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Il sigillo di Caravaggio
Il sigillo di Caravaggio
Il sigillo di Caravaggio
E-book410 pagine5 ore

Il sigillo di Caravaggio

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Info su questo ebook

In quale dei suoi quadri si nasconde un segreto?

Un pittore maledetto e un misterioso intrigo esoterico nella Roma del Seicento

Il giovane Caravaggio, arrivato da poco a Roma, comincia a lavorare nella bottega di Cavalier d’Arpino, famosissimo pittore tardo-manierista. Si dedica soprattutto a realizzare nature morte, cosa che detesta perché vorrebbe dipingere figure e mettersi alla prova con nuove sfide. Ma il Cavalier d’Arpino, oltre a dipingere, commercia anche in dipinti, soprattutto nel Nord Europa. E la sua bottega ne è piena. Ed è così che Caravaggio adocchia tra i nuovi arrivi una tavoletta di piccolo formato, opera di Hieronymus Bosch. Rappresenta una scena minuziosa e complicata, con alcune figure nude o vestite in modo curioso, immerse in uno strano paesaggio. Per dimostrare al suo maestro che sa dipingere figure umane, ma anche perché il dipinto lo attrae in un modo che non sa spiegare, Caravaggio lo ricopia di nascosto e lo tiene per sé. Quello che non sa è che gli cambierà presto la vita. Sulla tavoletta, infatti, è inciso un segreto preziosissimo, la chiave d’accesso alla Grande Opera alchemica. E c’è qualcuno disposto a qualunque cosa pur di entrarne in possesso.

Qual è l’enigma nascosto dietro il quadro del pittore visionario?

Il giovane Caravaggio si trova invischiato in un complicato intrigo a causa del suo talento

Hanno scritto di Luigi De Pascalis:
«I romanzi di De Pascalis hanno qualcosa di straordinario! Un’abilità artigianale nel ricostruire meticolosamente il contesto storico di cui si parla: sono veri e propri viaggi nel tempo.» 
Filippo La Porta, Left

«Come nei migliori romanzi storici, il racconto del passato sollecita il lettore a cogliere le ragioni delle azioni umane, anche quelle presenti.»
Alias

«Un appassionante e ispirato racconto, nel quale ricostruzione storica e trama romanzesca convivono senza forzature.»
Il Foglio
Luigi De Pascalis
è nato in Abruzzo, ma è romano di adozione. Ha pubblicato con grande successo numerosi racconti di genere fantastico ed è tradotto in Francia, Germania e Stati Uniti. Ha vinto per due volte il Premio Italia, una il premio Aqui per il migliore romanzo storico, è stato finalista al Premio Camaiore e candidato al Premio Strega 2016. Il sigillo di Caravaggio è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2018
ISBN9788822726995
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    Anteprima del libro

    Il sigillo di Caravaggio - Luigi De Pascalis

    copertina de Il sigillo di caravaggio

    2115

    Pubblicato in accordo con Loredana Rotundo Literary Agency

    Prima edizione ebook: gennaio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2699-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Luigi De Pascalis

    Il sigillo di Caravaggio

    NEWTON-OTTIMO.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    1. Lo straniero vestito di nero

