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Vaneggi d'arte
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E-book267 pagine3 ore

Vaneggi d'arte

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Info su questo ebook

Un romanzo e sei racconti dove morte, mistero e fantasia, si intrecciano alle vicissitudini dei protagonisti che attraverso l'arte raggiungeranno la salvezza o la perdizione.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835826958
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    Vaneggi d'arte - Paolo Argiolas

    VANEGGI D’ARTE

    di Paolo Argiolas

    Prima edizione: settembre 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana          

                     Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Paolo Argiolas

    VANEGGI D’ARTE

    LA FATA VERDE

    I

    Una delle guardie girò due volte la chiave nella serratura e fece scorrere il passante nel binario. Con la mano sinistra ruotò la maniglia, poggiò il palmo della destra sul metallo e spingendo avanti con l’avambraccio aprì la porta. 

    «Buongiorno». 

    La Gazza non distolse lo sguardo e senza un battito di ciglia continuò a fissare il soffitto della cella. Un’infiltrazione d’acqua percorreva le tavelle della volta che da una crepa gocciolava sul pavimento.  Le spore della muffa infestavano i muri e i filamenti scuri dei miceli maculavano le pareti ingiallite.    

    «Come stai?», domandò uno degli aguzzini prima di fare una grossa tirata di sigaretta.

    Alcuni roditori corsero a intanarsi. Solo un grosso ratto esitò, squittì e annusò l’aria, ma fu sollecitato a ritirarsi da una pedata. 

    «Scusa, mi sono dimenticato che ti dà fastidio l’odore del fumo, rimedio subito». 

    Si accostò disgustato, serrando le narici tra pollice e indice. Scoprì il suo corpo sudicio facendo scorrere il lenzuolo fino alle ginocchia e gli spense il mozzicone su una coscia. 

    La Gazza rimase immobile, assorto nella propria catatonia. 

    «Ora ti aiutiamo noi a sgranchire un po’ le gambe». 

    Lo adagiarono sul dorso, due delle guardie lo afferrarono per i polsi e gli sollevarono il busto. La terza si sfilò la cintura in pelle dei pantaloni e con violente scudisciate cominciò a colpirlo sulla schiena. Egli non mosse muscolo né mutò espressione. Il carceriere continuò a frustarlo con veemenza fino a che l’epidermide vermiglia non s’imbrunì di ecchimosi violacee. Cascò sulla branda e lo lasciarono ardere per alcuni attimi sulla graticola del proprio martirio, poi lo risollevarono e lo schiaffeggiarono con furia. La Gazza arricciò il labbro superiore in un fremito, assaggiò il sapore del proprio sangue con la lingua ed ebbe un singulto. Quando gli colpirono la mascella con un poderoso cazzotto, non resistette e si genuflesse.  

    «Ti abbiamo procurato, nostro malgrado, delle ferite, ma, da galantuomini quali siamo, provvediamo subito a disinfettarti e a lavarti».

     Uno dei complici si calò le braghe e sghignazzando gli orinò sul viso. L’altro assicurò una pompa al rubinetto di un lavabo e, prima di scoppiare in una malefica risata, lo inondò con un getto d’acqua. 

    Egli barcollò e si accasciò al suolo. Il naso impattò con il pavimento e il sangue si mescolò con l’acqua, scorrendo tra le fughe delle mattonelle. 

    «Bene, possiamo andare», esclamò una guardia, prima che una vibrazione gli facesse tremare la tasca dei pantaloni.

    «Pronto capo. Sì, sono io».

    «Com’è andata?»

    «Tutto alla perfezione, qualche altra lavata di testa e il nostro amico dovrebbe cominciare a parlare».  

    «Ottimo lavoro. Torturatelo a dovere, ma mi raccomando, non spingetevi oltre. Mi serve vivo, sono stato chiaro?»

    «Signorsì capo». 

