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Il lago dei misteri
Il lago dei misteri
Il lago dei misteri
E-book365 pagine5 ore

Il lago dei misteri

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller Il matrimonio delle bugie

Un grande thriller

«Fino allo sconvolgente finale niente è come sembra.»

Il matrimonio di Charlotte con il facoltoso vedovo Paul ha dato vita a molti pettegolezzi nella cittadina in riva al lago dove vivono. 
Ma i due sposini sono felici, nonostante le maldicenze scatenate dalle umili origini di lei e dalla tragica fine del primo matrimonio di lui. Quando però le acque del lago restituiscono il cadavere di una giovane donna, ritrovato nel punto esatto in cui annegò la prima moglie di Paul, Charlotte comincia a dubitare del marito. 
Quella che all’inizio appare come un’orribile coincidenza, infatti, nasconde più di un lato oscuro: Paul racconta alla polizia di non aver mai incontrato prima la ragazza del lago, ma Charlotte lo ha visto conversare con lei solo pochi giorni prima… Che motivo può aver avuto suo marito per mentire? 
Anche se le bugie di Paul hanno aperto delle crepe nel loro giovane e fragile rapporto, Charlotte è determinata a salvare il matrimonio. 
Man mano che procede nella sua ricerca della verità, però, si rende conto che non sa più a cosa credere: al suo cuore, che le dice che Paul è un brav’uomo, o al crescente sospetto che suo marito abbia nascosto nelle acque del lago un terribile segreto…

Un’autrice ai primi posti nelle classifiche di «USA Today» e «Wall Street Journal» 
Pubblicata in 17 Paesi 

Charlotte non aveva idea di quanto potesse essere pericoloso dire “sì, lo voglio”.

«Un altro eccezionale romanzo di Kimberly Belle, scritto magistralmente per attirarti e non lasciarti mai andare.» 
Samantha Downing 

«Kimberly Belle esplora le scioccanti profondità a cui le persone possono spingersi pur di tenere nascosti i propri segreti. Da non perdere!» 
Mary Kubica 

«Ancora una volta Belle mostra un grande talento nel portare la suspense a livelli altissimi.» 
Publishers Weekly 

«Un ottimo thriller, da leggere d’un fiato, con un colpo di coda fenomenale e velenoso.» 
The Daily Mail
Kimberly Belle
È un’autrice bestseller internazionale, tradotta in dodici lingue e diciassette Paesi. I suoi libri sono apparsi nelle classifiche di «USA Today», «Wall Street Journal» e «Globe and Mail». La Newton Compton ha pubblicato Il matrimonio delle bugie, Una madre perfetta, La scomparsa di Sabine Hardison e Il lago dei misteri.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2021
ISBN9788822755391
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    Anteprima del libro

    Il lago dei misteri - Kimberly Belle

    EN.jpg

    Indice

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Capitolo trentotto

    Capitolo trentanove

    Capitolo quaranta

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    2930

    Della stessa autrice:

    Il matrimonio delle bugie

    Una madre perfetta

    La scomparsa di Sabine Hardison


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: Stranger in the Lake

    Copyright © 2020 by Kimberle S. Belle Books, LLC

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: settembre 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5539-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Kimberly Belle

    Il lago dei misteri

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    A Ewoud, voor altijd

    Capitolo uno

    Sciolgo gli ormeggi e spingo la barca in acqua, una distesa grigia come il cielo. Nelle ultime ore, una coltre di nuvole di piombo ha assediato la cima delle montagne portando con sé un vento gelido che ha cristallizzato la superficie argentea del lago Crosby. Ho lo stomaco sottosopra, ma non è mal di mare.

    Nausea mattutina, o forse l’ansia di dover dare la notizia a mio marito.

    Sono incinta. Sorpresa!

