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Beautiful girls
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E-book299 pagine4 ore

Beautiful girls

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Info su questo ebook

«Questo libro è destinato a diventare un successo.»
The Bookseller

Bestseller del New York Times

Dicono che Delia si sia data fuoco nel capannone del suo patrigno. Si parla di suicidio, ma June non ci crede. June e Delia sono sempre state inseparabili. La loro amicizia era la cosa più importante di tutte: veniva prima dei ragazzi, prima delle famiglie. Era simile a una relazione d’amore, ma era anche… molto di più. C’erano migliaia di segreti che le tenevano unite, come sottilissimi fili di seta che formavano un legame indissolubile. Esattamente un anno fa, tutto è cambiato. Quella notte June, Delia e Ryan – il ragazzo di June – volevano divertirsi un po’. Poi, però, le cose sono sfuggite al loro controllo. E nella luce pallida del mattino, June ha capito che niente sarebbe più stato come prima. Adesso, a un anno di distanza, Delia è morta. June è sicura che sia stata assassinata. E sente il dovere di scoprire la verità… Che è di gran lunga più complicata di quello che avrebbe mai potuto immaginare.

Incontrare la propria migliore amica è come venire centrati da un colpo di fulmine.

Quanto può essere tossica l’amicizia tra due adolescenti?

«Sta spopolando un nuovo trend di romanzi   pieni di oscurità e cattive ragazze, e questo è destinato a diventare un successo.»
The Bookseller

«L’autrice tiene la tensione altissima: ogni volta che June trova una risposta, deve affrontare due nuovi misteri. Il libro ha una grande suspense, i lettori incontreranno personaggi ben scritti e ben approfonditi. È un romanzo provocatorio, che aggancia fino al finale sorprendente. La lettura ideale per chi apprezza il thriller con una punta di mistero.»
School Library Journal

«I lettori in cerca di un intrigo grintoso e intelligente troveranno pane per i loro denti.»
Booklist
Lynn Weingarten
Vive a Brooklyn, New York. Lavora nell’editoria ed è un’autrice bestseller del «New York Times». Ha vinto numerosi premi per la letteratura Young Adults e si è affermata come una degli autori più sensibili alle tematiche giovanili. Beautiful Girls è il primo libro pubblicato in Italia dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2018
ISBN9788822719317
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    Anteprima del libro

    Beautiful girls - Lynn Weingarten

    Capitolo 1

    Avevo dimenticato cosa si prova a sentirsi davvero soli.

    Ho guidato ininterrottamente per tutti i dieci giorni delle vacanze di Natale.

    Sono partita dal mio quartiere fatiscente, ho superato i palazzi più eleganti a qualche chilometro di distanza, mi sono diretta verso le colline e sono tornata indietro passando per fredde e vaste pianure. Ho acceso la radio e cantato a squarciagola mentre facevo su e giù lungo il fiume Schuylkill, su e giù per tutto il Delaware. Avevo bisogno di sentire una voce umana, e avevo solo la mia a disposizione.

    Ora le vacanze sono finite. Sono nel parcheggio della scuola, e mi dirigo verso l’entrata, felice, perché sono qui, perché adesso basta. So che tutti amano le feste, ma io ero sola. È questo il problema. Era come andare alla deriva, sperduta.

    Mi vibra il cellulare in tasca. Un messaggio di Ryan. È tornato a casa ieri notte e non ci siamo ancora visti:

    comunque ti ho portato una cosa dal Vermont…

    Poi un secondo dopo:

    non è un herpes.

    Gli rispondo:

    bene perché sarebbe molto imbarazzante se ci fossimo fatti lo stesso regalo.

    Premo «Invia» con il dito congelato. Sento il mio stesso respiro caldo alzarsi in nuvole di vapore mentre sorrido.

    Entro in classe, e Krista solleva lo sguardo come se mi avesse aspettato con ansia fino a quel momento.

    «Oh mio Dio, June», dice. Ha gli occhi semichiusi, e invece delle solite lenti a contatto indossa un paio di occhiali di plastica rossi. «È clinicamente possibile che io non abbia ancora smaltito la sbornia da martedì? Sono passati due giorni!», dice togliendo la borsa arancione dalla sedia per farmi accomodare accanto a lei.

