straordinari o quotidiani, la letteratura indiana americana mantiene connessioni con il mito e crea potenti risonanze di memoria collettiva che uniscono passato e presente in segmenti espressivi particolarmente significativi anche dal punto di vista emozionale.

    Ogni occasione, dalla più solenne alla meno formale, condivisa con la comunità o vissuta in solitudine, può essere momento per rievocare canti e narrazioni o crearne di nuovi: lo sviluppo di una formidabile memoria ha sopperito alla mancanza di scrittura e di un sistema di notazione musicale. Le immagini più diffuse provengono dal mondo naturale, simbolo di qualcosa di più elevato, e vi sono racconti per ogni occasione e aspetto della vita, dal più felice al più doloroso.

    È consuetudine sostenere che il valore intrinsecamente letterario della tradizione orale indiana americana sia pressoché nullo. Se questo può essere vero per una parte, non lo è di certo per l’intero patrimonio di cui possiamo disporre: è vero piuttosto che il suo valore letterario, la sua bellezza o non sono stati adeguatamente trasposti nella versione scritta o sfuggono ai canoni estetici della tradizione occidentale. Bello è sicuramente per i popoli che lo hanno creato e tramandato di generazione in generazione.

    Non va comunque dimenticato che il linguaggio di uomini privi di scrittura non è esattamente prosa ma piuttosto poesia con le caratteristiche e i requisiti del dramma. In effetti la letteratura e l’arte tradizionale indiana americana costituiscono una sorta di spettacolo che richiede partecipazione e coinvolgimento. Sono un complesso amalgama di poesia, musica, danza, teatro, pittura, mitologia e magia che prevede stili diversi e un’accentuata manipolazione della voce con varie tonalità, intensità e pause. Si tratta di rappresentazioni, eventi, qualcosa che avviene, sostengono i Navajo.

    Nella tradizione orale indiana americana tutte le leggi che regolano le azioni umane casualità, finalismo ecc. –, relazioni temporali e spaziali possono vanificarsi o assumere modalità distorte: una pietra può parlare, un animale può comportarsi come un uomo o viceversa, tempo mitico e tempo storico possono intrecciarsi e non risultare più distinguibili. Le narrazioni suscitano, evocano le emozioni più di quanto le descrivano: nell’apertura e disponibilità a suscitare liberamente immagini e sensazioni nell’ascoltatore/lettore risiede la loro bellezza e il loro fascino. Come ha detto Hoseph Peyenetsa, narratore Zuni: Se qualcuno ti racconta una storia, tu puoi immaginarla.

    Come ogni altra letteratura, anche quella indiana americana non dovrebbe essere considerata statica, rappresa per sempre in presunte forme originarie da preservare in bacheche museali. Al contrario, è il risultato di processi dinamici e complessi che, nel tempo, assumono forme e contenuti variegati. La prima sezione – Prima dell’arrivo dell’uomo bianco – propone canti e narrazioni delle più diverse aree geo-linguistiche appartenenti al tempo indefinito che precede l’invasione europea. Codificati come miti, leggende, poesie o racconti rituali, erano parte integrale della cultura espressa dalle varie popolazioni indiane. Il linguaggio di questa prima sezione, pur non ignorando funzioni espressive, psicologiche e catartiche, riveste soprattutto funzioni di coesione socioculturale. Questo tipo di letteratura accompagna i rituali religiosi, d’iniziazione, le cerimonie curative, le varie attività economiche e, offrendo espliciti o indiretti insegnamenti morali, definisce e tiene in vita specifici rapporti sociali e con il mondo naturale e sovrannaturale.

    Esemplare, a questo proposito, è il Rendimento di Grazie dei Seneca: eloquio rituale più diffuso tra questo popolo, apre e conclude quasi tutte le manifestazioni cerimoniali. Le varie sezioni di cui è composto fanno riferimento a elementi naturali e sovrannaturali e hanno una sequenza corrispondente all’ordine scaturito dalla creazione. Si aprono con un’affermazione/decisione del Creatore riguardo a un dato elemento, che viene così a esistere con la precisa funzione di arrecare benefici ai Seneca. Secondo le intenzioni originarie del Creatore, viene messa in evidenza la continuità del processo vitale e, infine, vengono richiesti concentrazione e rendimento di grazie: lo stile del parlato non è della normale conversazione ma della preghiera cantata.