    2. Donna Costanza Colonna

    3. Lisa e Fillide

    4. Il racconto di Caramano

    5. Notturno con nemici

    6. Due cardinali in un interno

    7. Sfida sul campo di pallacorda

    8. Le riflessioni di donna Costanza

    9. Incubi

    10. Tre tele, anzi quattro, e una janara

    11. La vocazione di Caravaggio

    12. La profezia della janara

    13. Voci

    14. Navigando verso Palo

    15. Porto Ercole

    16. I tormenti della marchesa

    17. Lezioni di scherma

    18. Don Fabrizio Sforza Colonna

    19. Il pescatore nella rete

    20. Palo

    21. Tre cavalieri e un pellegrino

    22. Il castellano degli Orsini

    23. Roma

    24. Cecco Boneri e la marchesa

    25. Ritorno alla Feniglia

    26. Santiago Vargas

    27. La locanda dell’Avvoltore

    28. Il serpente a due teste

    29. Dieci scudi d’oro

    30. Dietro la maschera

    31. La pietà di Lisa

    32. I traditori in casa

    33. Perdere la testa

    34. Un mistero inspiegabile

    35. In cerca di Caravaggio

    36. Vargas e Aisha

    37. In cerca di Lisa

    38. L’alibi

    39. Il segreto del pellegrino

    40. L’astuzia di donna Costanza

    41. Scelta obbligata

    42. Un effimero trionfo

    43. Ombre nella macchia

    44. Alla locanda dell’Avvoltore

    45. Il pittore, i cavalieri e il pellegrino

    46. La partenza di Cecco Boneri

    47. L’agonia di Caravaggio

    48. Morte d’artista

    49. Un mesto funerale

    50. Resa dei conti

    51. Il ritorno di Vassalli

    Personaggi principali

    A Lorenzo e Nemo, perché loro è il futuro

    Sono riuscito a essere solo ciò che sono stato, signora marchesa: un valentuomo in lotta perenne col proprio spirito. Del resto, se fossi riuscito ad averne ragione non sarei più stato io. La mia pittura è stata figlia dei miei talenti come dei miei difetti. E l’ho cercata tra le ombre dopo aver scoperto che la luce è mero inganno d’occhi.

    Dall’ultima lettera di Caravaggio alla marchesa Colonna

    1

    Lo straniero vestito di nero

    Toscana, Territorio dei Presìdi spagnoli

    Spiaggia della Feniglia

    17 luglio 1610, pomeriggio

    L’uomo era rannicchiato sotto lo scafo di una vecchia barca, poco più di un relitto messo in secco a cinque o sei passi dalla battigia. La sabbia umida gli rinfrescava il viso tumefatto e dolorante. Era caduto da cavallo per sfinimento a mezzo miglio da lì, nella macchia che costellava la striscia di terra bassa e sabbiosa che andava da Ansedonia al promontorio dell’Argentario e chiudeva da quel lato la laguna di Orbetello, città che era capoluogo del Territorio dei Presìdi e sede del locale governatorato spagnolo.

    Si era trascinato fino alla vecchia barca per riprendere un po’ le forze e soprattutto per nascondersi da quelli che lo inseguivano per ucciderlo. Lo avrebbero trovato presto, però, perché le sue tracce sulla sabbia erano chiare e non aveva avuto la forza e il tempo di cancellarle.

    Vengano pure, che ho di che difendermi, pensava di conti­nuo sincerandosi di avere accanto la spada, una buona lama milanese che possedeva da quando, anni prima, aveva lasciato la capitale di quel ducato.

    Ma la verità era che quanto gli era accaduto negli ultimi quattro giorni lo aveva così debilitato che perfino un bambino avrebbe potuto avere la meglio su di lui, figurarsi i tagliagole che l’inseguivano.

    Devi sforzarti di riposare almeno un poco, si diceva. E al diavolo il mondo e le sue beghe.

    Tirò a sé la bisaccia che si era trascinato dietro, ci poggiò sopra la nuca e chiuse gli occhi, esausto.

    Si agitò per chi sa quanto in un sonno inquieto e pieno di in­cubi. Lo destò il suono ritmico di qualcuno che picchiava con le nocche sulla vecchia chiglia. Attraverso una fessura tra due tavole marcite del fasciame intravide un’ombra.

    Ci siamo, sono loro.

    Solo a quel punto si rese conto che era stato così stupido da non sguainare la spada prima di rifugiarsi sotto lo scafo e che lì lo spazio era troppo angusto per farlo. Sfoderò il pugnale senza recriminare; tanto, se avevano uno schioppo o una pistola, era spacciato comunque.

    «Chi c’è qui sotto?», chiese una voce maschile sconosciuta.

    L’accento era toscano. Il fatto che non fosse napoletano, spa­gnolesco o romano come quello dei suoi inseguitori confortò l’uomo sotto lo scafo.

    «Aiutatemi, in nome di Nostro Signore».

    Due mani robuste afferrarono il bordo della vecchia imbarcazione e la sollevarono.

    «Non abbiate timore, sono solo», disse la stessa voce di prima.

    L’uomo strisciò fuori, si sollevò sul gomito sinistro e si voltò a guardare il soccorritore, strizzando gli occhi perché la luce del giorno era forte e lui era stato per molto tempo quasi al buio.

    L’altro, che era asciutto e nodoso, era a piedi nudi. Sembrava un pescatore. Doveva avere circa vent’anni ma ne dimostrava di più perché il suo viso, cotto dal sole e dal mare, era già solcato da piccole rughe. Aveva in testa un berretto scuro, floscio, da cui sfuggivano ciuffi di capelli neri. Indossava una vecchia camicia incolore annodata sulla pancia e un paio di calzoni blu, senza forma, arrotolati sui polpacci e trattenuti da una fascia dello stesso colore del berretto.