    «Be’… pensandoci bene, sì, mi sembra possibile», rispondo. Krista mi sorride come se le avessi fatto un complimento.

    L’unica cosa che ho fatto durante le vacanze, a parte guidare, è stata andare alla festa a casa del ragazzo di Krista. È stato un po’ strano, perché io e Krista non siamo grandi amiche. Ogni tanto scambiamo due chiacchiere prima dell’appello, è vero, ma probabilmente solo perché nessuna delle due ha chissà quali altre alternative. Quando ho ricevuto il messaggio d’invito alla festa del suo ragazzo ero sola da così tanti giorni che ho accettato al volo.

    Rader, il fidanzato di Krista, vive praticamente fuori città, a trentacinque minuti buoni di macchina dal nostro quartiere, in una casa fatiscente che condivide con i suoi amici. È più grande di noi, e anche i suoi amici, alcuni hanno più di vent’anni. Alla festa c’erano solo ragazzi e una fitta nube di fumo. Vari tipi di fumo. Al mio arrivo Krista era già devastata e stava andando di sopra, in camera di Rader. Appena sono entrata ho sentito lo sguardo di tutti quei ragazzi posarsi su di me. Mi hanno scrutato da capo a piedi. E immediatamente ho capito perché mi avevano invitato – non certo per far compagnia a Krista. Ho trascorso l’intera serata appoggiata al muro, senza parlare con nessuno e guardando la festa da lontano, come fossi al cinema.

    «Rader mi ha chiesto il tuo numero per Buzzy», mi dice stropicciandosi gli occhi per la stanchezza.

    Non ho idea di chi sia Buzzy. Forse è quello alto che non faceva che entrare e uscire dal bagno tirando su con il naso, o magari il tipo con la scritta CULO tatuata sulle nocche. O quello con la camicia di velluto che continuava a chiedermi se volevo toccare quel tessuto così morbido (no, grazie, non voglio) oppure quell’altro che cercava di versare uno shot di tequila nell’acquario (l’ho fermato appena in tempo).

    «Ho un ragazzo», dico.

    «Aspetta, davvero? Chi?»

    «Ryan Fiske».

    Krista alza le sopracciglia, come se stessi scherzando.

    «Sul serio», dico.

    Lei piega la testa. «Porca miseria».

    Faccio spallucce. Non sono sorpresa che sia sorpresa. Sto con Ryan da più di un anno, ma praticamente non lo sa nessuno. A vederci da fuori non sembriamo due che possono mettersi insieme.

    «Non pensavo che uscissi con qualcuno così… normale», dice Krista come se fosse un insulto.

    «Be’, non lo conosci», ribatto. Ma la verità è che lui è normale. E questo in un certo senso è rassicurante.

    Ryan è uno di quei ragazzi che scivola senza difficoltà e senza sforzo – anzi, senza nemmeno pensarci – in qualsiasi gruppo, in qualsiasi contesto. Si sente a suo agio ovunque, ed è così alto e bello che, anche se non è il tuo tipo, non puoi non considerarlo attraente.

    È uno versatile, ecco. Uno che si adatta. Io invece non so bene chi sono. Di solito passo abbastanza inosservata. E a me va benissimo.

    «Spero che abbia almeno qualche lato losco», dice Krista. E poi mi fa l’occhiolino e si lascia scappare un piccolo lamento sofferente. «Le mie palpebre non sono ancora pronte per ammiccare».

    Un secondo dopo iniziano gli annunci. «Buongiorno a tutti gli studenti e all’intera North Orchard. Per favore, posso avere la vostra attenzione?». Il vice preside Graham. C’è qualcosa di strano nel suo tono. Raddrizzo la schiena e lo ascolto. «È con profondo dolore e rammarico che devo darvi delle tristi notizie. Una studentessa della North Orchard High è morta durante le vacanze». Fa una pausa per schiarirsi la gola. E in quel momento smetto di respirare. Come tutti, penso. Potrebbe essere chiunque, ora come ora. «Delia Cole, del terzo anno, è venuta a mancare ieri. La signora Dearborn, il signor Finley e tutti i consulenti sono a disposizione di chiunque senta il bisogno di parlare. Ovviamente la mia porta è sempre aperta. In questo momento difficile, il nostro pensiero e le nostre preghiere vanno agli amici e alla famiglia della signorina Cole».