    Ricorrenti, oltre ai racconti che si riferiscono all’origine del mondo e degli esseri umani, sono quelli che forniscono spiegazioni relative alla presenza della morte e questo ci porta a parlare sia della figura di Coyote che dello sciamano/uomo di medicina. Allo stesso tempo divinità, uomo e animale, Coyote nasce da una ricca e grottesca immaginazione, sovvertitrice dell’ordine naturale e sociale. Molto ironico nei confronti del conformismo sociale e dei suoi rigidi parametri comportamentistici, Coyote è una forza della natura che crea, trasforma, distrugge e vittimizza anche se stesso attraverso un processo autodistruttivo.

    Inventa, inoltre, importanti rituali e stabilisce i luoghi sacri e i rispettivi nomi. Il nome, anche nelle religioni definite superiori, non è semplicemente un convenzionale simbolo linguistico ma partecipa o perfino si identifica con quanto viene designato. Il fenomeno è molto evidente quando si tratta di nomi di persone, divinità e oggetti rituali: il nome appare come il principio creativo per eccellenza e il suo uso non può essere indiscriminato.

    Secondo la tradizione dei Crow, Coyote è il creatore imperfetto/pericoloso di un universo altrettanto imperfetto/pericoloso. Altre aree culturali indiane sostengono invece che il Creatore fece tutte le cose buone ma Coyote portò confusione, disordine e morte: la concezione cristiana del peccato originale e della conseguente caduta dell’uomo è una risposta molto simile alla medesima questione.

    La vita è ovunque e in tutte le cose. L’organicità del creato costituisce l’intuizione centrale dello sciamanesimo. Eliade definisce lo sciamano uno specialista, un tecnico del sacro, la cui sfera creativa comprende un particolare linguaggio che costituisce la fonte privilegiata da cui scaturiscono le parole magiche di canti, invocazioni, preghiere ecc.

    Corrispondenze, connessioni e relazioni vengono riconosciute e ricercate con notevole dispendio di energia fisica e psichica. L’iniziazione al sogno e alla visione è seguita dalla trasformazione delle immagini oniriche e visionarie in canti. Molto spesso il potere visionario offre agli sciamani immagini del loro corpo morente, del loro scheletro e dei viaggi rituali agli inferi per tentare di avere il sopravvento sulla morte. Più di ogni altro, lo sciamano è affetto dalla malattia di esistere e cerca di trovare dei rimedi: solo in quanto è riuscito a curare se stesso può pretendere di curare gli altri.

    Le forme e i contenuti della tradizione orale indiana riflettono sicuramente le diversità di ambiente naturale, organizzazione sociale e tipo di economia. Tra le popolazioni sedentarie del sud-ovest prevale, ad esempio, un cerimonialismo che mostra un marcato interesse per la solidarietà sociale. Per quanto al sacerdote spettino compiti specifici, la presenza e la partecipazione della comunità è essenziale. L’enfasi posta sui poteri benefici del sole e della pioggia riflette l’esigenza di conoscenze e informazioni calendariali alle quali uniformare attività agricole che richiedono coesione e cooperazione.

    Il rituale, e quindi la relativa letteratura, degli Indiani Pueblo che abitano le zone deserte del sud-ovest è improntato a complessità e reiterazione. Le formule dei rituali devono essere recitate con esattezza e la massima concentrazione è richiesta per aderire alle forme tramandate dalla tradizione. Per tutti gli Indiani Pueblo i Kacina sono gli dèi ancestrali personificati dai danzatori mascherati. Secondo il mito dell’origine, gli Zuni, alla perenne ricerca del centro del mondo, mentre guadano un fiume si accorgono che i bambini portati sul dorso dalle donne si sono trasformati in animali acquatici, tartarughe e rane. Abbandonati dalle madri, cadono nel fondo e raggiungono la Città degli Dèi dove vengono mutati in dèi mascherati o Kacina.