    Una barba sbiadita dalla salsedine ne incorniciava le guance magre. Gli occhi mostravano curiosità e preoccupazione.

    Appena notò che lo sconosciuto stringeva nella destra un pugnale, il pescatore fece un salto indietro. Il relitto ricadde sulla sabbia con un rumore ovattato, ma chi stava sotto ne era già fuori.

    L’uomo col pugnale aveva un aspetto orribile. L’abito nero che indossava era stato di buona fattura, una volta, ma adesso era sporco e strappato. I capelli e la barba corta e rada erano scuri, arruffati e pieni di sabbia. Le labbra erano screpolate e tumefatte. Gli occhi, lievemente sporgenti, mandavano lampi di minaccia e paura. Il sinistro era semichiuso a causa di una cicatrice rossastra che deturpava quel lato del viso. In uno o due punti si era riaperta ed era incrostata di sangue rappreso.

    «Cristo Santo», gli disse il pescatore. «Chi vi ha ridotto in questo stato?».

    Invece di rispondere, lo straniero vestito di nero si guardò febbrilmente attorno, poi fece una strana domanda.

    «Avete visto per caso un cavallo baio?».

    Il giovane notò che aveva una parlata insolita, forse lombarda.

    Gli indicò la barca tirata in secco lì vicino.

    «In mare non ce ne sono», disse come se fosse una cosa spiritosa. E siccome l’altro strinse con più decisione l’elsa del pugnale, si affrettò ad aggiungere: «Intendo, signore, che sono in mare da prima dell’alba e sono rientrato in questo momento. Se pure qui attorno ci fosse un cavallo, non potrei saperlo. Comunque non ne vedo. Ce la fate a mettervi in piedi?».

    L’uomo provò a tirarsi su, ma non ci riuscì. Il pescatore gli tese un braccio, lui ci si aggrappò e si alzò barcollando.

    «Quanto dista Porto Ercole?», domandò.

    «A piedi circa un’ora, andando di buon passo».

    «Cosa che non fa per me, oggi». Un attimo di silenzio e poi: «Quando eravate in mare avete avvistato per caso la feluca che fa la spola fra Napoli e qui?»

    «La Santa Maria di Porto Salvo, dite?»

    «Sì, quella».

    «No, mi dispiace; ma non è detto che non sia in porto. Oggi ero tra Ansedonia e lo scoglio che diciamo della Tagliata. Potrebbe essere passata mentre quello mi copriva la visuale».

    «Forse sono ancora in tempo», disse l’uomo vestito di nero.

    «In tempo per cosa?»

    «Su quella feluca ci sono i miei bagagli».

    «Ah! E perché non ci siete pure voi?»

    «È una storia lunga e forse è meglio che non la sappiate». Il viso del pescatore si fece scuro. L’uomo precisò stancamente: «Non ve ne abbiate a male, mi sembrate un buon cristiano ma chi mi ha separato a forza dalla mia roba e mi ha ridotto come vedete non lo è. Mi vuole morto. Certe volte ignorare le cose salva la vita».

    Quel giorno il pescatore non aveva preso neppure una sardina e aveva lacerato la rete su uno scoglio sommerso. L’essersi imbattuto in quell’inquietante personaggio che per sua stessa ammissione avrebbe potuto portargli dei guai chiudeva degnamente una giornata davvero schifosa! Voltò le spalle e si avviò verso la propria barca.

    «Aspettate».

    L’uomo con la cicatrice fece per raggiungerlo ma dopo due o tre passi crollò in ginocchio. Il pescatore si voltò, lo guardò e disse con un vago tono di commiserazione: «Siete proprio male in arnese, signore mio».

    L’altro fece una smorfia e lo guardò da sotto in su.

    «Vorrei vedere voi al mio posto. Sono digiuno da quasi quattro giorni e per due notti, invece di dormire, sono stato picchiato e torturato. Poi ho galoppato quasi senza sosta da Palo a qui, dormendo pochissimo. Insomma, non ho più forze e se non mi aiutate sarò una preda anche troppo facile per chi mi insegue».

    «E chi vi insegue, alla fine?».

    Lo sconosciuto capì che se non avesse detto qualcosa il pescatore l’avrebbe lasciato lì, così decise di rivelargli l’indispensabile.