    L’altoparlante tace. E il silenzio scende sugli studenti, rotto dal suono della campanella che annuncia l’inizio delle lezioni.

    Il cervello si stacca dal mio corpo. Vola su su in aria e fluttua verso la porta, e quindi non posso far altro che seguirlo.

    «Non ha detto com’è morta», sussurra qualcuno. «Cosa può essere successo?». Voci confuse, come se la morte di Delia fosse incredibile, impossibile.

    Io invece riesco a immaginarmi un milione di scenari diversi. Magari si è arrampicata sul vecchio ponte, quello in disuso, e si è avventurata oltre il cartello PERICOLO! NON OLTREPASSARE, dove il legno è tutto marcio. Oppure stava sul tetto della casa di un amico e guardava con la testa all’insù la grande luna piena in cielo mentre camminava proprio sul bordo, anche se gli altri l’avevano supplicata di non farlo. Forse ha attraversato la strada a occhi chiusi – una delle sue solite gare di coraggio – e poi all’improvviso l’urlo disperato di un clacson, una scarica di adrenalina e una fulminea luce abbagliante.

    Ryan mi sta aspettando fuori dalla classe. I nostri sguardi si incontrano, resta immobile a fissarmi, come se in realtà non sapesse bene cosa fare con la sua stessa faccia. Del resto, nemmeno io so che fare con la mia. A volte ho la sensazione che non sia nemmeno più la mia faccia. Mi incammino verso di lui, mi stringe in un abbraccio forte e caldo, come sempre, ma riesco a malapena a sentire il contatto in questo momento.

    Dico: «Tutto questo è…». Mi blocco a metà frase perché non mi escono le parole, e nella mia testa c’è solo aria, nient’altro.

    «… assurdo». Ryan completa il mio pensiero e scuote ripetutamente la testa. È la prima volta da più di un anno che uno di noi due parla di Delia o la nomina anche solo di sfuggita. Certo, immaginavo che prima o poi l’avremmo fatto – anche se avevo previsto che sarebbe stato molto strano.

    Attraversiamo i corridoi e Ryan mi accompagna fino all’aula di inglese per la lezione successiva. Si sporge verso di me per abbracciarmi un’ultima volta. Il nylon della sua giacca è liscio e freddo contro la mia guancia.

    Quando mi lascia andare guarda per terra. «Non riesco ancora a crederci».

    Eppure, ora che è successo, è come se fosse sempre stato inevitabile. Un epilogo già scritto. Come se in un certo senso Delia fosse sempre stata un passo avanti a noi, morta, e avessimo colmato la distanza solo adesso.

    «Forse non è il momento migliore per dirlo», mi fa, «ma mi sei mancata sul serio».

    In un mondo parallelo, completamente diverso da questo, la sua frase mi avrebbe provocato un fremito di piacere. Perciò rispondo: «Anche a me», ma la lontananza, le vacanze e tutto quello che è accaduto prima di questo momento mi sembrano così remoti. La verità è che non mi ricordo nemmeno più cosa significa sentire la mancanza di una persona. A dirla tutta, non ricordo cosa significa sentire qualsiasi cosa.

    Capitolo 2

    Sono andata a lezione ma avevo la testa da un’altra parte. Mi importava persino meno del solito.

    Dopo pranzo vado in bagno e tre lavandini più in là vedo due ragazze. Hanno la mia età, non le conosco bene, ma so che si chiamano Nicole e Laya. Nicole porta sempre grandi orecchini d’argento a forma di cerchio e Laya si raccoglie i capelli in una coda di cavallo così stretta che sembra che la faccia stia per spaccarsi a metà, tanto è tirata. Si stanno passando un eyeliner.

    In realtà non ascolto quello che dicono, non presto attenzione a nulla finché non sento la vibrazione di un telefono – Laya ha ricevuto un messaggio. Non passa nemmeno mezzo secondo che si mette a strillare con voce acuta: «Cazzo, non è possibile!».