    Spesso i Kacina lasciavano la Città degli Dèi per visitare i villaggi Zuni e con danze portare gioia, pioggia, fertilità e abbondanza. La Città degli Dèi, però, è anche Città dei Morti, e i Kacina, ritornandovi, portavano sempre degli esseri umani; rattristati per il dolore arrecato alla comunità, decisero poi di non lasciare mai più la loro dimora e di visitare i villaggi solo in spirito. Sono pertanto presenti nelle maschere preparate dagli Zuni e usate nelle danze cerimoniali, che sono del tutto simili a quelle portate dai Kacina nella Città degli Dèi. Essere della luce del giorno è il termine che designa tutti gli esseri umani viventi; tutte le altre creature animali, piante, fenomeni naturali e i trapassati (kacina) – sono note come esseri crudi, in quanto non dipendono dal cibo cotto: questa distinzione rimanda ovviamente alle note interpretazioni di Claude Lévi-Strauss.

    Il quadro offerto dalla letteratura degli Indiani delle praterie mette invece in evidenza aspetti diversi. Per una serie di ragioni storiche, i caratteri fisici e culturali di questi Indiani in particolare Sioux e Cheyenne sono stati indiscriminatamente attribuiti a tutte le altre popolazioni del continente nord-americano: gli Indiani delle praterie, nell’immaginario collettivo occidentale, sono diventati gli Indiani per eccellenza.

    Forti di una struttura sociale comunitaria che garantisce una reale e diretta partecipazione di tutti i suoi membri all’edificazione del patrimonio culturale, gli Indiani delle praterie rivelano interessi e preoccupazioni più personali e individuali: canti d’amore, canti elegiaci per la morte dei propri cari, resoconti di lotte intestine, canti celebrativi di cacciatori e guerrieri. Caratterizzati da brevità, questi canti tendono a concentrarsi su eventi salienti della vita del popolo, rivisitati da un marcato senso dell’umorismo e da un disinvolto impiego di elementi scatologici. Non può sorprendere, infine, l’importanza del ruolo rivestito in questa letteratura da tuoni e lampi: nelle praterie la spettacolarità delle tempeste cariche di elettricità è veramente impressionante e i pericoli molto evidenti.

    La letteratura degli Indiani del nord-ovest possiede caratteristiche che, nella forma e nella sostanza, la differenziano nettamente da quelle delle due aree già prese in considerazione. Temi comuni sono la vita dei villaggi, le attività di caccia e pesca (al salmone in particolare), scambi di merci, gioco d’azzardo, potenza di forze occulte. Sancita dai miti delle origini, presso queste popolazioni si era sviluppata un’accentuata stratificazione sociale, accompagnata da accumulo e distribuzione di ricchezza.

    Presso i Tlingit, ad esempio, molto raramente i canti svolgono la funzione di accompagnamento alle attività lavorative. Esprimono, piuttosto, le sensazioni più intime, i desideri, l’amore, la gioia, il dolore individuali o della comunità. Con canti e narrazioni si piangono i defunti e ai potlatch si ostentano le ricchezze individuali e del clan di appartenenza. Con danze e canti, alle feste gli ospiti esprimono felicità e apprezzamento. Adeguati canti sanciscono la fine delle ostilità e segnano la riappacificazione. I giochi sono sempre accompagnati da canti e con questi si facilita il sonno dei bambini, si placano gli spiriti degli animali uccisi e si perseguono intenti curativi.

    In occasioni molto formali, come ai potlatch, ai funerali, alle riunioni cerimoniali, i canti sono intonati generalmente da un gruppo composto di uomini e donne dello stesso clan, che li sceglie accuratamente ed effettua prove rigorose. Solitamente sono accompagnati da danze complesse nel corso delle quali lunghi pali decorati vengono sollevati, abbassati e spostati in armonia con la musica.