    «Non lo so di preciso. Di uno conosco il volto, questo sì, ma ignoro il nome. L’unica cosa sicura è che si accompagna a ceffi peggiori di lui». Provò di nuovo ad alzarsi ma non ce la fece. «Se mi date riparo per la notte», disse in tono disperato, «e mi aiutate a recuperare la mia roba o a imbarcarmi di nuovo su quella maledetta feluca, vi darò dieci ducati d’oro. È quasi tutto quello che mi è rimasto».

    «Dieci ducati? Siete sicuro? Scusate, ma non avete l’aria di essere ricco».

    Per tutta risposta l’uomo lanciò al pescatore una piccola borsa.

    «Contateli!».

    Quello la aprì e ne scrutò il contenuto, poi la richiuse e la soppesò pensieroso. Con quella cifra avrebbe potuto dar via la sua barchetta e comprarne una più grande; e procurarsi anche una rete nuova. Se la infilò nella fascia che gli cingeva i fianchi e disse a mezza bocca: «Immagino che il vostro bagaglio valga più di dieci ducati».

    «Sì, ma non ho da darvi altro».

    «Non l’ho detto per questo. Dieci ducati bastano e avanzano per ciò che chiedete. Sono solo curioso di sapere cosa rischiate di perdere».

    Ecco un’altra notizia che l’uomo vestito di nero non avrebbe voluto dare, ma non aveva scelta.

    «Sulla feluca ci sono tre dipinti che valgono la mia vita».

    «Devono essere molto belli per contare quanto una vita, signore mio».

    «Sì, credo che lo siano. Comunque sono la sola merce di scambio che ho». Il pescatore aggrottò la fronte. Non capiva. «Sono un artista, un pittore», proseguì l’uomo con un sospiro rassegnato. «Mi chiamo Michelangelo Merisi, ma alcuni mi conoscono come Caravaggio perché sono cresciuto in quel marchesato. Quattro anni fa, a Roma, ho ucciso in duello un uomo e sono stato condannato alla decapitazione. Quelle tre tele sono il pagamento concordato con sua santità per la grazia. L’accordo era che avrei dovuto portargliele di persona, a Roma».

    Il giovane fissò con maggiore attenzione il viso sfregiato del pittore. Se era davvero un assassino ricercato dal papa, non c’era da fidarsene.

    «Non sarebbe stato più sicuro spedire i quadri e farsi mandare l’atto di grazia?», domandò con tono sospettoso.

    Caravaggio sorrise con amarezza.

    «Sì, l’ho pensato anch’io e l’ho fatto presente al mio mediatore, che è un cardinale. Mi ha risposto che l’andata a Roma doveva essere un necessario gesto di sottomissione».

    «O una trappola!».

    «O una trappola, certo. Ho pensato anche questo, soprattutto negli ultimi giorni. Ma a volte non si può negoziare; come nel nostro caso, dal momento che io ho bisogno di aiuto e sembra che possiate darmelo solo voi».

    Nonostante i dieci ducati appena intascati il pescatore conti­nuava a essere diffidente.

    «Non vi capisco, signore: se dovevate andare a Roma, come mai siete finito nei Territori spagnoli di Toscana?».

    Michelangelo capì che se voleva convincere il pescatore ad aiutarlo doveva aprirsi di più.

    «Vi dirò ogni cosa, lo giuro. Ma per carità di Dio, trovatemi un rifugio per la notte e cancellate meglio che potete le tracce sulla sabbia e qui in giro. Cancellate pure le vostre se volete godervi i miei dieci ducati».

    «Sì, ma…».

    «Non c’è tempo, vi dico! Quella gente potrebbe venire qui da un momento all’altro. E giuro che non scherza».

    Il pescatore annuì, ma non si mosse.

    Caravaggio provò a cambiare approccio.

    «Come vi chiamate?», domandò.

    «Francesco Gallerani, ma tutti mi chiamano Cecco».

    «Da un Cecco all’altro», borbottò il pittore.

    «Che intendete dire?»

    «Per me il vostro nome è un buon segno. Si chiama così anche un caro amico. Dunque, Cecco, mi affido a voi. Datemi asilo e risponderò a ogni domanda che vorrete farmi».

    Il pescatore pensò che i dieci ducati appena ricevuti potevano cambiargli l’esistenza; ma, da buon cristiano, pensò anche che l’uomo con la cicatrice e il vestito nero era in pericolo di vita e che, se l’avesse trovato in mare, non sarebbe stato lì a fare tante questioni. L’avrebbe tirato a bordo e basta. Perché sulla terraferma avrebbe dovuto essere diverso?