    Mi siedo al posto di comando, con le mani in tasca. Ho un nuovo piumino, un regalo di Paul. Lui sì che ha un gusto impeccabile: di quelli che si acquisiscono con una buona educazione e un pingue conto in banca. Non abbiamo mai parlato di mettere su famiglia, non seriamente almeno. Ci è capitato di dire: «In questa stanza potremmo farci una cameretta» o «Di sicuro i nostri bambini saranno bellissimi». Il prima o poi era implicito. La sua prima moglie è venuta a mancare poco più di quattro anni fa, non avevano mai provato ad avere figli. È passato poco più di un anno da quando ci siamo conosciuti: una gravidanza non era esattamente nei piani.

    Ma se è per questo non lo era neanche innamorarmi di lui: un uomo che aveva undici anni più di me ed era deciso a non risposarsi. Eppure è successo, il ricco vedovo trentasettenne ha perso la testa per la commessa della stazione di servizio che abita dalla parte sbagliata della montagna. Unica cosa in comune, una vita segnata dalla tragedia. Una coppia che non avrebbe mai funzionato, secondo la gente del paese.

    «Non me ne frega un accidente di quello che pensa la gente», non fa che ripetermi Paul. «Io ti amo e tu mi ami: importa solo questo».

    Ma ora… Sfioro la pancia ancora piatta sotto gli strati di tessuto. Cosa dirà di questa vita che mi cresce dentro, non ne ho davvero idea.

    Cosa penseranno sua madre, la gente del paese e gli amici che lo conoscono da una vita, lo so benissimo, invece.

    Diranno che il bambino non è arrivato per caso. Che con il piccolo Keller cementerò il mio posto al tavolo di famiglia con una saldezza che neanche l’anello di tre carati che porto al dito potrà mai garantire. Che i matrimoni possono finire, ma i bambini sono per sempre. Che adesso sì, che l’ho incastrato davvero.

    Ricco vedovo, più giovane spiantata, più bebè in arrivo, uguale: lei l’ha fregato.

    Il vento mi ha spinto lontano dalla banchina ormai, e accendo il motore per girare la barca. Io e Paul viviamo in una baia, ma le correnti sono forti e l’acqua pericolosamente profonda. La collina su cui è abbarbicata la sua casa non termina a riva, ma si spinge sotto la superficie del lago per una novantina di metri. C’è un’intera città sepolta là sotto, fra i versanti di quella che un tempo era una fiorente vallata. Case, strade, fattorie, scuole. Cimiteri. Ogni tanto capita che qualche oggetto – una tegola malconcia, una scarpa incrostata di alghe, un viscido collare per cani – venga a galla e finisca quassù, a Skeleton Cove.

    A metà strada rallento e punto verso Buck Knob Cove, scrutando le montagne che si ergono sull’acqua a ovest e l’infinito grigio fumo del cielo. Sono nata e cresciuta a Lake Crosby, North Carolina. Non ho mai vissuto altrove – non ci ho mai neanche pensato – eppure la spoglia bellezza di questo posto riesce ancora a togliermi il respiro. Le montagne sono una parte di me, come le mie ossa e la mia pelle. La connessione che percepisco è reale, quanto queste cellule che si moltiplicano nella mia pancia. Se chiudo gli occhi, sento le placche che si spostano sotto i miei piedi. Io sono le montagne e le montagne sono me. Non potrei vivere in nessun altro posto, neanche se ci provassi.

    Credo che mettere su famiglia qui sia l’unica cosa buona che abbia fatto mia madre, se così posso chiamarla. Non è mai stata una vera madre per me. Sono cresciuta da sola, e ho tirato su mio fratello Chet scoprendo a mie spese che l’amore non può tutto. Non può mettere il cibo in tavola. Non può pagare l’affitto o gli strozzini che martellano alla porta. Un bambino ha bisogno di tante altre cose, oltre all’amore.

    Molti sostengono che io abbia sposato Paul per i soldi, ma non potrebbe essere più falso. L’ho sposato perché lo amo, e lo amo per tutte le cose che riesce a darmi. Un tetto su cui non grava la minaccia di un mutuo, cibo sano e nutriente da mettere in tavola ogni giorno. L’assicurazione sanitaria e quella dell’auto, il cellulare e internet. La libertà di non dover più scegliere se crepare di freddo o di fame. Una vita stabile e sicura.