    Per i Tlingit la morte è l’evento supremo che offre la più importante occasione per elaborare i maggiori temi culturali. Prima dell’arrivo dei missionari i corpi venivano cremati e si teneva una Festa del Fumo in onore del defunto tutt’oggi non del tutto estinta che esprimeva il momento di massima solidarietà del clan. Se la morte segna la fine di questa vita e la dissoluzione del corpo e della materia, l’individuo non cessa di esistere. Dopo un periodo transitorio di esistenza spettrale, il trapassato ritorna alla comunità in forma di bambino.

    La distinzione tra la prima e la seconda sezione non è da intendersi in modo netto poiché racchiude elementi di ambiguità e arbitrarietà impliciti nell’enorme problematica delle fonti. Non si può in effetti dimenticare che tutto il corpo letterario a nostra disposizione è stato raccolto, verso la fine del XIX secolo, da un certo numero di missionari, antropologi, etnologi, linguisti, i quali, sia nella scelta che nella trascrizione, non possono non riportare pregiudizi e preclusioni storicamente manifestati nel rapporto con gli Indiani.

    I ponderosi volumi di Boas, Benedict, Brinton, Cushing, Densmore, LaFlesche, Matthews, Mooney, Radin, Underhill e tanti altri rivelano un interesse scientifico maturato allorquando la realtà indiana sembrava prossima all’estinzione. Studiosi ed esperti si impegnano a raccogliere e preservare quelli che reputano essere gli ultimi sussulti di un popolo definitivamente sottomesso. La trascrizione dei fondamenti culturali indiani possiede quindi, come sottolinea C.A. Eastman, uno dei primi scrittori indiani, nel suo L’anima dell’Indiano, il profondo limite di essere avvenuta nel corso di un periodo detto di transizione, in cui lo spirito indiano era stato notevolmente fiaccato e corrotto. Se uno studio serio e una conoscenza documentata dell’universo indiano non possono prescindere dal vasto materiale raccolto e ora preservato per sempre, va sottolineato che la sua presunta autenticità rimane tale poiché, in effetti, si tratta di materiale in cui contaminazione e influssi sono parte integrante dell’incontro/scontro tra i due modelli socio-culturali.

    Si può quindi sostenere che la seconda sezione tratta principalmente delle conseguenze più evidenti e devastanti del contatto del mondo indiano con quello euroamericano. Sebbene si possa dire che per un breve arco temporale, e per un numero ristretto di nazioni indiane, il contatto abbia rappresentato una sorta di Rinascimento, i suoi effetti distruttivi costituiscono il tema preminente della letteratura indiana del XIX secolo. La sempre maggiore penetrazione a ovest dei coloni non creò conflitti semplicemente tra gli stessi e gli Indiani ma anche all’interno della varie popolazioni indiane. L’agricoltura dei coloni sottrae territori di caccia e quindi costringe varie tribù in territori ristretti, suscitando o accentuando uno stato di guerra che da sporadico e fondamentalmente di tipo cavalleresco diviene pervasivo e letale.

    La sottomissione delle nazioni indiane non avviene unicamente attraverso aperti atti di guerra o strategiche alleanze che favoriscono la divisione dei vari popoli, ma anche attraverso malattie, epidemie, vendita di alcool e fucili e, soprattutto, attraverso una sistematica opera di distruzione e sradicamento delle credenze religiose e dell’assetto sociale. L’incursione dei missionari ha minato irrimediabilmente quel delicato intreccio di pensiero, convincimenti e organizzazione socio-economica che costituisce la necessaria coesione di ogni cultura.

    Il processo, ora lento ora fulmineo, di dissoluzione morale, di decadenza delle istituzioni religiose, di distruzione degli equilibri economici è ampiamente documentato dalla letteratura dell’epoca. Forme e stili nativi si alterano e mettono in atto un arduo confronto con le modalità e tonalità espressive tipiche della tradizione euroamericana. Preoccupazione per gli effetti devastanti dell’alcool, perdita di fiducia in se stessi e nell’universo culturale di appartenenza, amarezza e disgusto per il comportamento dell’invasore non nascondono, comunque, che il mondo indiano ha saputo rispondere a una serie di attacchi concentrici non solo con le armi tradizionali ma anche con quelle verbali.