    «Bene. Tra qualche giorno dovrei rientrare. A presto».

    La Gazza raccolse i cocci della propria anima, si trascinò e strisciando come un anellide raggiunse il suo giaciglio arrugginito. Afferrò i piedi della branda con le mani che gli tremavano e facendo forza col bacino cercò di sollevarsi, ma un dolore lancinante lo fece capitombolare a terra. Ansimò con impeto, poi il respiro si quietò e perse conoscenza. Lo destarono i bruciori delle ferite sulla schiena e i crampi allo stomaco della fame. Aprì gli occhi, non vide nulla e il buio più totale lo soffocò. Pensò che fosse notte, immaginò la luna sciogliersi nel ciondolio del mare, ricordò il profumo intenso dei gerani sui balconi e fantasticò, provando ad assopirsi.  

    Un fascio di luce squarciò il buio e, come una mannaia, trafisse l’aria satura d’umidità.  

    «Alzati dormiglione, è l’ora della cena», gli ordinò una guardia in tono minaccioso. 

    La Gazza non reagì all’esortazione e indugiò nella sua languida rigidezza.

    «Hai sentito, o vuoi che ti svegli io?»

    Egli non tese neanche un muscolo e rimase assopito nella propria inerzia. 

    Uno dei torturatori gli mise le mani sotto le ascelle e gli sollevò il busto. Quando alzò le palpebre e mostrò i suoi insensibili occhi chiari, un altro dei boia abbassò la mano in prossimità del bacino e, prendendo la rincorsa con il braccio, gli diede un sonoro manrovescio. 

    «Hai sentito o no che è l’ora della cena?»

    Il terzo dei seviziatori si accostò con un vassoio con degli spaghetti al ragù, del pollo con patatine e glielo fece annusare. 

    Sentì il delizioso profumo pervadergli le membra e lo stomaco contorcersi dal desiderio, ma imperterrito proseguì con la propria immota astenia. 

    «Se ci dici qualcosina questa sarà la tua cena altrimenti…»

    Il complice lo interruppe e si avvicinò con un altro vassoio, sollevò la cloche e gli mostrò un ratto morto e un cilindro fecale.                     

    «Altrimenti la tua cena sarà questa. Un po’ difficile da mandare giù, ma con l’aiuto di qualche botta, non è da escludere che tu ci riesca». 

    La Gazza continuò a fissare il vuoto e dai pori della sua epidermide non oscillò neanche un pelo.

    Uno degli aguzzini non resistette e inviperito dal livore estrasse il manganello e lo colpì sulla testa. 

    Egli sentì un dolore pungente, poi dei gelidi formicolii gli salirono dalla colonna vertebrale e gli punzecchiarono la nuca, poi fecero il percorso inverso, si fermarono sulle ginocchia che cedettero e lo fecero cascare al suolo.  

    «Che cazzo fai, sei impazzito o cosa? Vuoi ucciderlo? Se dovesse morire il capo ci scuoierebbe vivi». 

    «Hai ragione scusa, ho perso le staffe». 

    «Rianimalo e accompagnalo alle docce a darsi una sistemata, è più sudicio di uno scarafaggio. Dopo spruzzagli addosso dell’antiparassitario. Non vorrei che qualche infezione lo conducesse a miglior vita. Se fa storie puoi menare le mani, ma con moderazione e, ovviamente, facendo in modo che quell’idiota del vicedirettore non si accorga di nulla. Ora ho da sbrigare una commissione, ci vediamo dopo. Mi raccomando». 

    «Aiutami, è pesante». 

    Una guardia lo pigliò per le gambe, l’altra per le braccia e percorsero l’androne imprecando per la fatica, poi una volta giunti ai bagni lo scaraventarono nel primo piatto doccia come un sacco di patate. 