    E in fondo, a pensarci bene, sicurezza non è forse un altro termine per dire amore?

    Capitolo due

    Lake Crosby non è granché come città – sono poco più di tre isolati – ma nel sud degli Appalachi è l’unica che si affaccia sull’acqua e per questo è una meta popolare del turismo. L’ufficio di Paul è in fondo al primo isolato, stretto fra una pasticceria e lo Stuart’s Craft Cocktails che, per quanto mi riguarda, è solo un modo pretenzioso per dire bar. Quasi tutte le attività commerciali sono pretenziose qui, dai ristoranti che vantano cibo a km zero alle boutique che vendono ogni sorta di accessori, per lo più costosi e inutili.

    Per i tipi come Paul, la città è il luogo in cui fare amicizie e soldi: nel suo caso vendendo case milionarie che dominano le colline o si affacciano sulle rive del lago. I miei amici, invece, sono quelli che servono i drink e puliscono i tavoli a quella gente – quando va bene, almeno. Tra abitanti e posti di lavoro, qui, c’è una sproporzione di dieci volte a uno.

    La terrazza coperta del cocktail bar è tranquilla, segno che la stagione è quasi finita ormai e il brutto tempo è in arrivo. Sulla porta, il cartello recita ancora CHIUSO. Superando il banco vuoto della reception noto un movimento in lontananza, un’ombra che con fare incerto si stacca dalla parete di fondo. È Jax: il matto del paese, il folle che vive nei boschi. Quasi tutti lo evitano, per pietà o paura, ma io no. Non so bene il perché, ma al contrario degli altri non ho mai avuto timore di guardarlo dritto in faccia.

    Jax fa qualche passo avanti, titubante, quasi non volesse farsi vedere. E probabilmente è così. È come un cervo nella radura, basta un battito di ciglia per farlo scappare. Ma stavolta non si muove.

    Si guarda intorno, scruta la strada alle mie spalle. «Dov’è Paul». Un’affermazione, non una domanda.

    Lentamente, per non spaventarlo, indico le eleganti doppie porte dell’edificio a fianco. Dalle finestre della Keller Architecture si riversa il chiarore dorato delle luci accese. «Hai controllato dentro?».

    Jax scuote la testa. «Devo parlargli. È importante».

    Sento la curiosità tornare a galla, come accade ogni volta che lo vedo riemergere dai boschi. Un tempo Jax aveva una vita perfetta. Re del ballo del liceo e quarterback promettente, un ragazzo d’oro con un futuro altrettanto brillante, nonché uno dei due migliori amici di Paul. Sulla scrivania dello studio mio marito ha ancora una foto di loro tre insieme. Paul, Jax e Micah, con il petto abbronzato e il sorriso perfetto. Tre adolescenti con il mondo ai loro piedi.

    Ora invece per la gente del posto è Jax il Matto, l’uomo nero straccione e barbuto che i genitori usano come monito. Fa’ i compiti, sta’ lontano da guai, o farai la fine di Jax.

    Rimane ai margini della terrazza, nascosto in un angolo buio che non mi permette di vedere altro che l’aureola di capelli arruffati, le spalline sporgenti di una giacca troppo larga e le gambe lunghe ed esili. E poi il volto, scuro, per via del sole e dello sporco.

    «Vuoi che gli dica qualcosa da parte tua? Oppure se resti qua, vado a chiamartelo. Sono certa che vorrà vederti».

    In realtà non ne sono affatto sicura, lo suppongo e basta. Jax è l’argomento preferito di chiunque voglia spettegolare e malignare, ma per Paul è un tasto davvero dolente. Un argomento di cui non ama parlare. Da quello che so, i due non si vedono dai tempi del diploma: impresa non semplice in una città dove si conoscono tutti.