    Ciò che non poteva essere espresso direttamente trova spazio invece nella letteratura: gli invasori non raramente sono dipinti come esseri infidi, inaffidabili, pazzi e anche sciocchi, che vengono senza difficoltà inseriti all’interno delle narrazioni mitiche e delle leggende native. L’arte oratoria appartiene a questo periodo e da sola potrebbe contribuire ad abbattere lo stereotipo, per lo più hollywoodiano, dell’Indiano storico, silenzioso, privo di intelligenza e di senso dell’umorismo e che si esprime semplicemente a gesti accompagnati da suoni sgradevoli, inumani.

    Gli Indiani hanno dapprima cercato di trovare un accordo con l’invasore e in seguito hanno tentato di resistere anche diplomaticamente a una conquista sempre più opprimente e devastatrice. La lotta per la sopravvivenza non era sostenuta unicamente sui campi di battaglia ma anche al momento delle trattative, prima o dopo le ostilità. Le fonti storiche rivelano il netto contrasto tra la dignità, la pacata ragionevolezza, la sensatezza delle parole indiane e la rapace concretezza, l’arroganza, la duplicità di quelle degli euro-americani.

    Il grande interesse per l’oratoria indiana si spiega forse con il fatto che veniva pronunciata generalmente in condizioni sfavorevoli al mondo indiano e quindi confermava l’immagine dell’Indiano nobile e valoroso ma allo stesso tempo non lasciava dubbi circa la sua rassicurante riduzione all’impotenza. L’oratoria, quindi, pur avendo consegnato alla storia espressioni di rara forza che rimangono vive nella memoria, è troppo legata a eventi contingenti e il rapporto con gli invasori gioca un ruolo troppo determinante.

    La forzata cristianizzazione ha comportato l’assimilazione di forme quali gli inni e di temi biblici quali il Diluvio Universale e la Torre di Babele. Nei primi resoconti autobiografici molto evidenti sono i segni di disintegrazione sociale: i villaggi sono colpiti da epidemie e pestilenze di ogni tipo e anche da divisioni interne in merito alle strategie da adottare in disperate azioni di difesa. Sorgono in questo momento di profonda crisi vari movimenti di liberazione che predicano un ritorno all’antico modello indiano oppure una parziale assimilazione.

    Il primo movimento si fa risalire a un profeta Delaware che prevede il ritiro dei bianchi a condizione che gli Indiani abbandonino tutto quanto è stato dagli invasori introdotto nella vita indiana. I movimenti di liberazione/salvezza si propagano in tutto il continente americano e i nomi dei diversi leader – Handsome Lake, Smohollah, Isatai, Pautapety, Poinkia, Taivo – costituiscono una sorta di litania a un tempo di speranza e di disperazione.

    Il più noto movimento di questo tipo è senz’altro la Danza degli Spettri che ebbe in Wovoka il suo profeta e che provocò gli ultimi sussulti delle fiere popolazioni delle praterie. Sorto negli ultimi decenni del XIX secolo, questo movimento messianico non fu comunque semplicemente una patetica risposta al predominio e alla sopraffazione degli invasori o un confuso tentativo di assorbire il cristianesimo. L’uso rituale dell’estasi e della danza è di sicura matrice indiana e il mito della distruzione e della rinascita era largamente diffuso in tutto il nord-America.

    Verso la fine del 1880 Wovoca (Jack Wilson), un Paiute del Nevada occidentale, riceve una rivelazione riguardante la danza che prepara l’arrivo di un nuovo mondo. Verrà giorno in cui tutti gli Indiani, viventi e defunti, saranno di nuovo uniti su di una terra rigenerata, per sempre liberata da malattie e miseria. L’etica propugnata, per la sua semplicità e immediatezza, non si discosta da tutti gli altri sistemi religiosi: non fare del male, comportarsi rettamente, mettere al bando la violenza e inoltre non abbandonarsi alla disperazione per la morte delle persone care.

    Il messaggio apocalittico di Wovoka (altre popolazioni profetizzavano un terremoto, oppure un diluvio piuttosto che

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