    Alzo lo sguardo. Nicole si sta mettendo l’eyeliner sotto l’occhio, si tira la palpebra inferiore con il dito in modo da poterlo stendere meglio. «Cosa?».

    Il mio cuore inizia a battere all’impazzata anche se non ho idea di cosa dirà Laya.

    «Allora, lo sai vero che il fratello più grande di Hannah frequenta l’accademia di polizia?».

    Nicole annuisce, la testa le rimbalza su e giù come se fosse troppo pesante per il collo.

    «E sai che non hanno detto niente su come è morta, giusto? Be’, lei dice che lui le ha detto che…», Laya fa una pausa a effetto, «si è suicidata».

    In mezzo alla nebbia di vuoto assoluto che mi avvolge, sento lo stomaco che si chiude e il cuore che smette di battere. Mi piego in avanti, come se mi avessero dato un pugno.

    Nicole si gira verso Laya. «Wow».

    «Sì. Il primo gennaio».

    «Oh mio Dio, è così triste!», ma Nicole sembra in realtà eccitata dallo scoop. «Come?».

    Laya alza le spalle. «Il fratello di Hanna questo non l’ha detto».

    «Una volta ho letto che le donne, o le ragazze, insomma ci siamo capite, di solito si suicidano con le pillole, ma non lo so, lei mi sembrava più il tipo da…». Nicole unisce le dita a mo’ di pistola e se le ficca in bocca imitando uno sparo, poi muove di scatto la testa e tira fuori la lingua lasciandola a penzoloni.

    L’acqua cade a fiotti giù nel lavandino e mi schizza sulla camicia. Mi viene da vomitare.

    «Mi è sempre sembrata un po’ fuori…», dice Laya.

    «Era completamente matta! Tipo quei personaggi famosi che fanno cose assurde perché tanto possono permetterselo. Peccato che lei non fosse famosa».

    «Sì, tipo, era famosa solo nella sua testa!».

    Il mio lavandino si è riempito. L’acqua sta gocciolando sul pavimento.

    Non riesco a trattenermi ed esplodo, le guardo dritto negli occhi cercando di non farmi tremare la voce mentre dico: «Piantatela di parlare di lei in questo modo». Si voltano come se si fossero accorte di me solo in quell’istante. «Cazzo, piantatela».

    «Ciao eh!», dice Nicole. «È una conversazione privata comunque. E poi non eravate nemmeno amiche».

    Mi guarda con le labbra leggermente contratte.

    «Sì che eravamo amiche», ribatto.

    «Oh», dice Laya. «Scusa». E per un attimo sembra quasi sincera. Laya e Nicole si scambiano uno sguardo veloce e si dirigono verso la porta in silenzio. Sono migliori amiche, loro. Non hanno bisogno di parole per capirsi, basta uno sguardo. Mentre le osservo allontanarsi sento una morsa stringermi il petto così forte che mi viene da piangere, ma digrigno i denti e sbatto le palpebre per scacciare le lacrime.

    Non ho detto la verità. Io e Delia non eravamo proprio amiche.

    Se lo fossimo state davvero avrei risposto, quando ho visto il numero di Delia lampeggiare sul mio telefono due giorni fa, per la prima volta dopo più di un anno. Invece ho schiacciato il pulsante IGNORA e non ho nemmeno ascoltato il suo messaggio in segreteria. Sì, avrei sentito la sua voce, e avrei capito che qualcosa non andava. E poi, qualunque cosa mi avesse detto, qualunque cosa avesse in mente, in qualche modo l’avrei fermata.

    Capitolo 3

    1 anno, 6 mesi, 4 giorni prima

    Era un sollievo sapere che non doveva spiegarle nulla. Non doveva descriverle il dolore al petto e la fitta allo stomaco, non doveva dirle perché e come. E non c’era bisogno di farle capire in qualche modo che non voleva assolutamente, assolutamente parlarne. Perché Delia ci arrivava da sola. Così, semplicemente. Lo faceva sempre.

    June immaginava cosa stava per dire Delia. Qualcosa tipo: «Genitori. Fanculo», oppure «Solo le persone noiose hanno vite perfette». Delia era in grado di convincerti che le cose che non avevi non erano poi così importanti. Anzi, che in realtà non le volevi nemmeno. Era in grado di sconvolgere la tua visione del mondo in un attimo.