    Gli porse il braccio.

    «Mettetevi in piedi e appoggiatevi a me. Il mio capanno non è lontano. Appena vi avrò sistemato, tornerò qui e cancellerò le nostre tracce. Quando avrò finito, credetemi, sembrerà che da molti giorni alla Feniglia non sia passato neppure un cane, figuratevi un cristiano».

    Caravaggio annuì, rinfoderò il pugnale, afferrò la bisaccia e si appoggiò al pescatore. Poi s’avviarono insieme verso un vecchio capanno che sorgeva ai bordi della macchia.

    2

    Donna Costanza Colonna

    Napoli, palazzo Colonna, a Chiaia

    28 luglio 1610, mattino inoltrato

    Era una giornata afosa, ingrata. L’umidità saliva dal mare come una nebbia opalescente. All’orizzonte il cielo si confondeva con l’acqua. L’aria stessa pareva densa, quasi liquida.

    Ogni respiro era difficile.

    Ogni gesto pareva impossibile.

    Donna Costanza Colonna sedeva accanto alla finestra spalancata dello studiolo, al piano nobile del suo palazzo, nella speranza che prima o poi un refolo marino venisse a darle sollievo. Intanto disbrigava la corrispondenza del mattino e sorseggiava acqua, limone e anice dal bicchiere di cristallo che le aveva appena portato Maddalena, la sua cameriera personale, tornata poi a sedersi in un angolo in attesa di ordini. Intanto agucchiava su una tovaglietta di lino gli stemmi della casata Colonna-Sforza.

    La nobildonna aveva cinquantacinque anni.

    I capelli, che quella mattina si era fatti pettinare con una treccia avvolta a nido sulla nuca per lasciare respirare il collo, una volta di un bel rosso rame, erano ora quasi del tutto bianchi. Il viso, un tempo liscio e leggermente paffuto, era segnato da due rughe agli angoli della bocca. Rughe che le regalavano un’espressione amara. Anche il corpo, che durante la giovinezza era stato florido ma ben proporzionato, ora era un po’ curvo e appesantito.

    Solo gli occhi scuri e profondi erano rimasti gli stessi di un tempo, orgogliosi e caparbi come quelli di suo padre, quel Mar­cantonio Colonna che nel 1571 si era comportato da eroe nella battaglia di Lepanto e sei anni più tardi era stato nominato viceré di Napoli. Nello sguardo di donna Costanza c’era stato in gioventù un che di malizioso e sensuale, accesosi dopo la morte del disamato marito Francesco Sforza; cosa che aveva fatto disperare il suo direttore spirituale, don Carlo Bascapè, generale dei Barnabiti.

    E per sfuggire ai continui rimbrotti del prelato, nel 1592 si era decisa a lasciare Milano per Roma, sua città natale.

    Donna Costanza si era stabilita a Napoli quattro anni prima, per motivi che non le andava di ricordare. Troppo caldo. Troppa inquietudine. Troppi pensieri cupi da cui il consueto disbrigo mattutino della corrispondenza non riusciva a distrarla.

    Si deterse con un fazzoletto di seta la fronte imperlata di sudore e il collo umidiccio. Il profumo di lavanda di cui era impregnata la stoffa le diede un attimo di sollievo. Bevve l’ultimo sorso del suo intruglio dissetante. Il liquido quasi tiepido le scese in gola senza offrirle conforto.

    Maddalena fece per riempirle nuovamente il bicchiere, ma la marchesa la fermò con un gesto e lei si rimise a ricamare.

    Dalla finestra aperta sul cortile del palazzo giunsero improvvisi il rumore delle ruote di un carro che ne varcava la soglia e alcune voci maschili. Si sarebbe potuto trattare del carretto con le botti dell’acqua per le cucine, ma di norma arrivava più tardi.

    «Fate piano che è roba delicata», disse una voce nota ma che al momento donna Costanza non riuscì ad associare ad alcun nome.

    Poi sentì don Ippolito Vassalli, il suo maestro di casa, che diceva: «Avverto subito la marchesa». E l’inquietudine che la perseguitava dalla notte si fece baratro.

    Posò la penna e corse ad affacciarsi. Dei facchini stavano scaricando tre grandi casse da un carretto, sotto la direzione di Vassalli e di una specie di gigante.

    I facchini le erano sconosciuti, le casse no.