    Jax lancia un’altra occhiata alla strada, verso l’eco di quelle voci lontane trasportate dal vento. Non seguo la direzione del suo sguardo, ma il suo atteggiamento guardingo mi fa capire che si sta avvicinando qualcuno.

    «Ti serve qualcosa? Soldi?».

    Fortuna che non c’è nessuno a portata d’orecchio: quante risate si farebbero a sentire la ragazzina che viveva in roulotte, ora mogliettina dell’alta società, che offre soldi al figlio di un magnate delle compagnie assicurative. Certo, il padre di Jax l’ha diseredato anni fa e io ho davvero diversi centoni nel portafogli, eppure si farebbero comunque delle grasse risate.

    Jax scuote di nuovo la testa. «Di’ a Paul che devo parlargli. Digli di sbrigarsi».

    Prima che possa chiedergli altro, pianta un palmo sulla ringhiera e la scavalca agilmente con il gesto leggero di un astista. Gli corro dietro, mi sporgo dal balcone per cercarlo nel lungo vicoletto che divide il palazzo dell’ufficio di Paul dal cocktail bar. Ma è vuoto. Jax se n’è già andato.

    Supero l’ingresso della Keller Architecture, un open space con scrivanie sgombre e computer spenti. Anche la lavagna bianca in fondo alla sala è stata ripulita, una delle molte attenzioni che Paul esige quotidianamente dai suoi dipendenti. Sono quasi le cinque e una capo progettista è ancora piegata sul tavolo da disegno.

    Gwen indica la mia scrivania. «Tempismo perfetto. Ho appena finito le bozze per il cottage dei Curtis».

    Chiamare cottage una casa di seicento metri quadri è ridicolo, come sono ridicole le motivazioni che hanno spinto Tom Curtis e sua moglie – una coppia di settant’anni e passa – a esigere sei camere da letto e due cucine per quella che fondamentalmente è un’abitazione per il fine settimana. Ma i Curtis sono i tipici clienti della Keller Architecture: gente privilegiata, esigente e piena di pretese. E adorano Paul perché è uno di loro. Forse è ridicolo anche che io abbia una scrivania, dato che lavoro solo venti ore a settimana e per la maggior parte del tempo sono altrove. Curo il rapporto con i clienti. In poche parole, trascino il mio didietro ovunque si trovino e cerco di far rientrare un’emergenza o di convincerli a provare le ultime novità in fatto di arredi. Il lavoro e la scrivania fanno parte dei molteplici benefici di aver sposato un Keller.

    «Grazie». Infilo sotto al braccio la cartella con i disegni dei Curtis e prendo il corridoio alla mia sinistra, un’elegante galleria di legno e acciaio che porta all’ufficio in vetro di mio marito. «Sono venuta a prendere Paul. La sua auto non funziona».

    Mi ha chiamato poco fa. La sua macchina è morta nel parcheggio, a quanto pare. Quando me l’ha detto, ho pensato che stesse scherzando. I motori difettosi sono roba da Civic giurassiche come la mia, non da Range Rover ultramoderne e potenti, con un quadro comandi da far invidia a una cabina di pilotaggio. Tanti soldi e poco senno, avrebbe detto mia madre di Paul, se fosse stata qui. E forse anche di me, ormai.

    Gwen si dondola sulla sedia, agitando la penna digitale fra le dita sottili. «Sì, la concessionaria doveva mandare il carro attrezzi e un’auto di cortesia, ma hanno appena chiamato per dire che sono in ritardo. È in giro a fare commissioni, comunque».

    La guardo confusa. «Chi, il tizio della concessionaria?»

    «No, Paul». Gira sulla sedia, appoggiandosi alla scrivania dietro di lei. «Dovrebbe tornare a momenti».

    La ringrazio e torno fuori.

    Arrivata sul marciapiede, gli scrivo un paio di messaggi veloci. «Sono qui, tu dove sei?».