    Perciò, in piedi sotto il sole estivo, June si aspettava che Delia sistemasse tutto anche questa volta.

    Delia inclinò la testa da una parte, come se stesse riflettendo. Si spostò un ciuffo di ricci dietro all’orecchio, si tirò su i pantaloncini a vita bassa, poi stese il braccio e le prese la mano. La strinse forte, senza dire niente. Digrignò i denti e alzò le sopracciglia.

    Poi iniziò a correre.

    E visto che stava ancora stringendo la mano di June, e la mano di June era attaccata al braccio di June, che era attaccato al corpo di June, June non aveva altra scelta se non quella di correre insieme a lei. All’inizio inciampò, e l’adrenalina le sfrecciò nelle vene quando precipitò a terra. Poi si rimise in piedi. Delia era davanti a lei, con il braccio teso all’indietro, correva nel campo vuoto, le sue gambe mulinavano veloci, tirava June dietro di sé.

    «Aspetta! Per favore!», la pregò June, che aveva le infradito. Ciabattava sull’erba e alla fine ne fece volare per sbaglio una. «Ho perso una ciabatta!».

    Ma Delia non voleva aspettare e non si fermava.

    «Fanculo la tua ciabatta!», le urlò.

    Così a June non rimase altra scelta che lanciare via anche la seconda ciabatta e spremere per bene i suoi muscoli. Quando era stata l’ultima volta che aveva corso più veloce che poteva?

    «Ma dove stiamo ANDANDO?», gridò June.

    «STIAMO SOLO CORRENDO», gridò Delia. Sfrecciavano vicino agli alberi, stavano praticamente volando in aria.

    Il nodo che stringeva lo stomaco di June si era sciolto, il sudore iniziava a scorrerle lungo la schiena, i polmoni le scoppiavano nel petto. Ma continuavano a correre, come due stupide, senza fiato. June a poco a poco si lasciava alle spalle tutti i suoi problemi, e alla fine di lei rimasero solo un paio di gambe in movimento, due braccia, un cuore e una mano stretta forte alla sua. Un corpo che incespica, inciampa, quasi cade. Ma il punto è che non sarebbe mai caduta. Perché Delia non l’avrebbe permesso.

    Capitolo 4

    Dopo la scuola incontro Ryan all’uscita. Andiamo a casa sua come fosse un giorno qualsiasi. Stiamo sempre da lui nonostante a casa mia non ci sia mai nessuno. Invece da Ryan c’è sempre gente – e in teoria noi dovremmo morire dalla voglia di stare da soli.

    Ryan mi cinge con il braccio mentre entriamo nell’enorme ingresso. La sua famiglia è ricca ma per qualche strana ragione le prime volte che andavo da lui non ci avevo fatto caso.

    Sapevo che aveva una bella casa, molto più bella della mia, e di sicuro passare il tempo in quello spazio ampio ed elegante era molto meglio che stare da me, ma non ci avevo dato troppo peso. È stata Delia ad aprirmi gli occhi l’unica volta che è venuta qui. Ryan si era allontanato e non ci poteva sentire, lei si è sporta sopra la spalliera del loro gigantesco divano di pelle e mi ha fissato con gli occhi sgranati – uno sguardo molto intenso, che faceva solo quando era ubriaca. «Merda, J», ha detto. Stringeva una coperta soffice, e la accarezzava come se fosse un coniglio. «Perché non mi hai mai detto che il tuo fidanzato è ricco sfondato?». Ma c’era già fin troppa tensione tra noi all’epoca, perciò mi sono morsa la lingua prima di risponderle: «Aspetta… in che senso?». Che era poi lo stesso pensiero che mi stava passando per la testa. Ma poi ho fatto spallucce come se niente fosse.

    Adesso sono seduta sul divano e Ryan è in cucina.

    «Sei sicura di non volere niente?». Apre il freezer. «Ti farebbe bene mangiare qualcosa».

    Scuoto la testa. Mi sento come in una bolla.

    Mentre Ryan accende il microonde, abbasso lo sguardo sul cellulare che ho sulle cosce e fisso quella piccola icona sullo schermo – il messaggio di Delia che non ho ancora ascoltato. Non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno.

