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E la chiamarono Vigata: La Sicilia nel cuore
E la chiamarono Vigata: La Sicilia nel cuore
E la chiamarono Vigata: La Sicilia nel cuore
E-book123 pagine1 ora

E la chiamarono Vigata: La Sicilia nel cuore

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Info su questo ebook

Questa raccolta di racconti è, in gran parte, frutto di ricordi, di esperienze personali o di narrazioni tramandate da parenti o amici dell’autore. Per lo più, sono brevi profili – bozzetti quasi estemporanei senza pretesa – sui quali aleggia la lezione pirandelliana con puntate, iperboliche, nell’assurdo. Protagonista è l’eccentrico, il diverso che infrange la norma senza che, tuttavia, ciò assuma il carattere dello scandalo e che genera, piuttosto, stupore e, in qualche caso, si muta in amara lezione di vita. Decisiva è la cornice ambientale, una quotidianità segnata da ripetitive convenzioni di cui, un sottile velo d’ironia, presente anche quando il tragico domina la narrazione, disvela le tante contraddizioni da cui è attraversato. Porto Empedocle, La Marina, Vigata, tanti nomi per un unico luogo, – ma non solo quello – dove molti di questi attori fisicamente risiedono e dove coltivano le loro aspirazioni quasi sempre frustrate da quello che considerano, un irrazionale corso delle cose. Vite sospese, mortificate dall’attesa di esiti non sempre scontati, intrisi di una fastidiosa morale perbenista della quale, all’apparenza, non si può fare a meno. Apparenza, perché la realtà, verminaio di istinti e passioni irrazionali, sta sullo sfondo tragicamente pronta alla prima occasione buona a venire fuori in tutta la sua amara crudezza.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2024
ISBN9791281032415
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    Anteprima del libro

    E la chiamarono Vigata - Pasquale Hamel

    Indice

    Introduzione

    E Camilleri disse: «A sicaretta m’aspetta.»

    E Pirandello abbracciò il fratello

    Nuciareddu

    L’uomo che fabbricava ’ngiurie

    Fofò, l’onesto scrittore

    Antifascismo di provincia

    Un tribuno d’altri tempi

    Le belle figlie di Paolo Cà

    Lo chiamavano Baiocco

    Canciala Chiappara!

    La famiglia Camilleri

    Il cavaliere ciao caro

    Ci piglia

    Don Ciccino sicaretta e le giache

    La disavventura di Tricsino

    Un uomo da non dimenticare

    Così la città borghese si mutò in Chicago anni Trenta

    Quando arrivò il cinema

    Il rito della Settimana Santa

    Saru u’ porcu

    È follia gridare la verità

    La cappella gotica

    Nato stanco

    Don Giacomino Terzo, quando il paese non si chiamava Vigata

    Più che Peppone e don Camillo

    Ne devi fare di strada

    I fratelli che giocarono a bocce con le bombe

    E il danaro non se lo poté portare

    Un magistrato originale

    Mambrú, il figlio della guerra

    I più grandi

    Quando fecero lacrimare la Madonna

    L’ultima sonata del maestro Di Janni

    U Cucchiu

    Aspirante sindaco

    La Luger

    Il re della pernacchia

    Puci siccu mangia maccu

    L’irriducibile fascista che amava menare la gente

    E la chiamarono Vigata

    La Sicilia nel cuore

    Pasquale Hamel

    E la chiamarono Vigata

    La Sicilia nel cuore

    Al mio caro fratello Nello,

    che ha fatto della sua vita

    una testimonianza viva di generosità.

    Caro Pasquale,

    ho letto con piacere i profili dei personaggi di cui scrivi e gli aneddoti che li riguardano.