    Uno gli versò sul corpo del bagnoschiuma e l’altro aprì l’acqua. Presero dal vano degli attrezzi una scopa e cominciarono a sfregargli le setole sul corpo. Vortici di un fluido nauseabondo furono risucchiati dal gorgo dello scarico e quando l’acqua riacquistò la sua naturale trasparenza, chiusero il rubinetto. Lo asciugarono, lo obbligarono a sedersi su una sedia e gli vaporizzarono addosso un liquido oleoso dall’odore acre. 

    La Gazza inspirò, poi fece una smorfia accentuando le rughe sugli zigomi e si ricompose nella consueta espressione di una sfinge insensibile. 

    «Bene», disse un aguzzino porgendo una lametta all’altro, «ora fagli la barba e rendi questo animale leggermente umano». 

    Il respiro di La Gazza inciampò nelle narici ed emise un rantolo. Divento paonazzo, le labbra si scolorirono, si aprirono in un gemito e dalla bocca fuoriuscì della copiosa bava bianca. 

    Poi sussultò, come se fosse percosso dall’interno e stramazzò sul pavimento.

    «Porca puttana! Che diavolo succede?»

    «Forse abbiamo esagerato con la quantità di antiparassitario». 

    «Se muore, il capo ci scanna». 

    «Muoviti avvisa l’infermeria», balbettò portandosi le mani sui capelli. 

    L’aguzzino in preda al panico esitò alcuni istanti e l’altro gli andò dietro dandogli uno spintone per sollecitarlo.

     La Gazza, con lo scatto di un felino, allungò il braccio, prese il rasoio lasciato incustodito e con la velocità della folgore estrasse la lama e se la mise in bocca. 

    I paramedici arrivarono in un baleno e con solerzia si accinsero ad avviare le procedure di rianimazione. 

    «Cos’è successo? Diteci qualcosa, è in pericolo di vita?» domandò uno dei boia a un’infermiera. 

    «Non c’è motivo di preoccuparsi, è tutto a posto». 

    La guardia fece un sospiro di sollievo e proseguì: «Cos’è successo allora?»

    «I parametri relativi alle funzioni vitali, pressione arteriosa, pulsazioni e via discorrendo sono tutti nella norma, per cui, non solo escludo che sia in pericolo di vita, ma, addirittura, ritengo superfluo effettuare eventuali accertamenti». 

    «Grazie, grazie mille». 

    «Prego, arrivederci».  

    «Figlio di puttana!», inveì inviperita una guardia, «ora, grazie a questo scherzetto, ti farai un altro mese di isolamento», continuò a strillargli con gli occhi infiammati dal livore, accostando il proprio viso al suo. 

    La Gazza percepì con disgusto il fetore del suo alito e provò nausea. Poi, con l’accortezza di non muovere le labbra, fece scorrere la lametta tra la lingua e la posizionò sull’arcata dei denti inferiori, ci serrò quelli superiori e con la mandibola esercitò una forte pressione, poi con l’agilità di un rapace roteò la testa verso sinistra, aprì la bocca, fece scattare la lama in avanti e, con un repente movimento a destra, gliela conficcò nella carne proseguendo per tutta la lunghezza della base del collo. 

    Il sangue sgorgò in un uniforme fiotto. Il boia gemette, provò a strillare ma un singhiozzo gli si strozzò in gola. Si strinse il collo con le mani per arginare l’emorragia, ma il sangue che filtrava dalle dita disegnò una cravatta rossa che si espanse colorando tutta la camicia. Impallidì come un lenzuolo e collassò, accasciandosi. Il complice inorridì, sgranò gli occhi come se volessero uscirgli dalle orbite e cominciò a strillare come un invasato.

    L’espressione apatica di La Gazza non cambiò, solo l’angolo del labbro sinistro ebbe una flessione verso l’alto, quasi a voler accennare un sorriso.