    Aspetto la risposta, che però non arriva. Lo schermo diventa scuro, poi del tutto nero. Mi metto il telefono in tasca e riprendo a camminare.

    A Lake Crosby ci sono così tanti posti in cui potrebbe essere andato. Al supermercato, in farmacia o nel negozio dove compra cravatte e calzini. Faccio una capatina in tutti, ma nessuno lo ha visto da stamattina. Tornata in strada, prendo il telefono e lo chiamo. Fa un solo squillo, poi scatta la segreteria. Premo il tasto rosso e mi giro a guardare la via, pressoché deserta.

    «Ehi, Charlie», urla qualcuno dall’altro lato della strada, due carreggiate separate da una striscia di parcheggi. Mi giro e scorgo subito il volto familiare di Wade che spunta sopra le macchine e i SUV. Un vecchio compagno di classe di mio fratello, uno scapestrato che ha mollato la scuola al secondo anno perché era troppo impegnato a cucinare metanfetamine e a scatenare l’inferno. Se ne sta appoggiato al muro color avorio di una pensione, tenendo tra le dita quella che spero sia solo una sigaretta rollata.

    «Charlotte», lo correggo, ma non so neanche perché mi prendo il disturbo.

    Ho cambiato nome il giorno in cui ho compiuto sedici anni, lasciando al municipio oltre un centinaio di dollari guadagnati con il sudore della fronte. Ma con le persone che mi conoscevano da prima, persone che vivevano nel campo caravan e nelle baracche ai piedi della montagna, persone come Wade e me, non c’è niente da fare. Non importa quante volte li corregga, quante volte dica di non essere più quella persona: per loro resterò sempre Charlie.

    Butta la sigaretta nel tombino e inclina la testa in direzione della strada. «Ho appena visto il tuo vecchio che usciva dalla caffetteria». Enfasi sulla parola vecchio. «Se ti sbrighi, magari lo raggiungi».

    Borbotto un grazie forzato, avviandomi in quella direzione.

    Non appena supero il negozio di alimentari, vedo Paul in fondo a un vicoletto con una tazza di carta stretta in mano. Ha addosso gli stessi vestiti con cui è uscito stamattina: una camicia di flanella della North Face, un maglioncino di cashmere blu, jeans scuri e stivaletti stringati di pelle. Niente cappotto. Niente cappello, sciarpa o guanti. Paul veste sempre così. Senza mai riflettere sul tempo. La camicia poteva andare bene per passare da casa alla macchina e dalla macchina all’ufficio, ma con questo venticello che soffia dal lago adesso si starà gelando le ossa.

    La donna con cui sta parlando è vestita in maniera più appropriata. Stivali e cappotto di lana nero abbottonato fino al collo, che tiene ben protetto con due giri di sciarpa. Un berretto le copre orecchie e capelli, lasciando nuda soltanto una porzione del volto – da questa angolazione, il profilo.

    «Eccoti qua», dico, e si voltano entrambi.

    Cala un silenzio breve, ma imbarazzato. Se non fossi certa del contrario, penserei che Paul non si aspettasse di vedermi.

    «Charlotte, ehi. Stavo solo…». Lancia un’occhiata alla donna, poi di nuovo a me. «Che ci fai qui?»

    «Mi hai chiesto di venire a prenderti. Non hai ricevuto i miei messaggi?».

    Con la mano libera tira fuori il cellulare dalla tasca e controlla lo schermo. «Oh, scusami. Devo averlo messo silenzioso. Stavo tornando in ufficio, ma poi mi sono fermato a chiacchierare e… be’, sai com’è». Mi guarda con un sorriso imbarazzato. Lo sanno tutti che Paul è un chiacchierone e, come accade spesso nelle piccole cittadine, c’è sempre qualcuno con cui fermarsi a parlare.

    Ma questa donna non la conosco.