    Come dici, alcuni senz’altro siciliani di mare aperto, e fortunatamente poco gattopardescamente inclini al peccato del fare. I siciliani, fra cui si annidano forse più eccentrici di quanti non se ne trovino in terre più tranquille della nostra, non smettono mai di riservare sorprese. Persino la smentita di alcuni luoghi comuni, ma con una parte di verità, che li riguardano. Tuttavia, nel complesso, nel tuo testo – delicato, ben tornito e piacevole – si respira anche l’aria di quella vecchia Sicilia che fa parte della memoria di tutti noi (almeno fino alla nostra generazione) ed è gradevole ricordarla. Oltre alla maggiore apertura di alcuni luoghi di mare rispetto a quelli dell’interno, c’è quella particolarità della provincia che nelle grandi città si disperde nella normalità urbana della vita borghese.

    Beatrice Agnello

    Introduzione

    Il mio paese. È casa, radici, colori, respiri, sangue, orizzonte che mi appartiene. È una strada che porta sempre dove bisogna essere, in quel punto esatto della felicità.

    Il bellissimo aforisma di Fabrizio Caramagna potrebbe essere posto ad epigrafe di questo libretto di storie, di profili, di aneddoti che costituiscono memoria viva di quello che, almeno per me, è stato un posto dell’anima. Un luogo che non mi ha visto neppure nascere ma dove ho vissuto, fra grandi tensioni emotive e forti affetti familiari, gli anni dell’infanzia e della mia adolescenza. Un luogo che, allora, consideravo come una sorta di prigione invece che, sempre che ci si liberi di un certo provincialismo di cui spesso soffriamo, snodo da cui guardare la complessità delle vicende del mondo. Non è un caso che l’abbiano compreso geniali letterati che a Porto Empedocle – La Marina¹ oppure Vigata, come qualcuno di loro l’ha ribattezzata – hanno avuto le loro radici, a cominciare da Luigi Pirandello che scrive Brilla la marna dell’altipiano a cui il grosso borgo è addossato, o Andrea Camilleri, il quale ricorda che Quando ero ragazzo vivevo lì da maggio a ottobre, sempre buttato in acqua con i miei amici. Perché quel paese, adagiato sulla riva del Mediterraneo, grazie al suo sguardo rivolto verso l’immensità del mare, ha avuto il privilegio di essere l’emblematica espressione di un continente liquido […] che ha visto un intrecciarsi di relazioni, incontri, storie e sconvolgimenti di cui parla Fernand Braudel così che la gente che lo abita – massicciamente segnata da presenze provenienti da terre lontane – manifesta, almeno per alcuni significativi aspetti, un sentire diverso rispetto a quello, chiuso e fortemente radicato alle tradizioni, consueto dei siciliani.

    Gli empedoclini, almeno quelli che ho conosciuto, della mia come delle precedenti generazioni, hanno poco o nulla a che spartire con quei siciliani ai quali, secondo Giuseppe Tomasi di Lampedusa de Il Gattopardo, non importa far male o far bene e per i quali il peccato che… [non si perdona mai] è semplicemente quello di fare. Gli empedoclini, sono sempre stati uomini del fare e la stessa Porto Empedocle, nata Molo di Girgenti, animata da una operosa borghesia del commercio spesso titolare di grandi fortune, è stata fondamentalmente luogo del fare. Gli empedoclini, non avendo risorse territoriali disponibili per praticare l’agricoltura, con straordinario dinamismo e vocazione creativa, aprendosi al mondo hanno costruito piccoli imperi commerciali e intraprese industriali, non si sono limitati a praticare solo la pesca come sarebbe stato naturale. Un paese dunque, ma, piuttosto, una piccola città, carica di positiva originalità che tuttavia, e qui torniamo alle nostre storie, non è sfuggita a quella che Leonardo Sciascia, rubando il termine al poeta Crescenzo Cane, chiamava sicilitudine. Mi riferisco all’eccentricità, una peculiarità che, secondo Stefano Malatesta, caratterizza gli isolani quando afferma che I siciliani sono gli unici eccentrici italiani.