    Quanti giorni erano passati da che le aveva viste caricare proprio lì sotto, su un altro carretto diretto al porto? Non più di venti.

    Tre casse per tre dipinti: due San Giovanni Battista e una Maria Maddalena. Tutti e tre dello stesso autore, Michelangelo Merisi da Caravaggio, il suo pupillo; anzi quasi un altro figlio, in aggiunta ai tre sopravvissuti alla moria infantile che tra maschi e femmine se n’era portati via nove.

    A quel punto le tele sarebbero dovute essere a Roma, nelle avide mani del cardinale Scipione Borghese che in cambio aveva promesso a Michelangelo la grazia del papa zio per l’uccisione quattro anni prima, in Campo Marzio, di un poco di buono, giocatore d’azzardo, lenone, puttaniere e attaccabrighe.

    Uno simile in questo a Michelangelo, pensò sospirando la marchesa.

    Il processo era finito con la condanna alla decapitazione di Caravaggio e con la sua fuga da Roma grazie alla protezione dei Colonna. E questo era stato l’inizio di molte, tristi avventure.

    Ma alla fine tutto pareva risolto. Invece le tele erano tornate indietro, come cavalli senza padrone dopo una battuta di caccia sfortunata o una battaglia perduta.

    Dov’era Michelangelo? Cosa gli era successo?

    Donna Costanza osservò con più attenzione la scena in cortile. Riconobbe nel gigante Alessandro Caramano, il capitano della Santa Maria di Porto Salvo, la feluca su cui si era imbarcato Michelangelo il 9 luglio, diretto a Palo, porto più lontano di Ostia da Roma, ma da cui i collegamenti erano più sicuri.

    Un marinaio fedele ai Colonna, quel Caramano. Era stato imbarcato con don Marcantonio ai tempi di Lepanto, quando era appena un ragazzo, e aveva servito spesso la famiglia; ecco perché Michelangelo era stato affidato a lui.

    «Cosa succede, capitano?», chiese a gran voce sporgendosi verso il basso e cercando di dominare l’angoscia.

    «Una disgrazia, signora!».

    «Oddio! Salite, presto. Accompagnatelo voi, don Ippolito. E dite alla servitù che non ci disturbi».

    La marchesa si ritrasse. Il viso era rigato di lacrime. Ma non voleva farsi vedere scomposta. Se le asciugò col fazzoletto ancora umido di sudore e si rassettò l’abito. Poi congedò Maddalena e attese che i due uomini salissero da lei.

    Pochi minuti dopo erano al suo cospetto.

    Caramano era davvero imponente, il maestro di casa gli arrivava alla spalla. Inoltre era corpulento, di barba brizzolata e col viso incartapecorito dal sole e dalla salsedine. Si diceva che avesse un grande ascendente su marinai e portuali napoletani. Eppure, in quel momento, se ne stava davanti alla nobildonna a testa bassa e con la schiena curva come sotto un peso insopportabile.

    Ippolito Vassalli aveva l’età della marchesa, corpo e viso asciutti, sguardo deciso, baffi e mosca candidi. Fissava alternativamente donna Costanza e il capitano della feluca in attesa che lei domandasse e quello rispondesse. E provava pena per ciò che sarebbe stato chiesto non meno che per ciò che sarebbe stato risposto. Ma donna Costanza non si decideva a parlare. Guardava entrambi con gli occhi lucidi e taceva.

    Don Ippolito la conosceva bene. Era già al servizio dei Colonna quando lei, giovanissima, era andata sposa al marchese di Caravaggio, quel tristo marito che in tutti i modi l’aveva vessata e oppressa fino a che un male ai polmoni se l’era portato via, nel 1583.

    A quel punto era stato chiamato a servirla come maestro di casa. Due anni dopo fra loro era scoppiata improvvisa, violenta e inopportuna, una passione che avevano cercato inutilmente di soffocare. Ma, a distanza di tanti anni, Ippolito ripensava ancora con nostalgia a quella specie di sogno segreto in cui non la chiamava signora marchesa, ma colomba mia, o mia meraviglia.

    Poi la tempesta del cuore era passata e, nonostante le severe reprimende di don Carlo Bascapè, altri uomini erano stati ospiti del letto marchesale, di lignaggio più alto di Vassalli, anche se di minore stoffa. E la colomba mia, la mia meraviglia, erano tornate a essere donna Costanza o signora marchesa, detto con rispetto e dedizione, perché così andava il mondo e così era sempre andato tra persone di censo diverso.