    Scruto la sua pelle lattea, gli occhi azzurro cielo, la leggera spolverata di lentiggini sul naso e gli zigomi pronunciati. Sì, sono certa di non averla mai vista. Non si dimentica facilmente una donna così carina. Anzi decisamente bella, anche se non è proprio il suo tipo. A Paul piacciono le donne formose ed esotiche, con i capelli scuri e la carnagione olivastra. Lei è ossuta, la pelle chiara, quasi diafana.

    Faccio un passo avanti, tendendole la mano. «Salve, sono Charlotte Keller. La moglie di Paul».

    Mi rivolge un sorriso educato, ma lo sguardo le scivola verso Paul. La sento mormorare qualcosa. Keller, ne sono piuttosto sicura.

    Sento i peli del collo drizzarsi sull’attenti, anche se non sono mai stata una tipa gelosa. Mi è sempre sembrato uno spreco di energie essere possessiva e sospettare di un uomo che dice di amarti. O gli credi oppure no, almeno io la penso così. Paul dice di amarmi in continuazione, e io gli credo.

    Ma non è la prima donna che cerca di accaparrarsi un Keller, da queste parti.

    «Sei pronto?», dico, voltandomi verso Paul. «Perché sono venuta in barca, ed è meglio tornare a casa prima che arrivi il temporale».

    Nominare la pioggia sortisce l’effetto sperato e Paul si scolla definitivamente da questa cosa, qualunque essa sia. Mi guarda, sul volto quel sorriso dolce che riserva solo a me. Mi sento assalire da un’ondata di affetto, un impeto improvviso che mi colpisce dritto alle ginocchia.

    Chi dice che non stiamo bene insieme non sa che aspettavamo di incontrarci da tutta la vita. La morte di sua moglie, gli anni di carcere di mio padre, la dipendenza dall’anfetamina di mia madre: la vita ci ha scalfito apposta, perché incontrandoci i nostri bordi scheggiati combaciassero come pezzi dello stesso puzzle infranto. La prima volta che Paul mi ha preso la mano, il mondo… ha cominciato ad avere senso.

    E ora c’è questo bambino, un pezzettino perfetto di me e di lui. Un miracolo inaspettato che chissà come è riuscito ad aggirare persino la pillola. Magari non è stato un caso, ma un segno del destino: il modo dell’universo di dirmi che sta per arrivare qualcosa di bello. Una nuova vita. Una nuova possibilità di aggiustare le cose.

    Di colpo lo sento: un fuoco avvampato dal nulla nel mio petto, che brucia di un amore disperato per questo bambino che ha messo radici nella mia pancia. Voglio vederlo crescere, scalciare e fiorire. Lo voglio con tutta me stessa.

    «Andiamo a casa». Riservando a malapena un’ultima occhiata alla donna, Paul mi prende per mano e va verso la barca.

    Siamo nel bel mezzo del lago Crosby quando inizia a nevicare, fiocchi pesanti che si staccano pigramente da una coltre bianca. Per ora è solo nevischio, ma c’è ben altro in arrivo. Le nuvole che svettano sulle montagne sono cariche di neve.

    Paul ha puntato la prua in direzione di casa e ha dato gas al motore. Non lo biasimo: la camicia di flanella era troppo leggera persino in città, dove c’erano negozi caldi e muretti fra cui rintanarsi; qui al largo il vento soffia feroce ed è un po’ come se fosse a petto nudo.

    Se ne sta accucciato dietro il parabrezza, a guidare la barca con le ginocchia mentre le mani sono al caldo in tasca. Con un pizzico di rammarico noto le labbra bluastre e i denti che sbattono: avrei dovuto portargli il cappotto.

    Diglielo. Apri la bocca e di’: Sono incinta. Parla, ora.

    «Ehi, Paul?». Le parole si perdono fra i ruggiti del motore, ma non posso desistere. Non ora che ho finalmente trovato il coraggio. Gli busso su una spalla e riprovo. «Paul».

    Decelera, rallenta la barca che ora avanza con un ritmo più pigro. «Che c’è? Hai dimenticato qualcosa?».