    Ecco dunque, queste che raccontiamo, sono microstorie di fatti ed eventi riferiti soprattutto ad alcuni personaggi originali che, anche se non tutti nati a La Marina, hanno calpestato il suolo empedoclino incarnando in molti casi la iperbole dell’eccentricità, le cui performance non meritavano, a mio modo di vedere, che venissero coperte dalla polvere del tempo fino a renderle irrimediabilmente perdute.

    E Camilleri disse: «A sicaretta m’aspetta.»

    La lunga spiaggia di Punta Grande, a due passi dalla Scala dei Turchi. Una sabbia impalpabile, di un colore incredibile, incontra in un morbido abbraccio l’acqua fredda del canale di Sicilia. Il nostro ombrellone piantato a metà strada fra la villa Ciotta e quella dei De Leo. Un mattino come tanti altri delle torride estati siciliane, mia suocera che tiene banco e mio suocero che si asciuga al sole dopo la lunga nuotata nell’acqua limpida degli scogli. Arriva Nenè Camilleri, che non era ancora un mito, con il suo passo pesante si stende sulla sabbia e, rivolto a mio suocero, inizia il suo dire con un «Ricordi Fofò.»

    Gli piace parlare, far riaffiorare memorie di tempi lontani, di quando lui e Fofò erano giovani. Ricordi delle lunghe nuotate, delle estenuanti passeggiate in via Roma, ricordi di un mondo passato. Io ascolto, in silenzio. Poi volge lo sguardo verso di me. Sorride a suo modo: «Ti porto i saluti di Luigi Maria Musati, il direttore.»

    So di chi parla, un mio vecchio compagno d’università, un fine intellettuale direttore della Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, istituzione in cui Camilleri insegnava. Scambia ancora qualche battuta con mia suocera, le ricorda di quando la portava a ballare. Poi, si alza di scatto. «A sicaretta m’aspetta!». E se ne va.

    E Pirandello abbracciò il fratello

    Il caso o, se si vuole, un disegno provvidenziale almeno per gli agrigentini, fece nascere Luigi Pirandello in terra di Girgenti. I genitori del grande drammaturgo, Stefano e Caterina Ricci Gramitto, nell’imminenza dell’evento, per sfuggire all’epidemia di colera che infestava i centri abitati, si erano infatti trasferiti da Porto Empedocle, dove abitavano, nella casetta in contrada Caos, territorio di Agrigento di proprietà, appunto, dei Ricci Gramitto.

    Una notte di giugno – scrive Pirandello – caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano di argille azzurre sul mare africano.

    Ma nonostante questo trasferimento, e nonostante la madre appartenesse ad un’antica famiglia agrigentina, la cittadina marinara rimase sempre un riferimento forte nella vita dello scrittore. La sorella Annetta aveva sposato Alfonso Agrò, un facoltoso commerciante empedoclino, e il fratello, professor Innocenzo, continuava ad abitare a Porto Empedocle. E non è un caso che Stefano Pirandello e la sua famiglia, dopo il disastro economico che li aveva coinvolti, trovassero aiuto e rifugio nel palazzo del genero Alfonso Agrò che, ancor oggi, fa bella mostra di sé nella strada principale di Porto Empedocle.

    Quanto racconto non è invenzione, è un fatto vero e, in qualche modo, mi riguarda perché ne è stato protagonista Alfonso Tripodi, mio suocero e pronipote di quell’Alfonso Agrò che ho ricordato.

    Vado ai fatti che risalgono alla fine degli anni Venti. In un giorno di primavera inoltrata, uso un incipit pirandelliano, lo scrittore arriva in incognito a Porto Empedocle e, senza dare nell’occhio, raggiunge Palazzo Cappadona. È atteso dal commendatore Gerlando Cappadona, l’uomo più facoltoso della cittadina marinara, nonno di mio suocero.

    Il commendatore lo accoglie sulla soglia della prima rampa delle

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