    II

    Il vicedirettore Morelli arrivò con quaranta minuti di anticipo. Camminò lungo l’arenile e raggiunse la battigia. Quartu alle sue spalle era appena illuminata. A occidente una tiepida sfumatura annunciava il tramonto e una solitaria nuvoletta si tinse di rosa. Stese un asciugamano, ci si adagiò sopra e stette a osservare le onde della risacca che frangevano prima di rinascere dalla propria spuma. Gli venne in mente una celebre poesia di Umberto Saba, paragonò la fragilità umana alla caducità delle onde e gli venne nostalgia. Rifletté su questa società e al valore immondo del denaro che da consumatori stereotipati ci ha prima consumati, poi reso vuoti e insensibili. Pensò a tanti dei propri ragazzi detenuti in una volgare cella e alla libertà perduta, barattata in cambio di due soldi. Poi si scrollò di dosso la malinconia e, a piedi scalzi, raggiunse La Marinella.

    Gli altri poeti cominciarono ad arrivare e ad accomodarsi sulle sedie accanto al suo tavolino. Provò un leggero imbarazzo e cercò di scacciarlo ordinando un drink. Una ragazza mora dalla voce squillante fece una fugace presentazione. Spiegò che l’incontro era, innanzitutto, un’occasione per trascorrere una  serata con gli amici in riva al mare, ma non escluse che, in seguito, si sarebbe potuta evolvere in qualcosa di più serio, auspicando un’eventuale raccolta da pubblicare. Dopo, tacque alcuni istanti, sorseggiò dell’acqua fresca e chiamò sul palco il primo poeta per dare inizio al reading letterario. 

    Altri curiosi, in transito sulla spiaggia, si fermarono nel chiosco e stettero a sentire. Il vicedirettore ascoltò con attenzione le poesie e alcune volte non riuscì a contenere l’emozione, ritrovandosi commosso, ma quella che più lo colpì fu, paradossalmente, la poesia che recitò una ragazza dalla bellezza misteriosa che, con frivola ironia, parlava di un asino che dopo una botta in testa si risvegliò convinto di essere un cavallo da corsa. Arrivò il suo turno e il vicedirettore Morelli sentì una leggera vertigine cingergli le tempie. Affannò, respirò più velocemente e la fibrillazione gli fece pulsare il cuore con maggiore intensità. Cercò di scandire bene le parole. 

    «Visto che siamo al Poetto, mi sento in dovere di provare a recitare questa piccola poesia:

    Poetto

    Antiche impronte

    sotto stelle canterine

    dove in attimi di sabbia

    impantanato era il cuore

    Orme di ricordi

    restituite da riflussi

    danzando ancora

    deformano battigie

    Oscillando dolce

    da una marea lontana

    galleggia un bacio». 

    Ci fu un profondo silenzio, violato solo dallo sciacquio della risacca. Poi partì un applauso ed egli gioì orgoglioso. 

    Il vicedirettore Morelli tornò al suo posto e rimase a bearsi godendo di soddisfazione, ma uno squillo di telefono interruppe l’effimera felicità.

    «Pronto?»

    «Vicedirettore Morelli, La Gazza ha tentato di uccidere l’agente Bolchi». 

    «Cosa? Com’è successo?»

    «Gli ha tagliato la gola con una lametta». 

    «Arrivo immediatamente». 

    Raccolse le sue cose e corse via senza nemmeno salutare. Raggiunse l’auto e pigiò col piede sull’acceleratore con quanta più pressione poté. La coda di un semaforo gli fece rallentare l’andatura e sbuffò. Quando scattò il verde sterzò a sinistra e sorpassò, lasciandosi la fila di automobili alle spalle.

    Varcò il cancello e lasciò l’auto in mezzo all’asfalto del piazzale, senza nemmeno parcheggiarla.  Strisciò il badge e si lasciò il portone del carcere alle spalle. Si fiondò in infermeria, spalancò la porta e sulla soglia una voce lo incalzò: 

    «L’abbiamo preso per i capelli. Qualche millimetro più a fondo e gli avrebbe reciso la carotide».