    Adesso don Ippolito si faceva bastare ciò che in effetti da donna Costanza aveva solo lui: fiducia, confidenza e rattenuto, grato affetto. Né aveva voluto prendere moglie, nonostante la marchesa l’avesse più volte invitato a farlo.

    «Desidero vedervi felice», gli aveva detto ogni tanto, in passato.

    E lui, sempre: «Ma io lo sono, mia signora. Essere al vostro servizio mi appaga».

    Allora lei gli regalava quel sorriso indefinibile che era solo per lui: un misto di orgoglio, gratitudine e sentimento, sebbene mai più manifestato in maniera esplicita.

    Ma a Ippolito ciò che aveva da lei bastava davvero. La sua vita ormai era quella. Dunque ora soffriva con e per la sua marchesa, in silenzio come sempre; perché sapeva quanto fosse stata affezionata a quel pazzo geniale a cui si era dedicata fin da quando era bambino.

    Lo aveva avuto come allievo alla scuola di dottrina cristiana della chiesa parrocchiale, a Caravaggio. E aveva deciso che dovesse crescere assieme ai suoi figli maschi, sebbene Muzio avesse cinque anni di meno e Fabrizio dieci; anche perché la zia materna di Michelangelo, Margherita Aratori, in quegli anni faceva da balia agli altri suoi rampolli, via via nati e morti in ragione degli oscuri disegni di Nostro Signore. Insomma quello scapestrato d’ingegno era stato di casa nei palazzi Sforza e Colonna di Caravaggio, Milano, Roma e Napoli.

    E ora chissà cosa gli era successo.

    «Allora, mastro Caramano, cos’è andato storto?», sospirò.

    Il vocione del capitano uscì più lieve di un soffio. «Sono anni che faccio la spola fra Napoli e lo Stato dei Presìdi, una o due volte al mese, con ogni tempo e con ogni mare. E potete credermi, donna Costanza, non ho mai incontrato difficoltà che non fossi in grado di affrontare. Ma stavolta…».

    «Stavolta?»

    «La feluca era leggera. Aveva poco carico; solo le casse dei quadri, alcuni bauli di stoffe che un mercante di Aversa doveva sbarcare a Porto Ercole e un po’ di vino e carni salate per la guarnigione spagnola dei Presìdi. Tutto in ordine, tutto documentato. Appena salpiamo il mare si arruffa. Il vento si porta a scirocco e ci resta. Da Napoli a Palo ho impiegato due giorni e mezzo più del solito. Siamo arrivati il giorno 14, stremati, soprattutto il vostro pupillo che soffriva il mare. Non che l’altro passeggero, il mercante di Aversa, se la sia cavata meglio…».

    «Alessandro», sbottò spazientito Ippolito. «A noi dell’altro passeggero non importa nulla!».

    «Sì, sì, certo. Era solo per dire che il signor Michelangelo era debole perché non riusciva a trattenere il cibo e agitato perché temeva che i dipinti si rovinassero. Ma, come potrete constatare voi stessa, signora marchesa, non hanno subìto alcun danno».

    Stavolta fu donna Costanza a sbottare.

    «Andate al sodo, capitano, ve ne prego». Una frase neutra pronunciata in tono vagamente minaccioso.

    «L’approdo a Palo non è facile, signora. Soprattutto con il vento di scirocco. Comunque, come a Dio piace, attracchiamo. I miei cominciano a liberare le casse dalle imbracature e il signor Michelangelo sbarca e va verso il posto di guardia per le formalità e anche per chiedere come procurarsi un carro con cui andare a Roma. Invece, appena dichiarata la propria identità, è stato arrestato».

    «Arrestato? E perché?», esclamò esasperata la marchesa. «Michelangelo tornava a Roma sotto la parola del cardinal Gonzaga che aveva trattato la sua remissione con il cardinale nipote in persona! Aveva un salvacondotto, Dio Santo. Avevamo avuto ogni garanzia, era tutto chiaro».

    «Evidentemente no, signora. I soldati aspettavano proprio il vostro pupillo».

    «E lui?»

    «Ah, ero a meno di un tiro di schioppetto, la scena l’ho vista benissimo. Prima ha mostrato le carte, per fare valere le proprie ragioni, poi ha cominciato a urlare e le guardie lo hanno stretto da vicino. Erano almeno in cinque e c’era con loro un tipo robusto, vestito di nero e avvolto in una cappa dello stesso colore, nonostante il caldo».