    Scuoto la testa. Sono uscita di casa un’ora fa portandomi dietro solo due cose: le chiavi della barca e il cellulare. E sono entrambe con me, al momento. Le chiavi penzolano dall’accensione e il telefono l’ho infilato nello scompartimento accanto al mio sedile, insieme ai disegni per il cottage dei Curtis.

    «Sai che non mi sono sentita bene, ultimamente?». Non serve che gli ricordi la nausea e il senso di sfinimento che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Paul mi portava la zuppa di pollo del supermercato e mi metteva addosso una coperta calda ogni volta che mi addormentavo sul divano.

    «Hai avuto l’influenza».

    «È quello che pensavo anch’io, ma quale influenza dura per tre settimane?».

    Lo fisso con uno sguardo risoluto, aspettando che ci arrivi da solo. Ma Paul ha un’espressione del tutto vuota. Non so se è perché non capisce dove voglia andare a parare o se piuttosto sta cercando di nascondere il panico o – peggio – il sospetto. Mi accuserà di aver gettato le pillole nel gabinetto, di averle scordate di proposito? Sua madre sicuramente lo farebbe.

    Distolgo lo sguardo. «Comunque sia, di certo non era l’influenza».

    Paul allunga la mano e spegne il motore. Piombiamo nel silenzio più assoluto, come può capitare solo nel bel mezzo di un lago circondato da montagne e alberi. Un silenzio strano e attutito, accentuato dallo strillo distante di un falco.

    Paul si volta a guardarmi. «Che succede? Stai male?»

    «No», mi sbrigo a dire, guardandolo negli occhi. Ha già perso una moglie, è ovvio che la sua mente pensi subito al peggio. Forse avrei dovuto sottolineare che ora sto benissimo. «No, è tutto a posto. Più che a posto. Sana come un pesce».

    Il cuore mi batte all’impazzata, ma c’era da aspettarselo. Ripenso alle due striscioline rosa sul bastoncino che ho avvolto nella carta igienica e seppellito in fondo al cestino del bagno. Le istruzioni dicevano che una lineetta sarebbe potuta risultare più chiara dell’altra, ma anche l’ombra sbiadita di una seconda rendeva inequivocabile il significato. Per sicurezza ho fatto altri due test, temendo che i precedenti fossero difettosi: le linee rosa erano tutte talmente nette che tendevano quasi al viola.

    Vedo l’istante in cui Paul collega i puntini. Gli scappa un verso di sorpresa e le rughe sottili fra le sopracciglia si distendono. «Stai dicendo quello che penso?». Sembra sbalordito, non arrabbiato: è un verso che non ha proprio nulla a che vedere con la rabbia. Felicità, magari, speranza. Ma forse sono io che fraintendo.

    Trattengo il sorriso, mordendomi un labbro. «Dipende. Secondo te che sto dicendo?»

    «Charlotte McCreedy Keller, non fare questi giochetti con me. Il mio vecchio cuore fragile non reggerebbe». Si alza in piedi, afferrandomi con le mani ghiacciate e tirandomi su. «Stai per rendermi l’uomo più felice della Terra? Mi farai diventare padre?». Mi stringe i bicipiti, con una leggera scossa. Gli brillano gli occhi e il sorriso è arrivato fino alle basette. «È così?».

    Dopo un secondo, o forse due, annuisco.

    Paul esulta, e uno stormo di rondini scappa dai cespugli librandosi in aria. Di colpo mi ritrovo in aria anch’io: le gambe incrociate intorno alla sua vita, il sedere sorretto dalle sue mani. Mi fa girare nel minuscolo spazietto fra i sedili e io rido, sollevata dalla sua reazione: una gioia sgomenta ma inequivocabile.

    «Sei piuttosto forte per essere un vecchietto».

    «Non sono un vecchio, sono il suo vecchio. I miei attaccanti segnano ancora. Sono incontenibili». Scoppio a ridere e lui mi rimette giù. «Come ti senti? Hai altri sintomi?»