    «Oddio!», esclamò,  «dov’è ora?»

    «In ambulanza verso l’ospedale Brotzu. Noi abbiamo eseguito la prassi di primo pronto soccorso, arginato l’emorragia, messo qualche punto di sutura, ma credo che quel disgraziato ne avrà per molto tempo».  

    «Grazie dottoressa». 

    «Di nulla vicedirettore, è il mio lavoro». 

    Il vicedirettore Morelli raggiunse il suo ufficio e si lasciò cadere sulla sedia. Accese una sigaretta, fece delle profonde tirate e rimase inebetito a fissare il lampadario. Compose il numero della linea interna e sganciò la cornetta.

    «Agente Scalas, sono Morelli, c’era qualcuno insieme all’agente Bolchi quando è stato aggredito da La Gazza?»

    «Buongiorno. Sì, c’era l’agente De Marchi». 

    «Appena è disponibile mandalo nel mio ufficio». 

    «Signorsì, provvedo subito». 

    Il vicedirettore Morelli provò sconforto. Prese un libro dalla scrivania, lo aprì con pudore, estrasse una foto e fu aggredito da una profonda solitudine. Era da tempo che non guardava quello scatto e provò mestizia. Gli occhi gli si velarono di un lucido rossore e dovette trattenere una lacrima. Si rivide insieme al fiore profumato della beata gioventù. Annusò la fragranza appassita della felicità andata e provò sconforto.  Osservò il vestito candido da sposa reciso da un’ingiusta malattia come la falce amputa il gambo dei gigli e il pianto gli si strinse in gola col suo nodo. Si avvicinò alla finestra, prese una boccata d’aria e cercò di assemblare i cocci della propria vita.

    «Permesso?»

    «Avanti». 

    «Sono forse arrivato in un momento inopportuno? Se vuole, ripasso più tardi», dichiarò l’agente, notando l’evidente malessere di cui era pervaso il vicedirettore.

    «No, accomodati pure De Marchi. Facciamo in un attimo. Ho solo qualche domanda da porti», replicò provando vergogna.

    «Eccomi». 

    «Bene, cos’è successo?»

    «Stasera, io e l’agente Bolchi, siamo andati nella cella di La Gazza per servirgli la cena. Ci siamo accorti, con rammarico, che somigliava più a un animale che a un essere umano. Sollecitati ulteriormente dalla puzza che emanava ci siamo offerti, con cortesia, di accompagnarlo alle docce per dargli le sembianze di un cristiano. Dopo averlo insaponato, sfregato, risciacquato e reso lindo, lo abbiamo deodorato e profumato, ma non pago l’agente Bolchi ha avuto la malsana idea di raderlo. La Gazza ha avuto, prima, un malore e, preoccupati, abbiamo avvisato l’infermeria.  Dopo che la dottoressa ci ha rassicurati sulle sue condizioni, non ci ha lasciato nemmeno il tempo di tirare un sospiro di sollievo che si è avventato su Bolchi come un animale rabbioso, cercando di sgozzarlo». 

    Il vice direttore lo fissò senza sbattere le palpebre, la guardia lo sfidò con gli occhi fieri, senza distogliere lo sguardo. 

    Morelli fece un’espressione cipigliosa da cui trapelò un sorriso amaro e lo congedò. L’aguzzino si voltò, gli diede le spalle e se ne andò sprezzante col petto in fuori e con incedere solenne, ma una telefonata ne ridimensionò l’alterigia facendogli scivolare l’orgoglio sotto i tacchi.

    «Cosa diavolo avete combinato?»

    «Scusi capo. La situazione ci è leggermente sfuggita di mano, ma ora ho sistemato tutto». 

    «Sistemato tutto un corno. Maledetti incapaci. Se Morelli avvisasse quelli del ministero e partisse un’inchiesta, persino io avrei difficoltà a ripianare

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