    «Ti è sembrato che quell’uomo e Michelangelo si conoscessero?», chiese preoccupato il maestro di casa.

    «Non lo so. Mentre discuteva, il signor Michelangelo mi dava alle spalle. Non ho potuto vederne l’espressione».

    «Ma la faccia dell’altro la vedevate», disse donna Costanza.

    «Sapresti riconoscerlo, se lo rivedessi?», insistette Ippolito.

    «Rischierei di sbagliarmi. E poi potrei aver avuto un abbaglio».

    «In che senso?».

    Caramano sbuffò.

    «Non sono bravo a parlare, lasciatemi andare con ordine. Il si­gnor Michelangelo e quel tale non sono mai venuti alle mani, di questo sono sicuro. Ma a un tratto, senza ragione mi è sembrato, i soldati lo hanno afferrato per le braccia. Lui si è divincolato e ha tentato di estrarre la spada. I papalini non aspettavano altro. Hanno iniziato un pestaggio selvatico, furibondo, che è continuato anche quando quel poveretto era in terra e non si muoveva più. A quel punto siamo sbarcati in quattro per avere spiegazioni e calmare gli animi; ma siamo stati aggrediti a nostra volta dai birri e invitati a brutto muso a salpare, altrimenti saremmo stati arrestati anche noi. Così siamo tornati a bordo e abbiamo fatto rotta per Porto Ercole».

    «E l’uomo con il mantello?», chiese don Ippolito.

    «Si è dileguato appena abbiamo messo piede a terra; come se non volesse farsi vedere bene in faccia, adesso che ci penso. Comunque, prima di andare via, ho gridato al signor Michelangelo che lo avremmo atteso con le sue cose a Porto Ercole. E lui, che si era un po’ ripreso, ha annuito. Nei giorni precedenti mi aveva raccontato del dono dei quadri al cardinal Borghese in cambio della grazia papale e mi aveva detto dell’intercessione del cardinal Gonzaga. Quando ci sono in ballo due cardinali e un papa, ho pensato salpando, la detenzione non può essere lunga. Insomma, sono partito abbastanza fiducioso che la cosa si sarebbe risolta a breve».

    «Poi cosa è successo?», domandò la marchesa.

    «Ah, il seguito è un mistero più grande», disse Caramano allargando le braccia.

    3

    Lisa e Fillide

    Spiaggia della Feniglia

    18 luglio, pomeriggio

    Prima di tornare nel capanno Cecco aveva nascosto la propria barchetta tra le frasche, a un centinaio di passi da quella specie di relitto che era stata la barca del suo defunto padre ed era servita da nascondiglio al fuggitivo vestito di nero. Poi aveva cancellato tutte le impronte sulla sabbia, aveva sbarrato dall’esterno la porta della baracca e vi si era intrufolato dalla finestrella che aveva provveduto a chiudere dall’interno.

    Adesso il locale era al buio.

    L’aria sapeva di muffa e di chiuso, il caldo era soffocante.

    Cecco aveva acceso un piccolo lume, schermandolo con alcune vecchie tavole perché dall’esterno se ne vedesse la luce il meno possibile, ma l’olio era poco e non sarebbe durato a lungo.

    Michelangelo riposava su una vela logora, stesa sul pavimento di sabbia. Poggiava la testa su un mucchietto di cordami. Aveva accanto la sua bisaccia. Rantolava e sudava.

    Il pescatore gli si accucciò accanto e l’osservò con attenzione.

    Il viso era gonfio e stravolto. I capelli e la barba erano arruffati e appiccicati di sudore. La camicia aperta sul petto lo mostrava pieno di lividi.

    Chi era quell’uomo? Faceva bene o male ad aiutarlo?

    Cecco, pensò, ti stai mettendo in un maledettissimo gine­praio.

    Sì, questo lo sapeva. Ma se aveva un difetto, uno solo, grande però, era la curiosità. Intuiva che l’uomo nascondeva un mistero e avrebbe voluto conoscerlo.

    E poi di pericoli ce n’erano anche in mare, ogni giorno. Non era possibile evitarli tutti. Si poteva solo avere gli occhi aperti e tenere saldo il timone, governando al meglio la barchetta. Il resto era in mano a Dio e alla sua misericordia, che era immensa e oscura.

    Il rantolo di Michelangelo pareva quello del mare nei giorni di scirocco. Quanto stava male? Che poteva fare lui per aiutarlo? Davvero niente più che stare lì ad aspettare

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