    «Ancora un po’ di stanchezza e nausea al mattino. Ma passa appena mangio qualcosa».

    «È… è meraviglioso. Non vedo l’ora di dirlo a tutti. Andiamo a casa a fare qualche telefonata».

    «Paul, non potremmo… non so, tenercelo per noi ancora per un po’? Almeno finché la dottoressa non ci dà il via libera. Voglio essere sicura che sia tutto a posto prima di dirlo al mondo».

    Un’ombra di preoccupazione gli rabbuia il volto. «Perché? Hai paura di perderlo?»

    «No, ma è ancora troppo presto. Voglio vedere questo bambino con i miei occhi ed esserne sicura. Aspettiamo la prima ecografia, va bene?»

    «Va bene, ma solo perché tu lo sappia, ho un buon presentimento su questo piccoletto. Starà benone».

    Alzo un sopracciglio. «Piccoletto?»

    «Be’, sì. Un meraviglioso piccolo Keller che porterà avanti il nome di famiglia». Mi posa una mano sullo stomaco e sorride. «Paul Junior».

    Questo , che farebbe felice sua madre: una copia carbone del suo prezioso figliolo. Se ripenso alla sua reazione il giorno in cui le abbiamo detto che volevamo sposarci, al sorriso falso e forzato quando mi ha guardato attraversare la navata al braccio di Chet… Non sono quello che voleva per Paul: sono troppo giovane, troppo sciatta, troppo povera e rozza. Pensa ancora che prima o poi il figlio tornerà in sé e comprenderà l’errore madornale che ha commesso.

    Ma un bambino… Un bambino cambia tutto.

    «E se fosse Paulette?».

    Fa una smorfia schifata. «Dio, no. Non affibbierei mai a mia figlia un nome come Paulette. Me la immagino già dal dottor Phil a parlare di come le abbiamo rovinato la vita. Non ci rivolgerebbe più la parola».

    Negligenza, alcolismo, un padre criminale e una madre che non aveva alcun interesse a mettere al mondo dei figli: queste sì, che sono cose di cui andare a lamentarsi. Pure alla TV nazionale. Ma questo bambino avrà tutto quello che è mancato a me e Chet: una vera casa, delle vere mura che tengono lontano il freddo, un frigo pieno di cibo e vestiti che non provengono dallo scantinato di una chiesa. Due genitori presenti, che non scompaiono per giorni interi né tantomeno finiscono in prigione.

    E, per quanto possa sembrare banale, amore.

    Sorrido, senza smettere di stringere le mani di mio marito. «Ho un’ultima richiesta».

    «Per l’amore della mia vita? La madre di mio figlio?». Mi avvicina la mano alle labbra, posandomi un bacio gelato sulle nocche. «Tutto quello che vuoi».

    «Quando sarà il momento, lo dirai tu a tua madre».

    Capitolo tre

    Al mio risveglio sono da sola.

    Dalla finestra della stanza fisso il cielo scuro e minaccioso e tendo le orecchie in attesa di un segnale della presenza di Paul. Magari dalla cabina armadio dove sarà andato a vestirsi o dalla cucina al piano di sotto. Ma c’è solo silenzio, nient’altro. Una casa vuota che trattiene il fiato.

    Sarà già uscito. Ogni mattina corre per dieci chilometri fra le colline a ovest. Se è andato a fare jogging significa che la neve di ieri si è sciolta. Quando siamo andati a letto scendeva a tutto spiano, ma forse la terra era ancora troppo calda perché attecchisse.

    Sono le sei e zero quattro, secondo la sveglia sul comodino. Un po’ presto per Paul, ma non così insolito. Più che altro, non mi aspettavo che andasse anche oggi. Soprattutto dopo il vino rosso tracannato a cena e la bottiglia con l’etichetta dorata che ha materializzato dalla cantina: uno champagne che costava più di un mese di spesa.

    Non beve molto di solito, ma era così su

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