    Il timer del microonde suona e Ryan tira fuori il suo piatto, lo porta al divano e si siede di fianco a me. Si mette il portatile sul grembo e apre il sito di Kaninhus, la casa dei conigli in svedese. Un ragazzo in Svezia tiene una videocamera puntata tutto il giorno sui suoi due conigli, che vivono in un’area recintata nel cortile dietro casa. Me lo aveva mostrato già le prime volte che ci vedevamo. «Mi piacciono davvero, ma davvero davvero, questi coniglietti», aveva detto Ryan, come se la cosa lo imbarazzasse – in realtà lo rendeva tremendamente affascinante. Pensava che i suoi amici l’avrebbero trovato super strano, se fossero venuti a saperlo.

    (I suoi amici ci mettono pochissimo a etichettare una cosa come strana).

    Per la maggior parte del tempo i coniglietti fiutavano in giro, agitavano i loro nasini e mangiavano roba. Poco altro. Parlavamo un sacco di loro, come se fossero reali e avessero sogni e speranze e vite interiori complicate.

    «Ciao, Adi. Ciao, Alva», dice ai coniglietti sullo schermo. Sta usando un terribile accento svedese, un’altra delle nostre cose, una di quelle che condivide solo con me. «Come state oggi, coniglietti?» Una bestiolina sta mangiando da un piattino, l’altra dorme.

    Immagino che stia cercando di distrarmi, di tenermi occupata, di allontanare i pensieri. Come se fosse possibile. O forse non riesce a parlarmi di lei, non sa proprio come fare a tirare fuori l’argomento. Di sicuro io non ce la faccio.

    Star qui seduta a fissare questi coniglietti mentre Delia è morta mi sembra assurdo.

    Di sicuro lei direbbe: Sono morta, che me ne frega? Guarda pure quei coniglietti del cazzo se vuoi. E poi arriccerebbe la bocca, come faceva di solito quando si rendeva conto di aver fatto la stronza.

    «Come va con la sceneggiatura, Adi?», dice Ryan.

    Normalmente gli reggerei il gioco e chiederei ad Alva della sua gara di poesia – facciamo finta che siano entrambi artisti frustrati in una residenza di scrittura in Svezia – ma oggi tutti i segreti su Delia mi stanno facendo implodere.

    Non riesco più a trattenermi, le parole mi escono dalla bocca come un fiume in piena. «Ho sentito che non è stato un incidente».

    Ryan si gira lentamente, il sorriso è scomparso dal suo volto. «Aspetta, cioè stai dicendo che lei…?».

    Annuisco. «Si è suicidata».

    «Gesù. Come?»

    «Non lo so. Ma… devo dirti un’altra cosa». Il mio cuore inizia a battere all’impazzata. Devo togliermi questo peso. «Mi ha chiamata due giorni fa». E mentre lo dico ad alta voce mi odio, mi odio perché è la verità. «Ma non ho risposto. Mi ha lasciato un messaggio in segreteria. Non l’ho ascoltato subito, perché…». Mi blocco all’istante. Non l’ho ascoltato perché non potevo. Perché mi ero impegnata tanto per fare uscire la sua voce dalla mia testa.

    «Cosa diceva?», chiede lui.

    «Non l’ho ancora ascoltato».

    Ryan espira lentamente. «Forse non devi», dice. «Forse peggioreresti solo le cose».

    «Perché, possono ancora peggiorare?».

    Lui scuote la testa, abbassa lo sguardo, poi si appoggia allo schienale del divano e stende le braccia in avanti per stringermi, ed è una cosa che adoro quando sono in grado di provare qualcosa. Quindi, non adesso.

    Mi appoggio comunque a lui, e mi stringe forte. Restiamo così per qualche secondo fino a che si apre la porta ed entrano la mamma di Ryan e sua sorella Marissa. Facciamo un balzo e ci dividiamo. Io mi alzo.

    «Junie, tesoro!». La mamma di Ryan sorride. «Ci sei mancata durante le vacanze di Natale», e appoggia le chiavi e la borsa firmata sul bancone.

    Sua sorella mi fa un cenno

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