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La morte ti presenta il conto: La nuova indagine del magistrato Elena Macchi di Varese
La morte ti presenta il conto: La nuova indagine del magistrato Elena Macchi di Varese
La morte ti presenta il conto: La nuova indagine del magistrato Elena Macchi di Varese
E-book252 pagine4 ore

La morte ti presenta il conto: La nuova indagine del magistrato Elena Macchi di Varese

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Info su questo ebook

Ambientato nell’estate del 2019, in un luglio torrido, il noir si apre con una prefazione degna di un horror, in cui si descrive la tortura eseguita da un misterioso assassino su un uomo, prima di ucciderlo. La vittima è Enea Maggi, titolare insieme al fratello Amedeo, di una ditta che fabbrica macchinari per la lavorazione della gomma. Il suo cadavere mutilato viene rinvenuto dalla donna delle pulizie. Il P.M. Elena Macchi viene chiamata sul luogo del delitto. Le indagini hanno inizio. Anche in questo quinto episodio che la vede protagonista, il magistrato Macchi è affiancata dal sostituto commissario Antonio Pozzi e dal commissario capo Auteri della questura di Varese. Elena Macchi si reca a Vedano Olona, dove ha sede la Maggi S.r.l. per parlare con Amedeo. Qui conosce Paola Carnevali, la giovanissima segretaria, un tipo un po’ particolare, con la quale il P.M. riesce a instaurare un buon rapporto che le sarà di aiuto per scoprire la verità sul caso. Il misterioso assassino colpisce di nuovo, rendendo ancor più intricata la matassa. La seconda vittima, infatti, il commercialista Renato Balivo, pare non avere nulla in comune con la prima e le indagini si fanno sempre più complesse. A queste si intrecciano le vicende della vita personale del magistrato, focalizzata intorno alle figure di un compagno e di due genitori anziani, di cui la madre gravemente malata. Nello svolgimento della vicenda, subentrano a un tratto nuovi personaggi, come la escort Marina Monti e l’ingegner Riga, e diversi altri di contorno atti a narrare una storia che condurrà a un’inattesa soluzione del caso. La storia si svolge tra Varese (il centro, la zona del tribunale e la questura in primis; Casbeno, Vedano Olona, le grotte della Valganna, Casciago, Calcinate del Pesce, Gavirate, Campo dei Fiori), San Bernardino e Milano (Cadorna, Castello Sforzesco, Parco Sempione, El Porteño Arena).

Laura Veroni è nata e vive a Varese. Ha esordito come scrittrice di racconti gialli, vincendo il premio di migliore scrittura femminile nel concorso Giallo Stresa 2013 con il racconto La Chiesa. Ha pubblicato I Delitti di Varese, Fratelli Frilli Editori 2016, Varese, non aver paura, Fratelli Frilli Editori (Menzione Giallo Garda 4^ edizione) 2017, Il fantasma di Giada, Fratelli Frilli Editori, collana “I Frillini” 2018, Concerto di Morte, Fratelli Frilli Editori 2018, Il ruolo, Autodafé Edizioni 2017, Il passato non muore, Fratelli Frilli Editori 2019, Thanatos, pulsione di morte, Amazon 2020, Il mostro del Verbano, Morellini Editore 2020. Grazie ai suoi racconti ha vinto i premi: Cartoline di Natale 2013, Premio Europa 2018, concorso Beggi 2020, Giallo Trasimeno 2021.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2021
ISBN9788869435720
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    La morte ti presenta il conto - Laura Veroni

    1

    GIUGNO 2019

    «Lore, accenderesti il gas e metteresti l’acqua nella pentola?». La voce del P.M. Elena Macchi risuonò forte e chiara dal bagno e attraversò il corridoio, raggiungendo Lorenzo che girovagava per casa ancora in boxer e canotta.

    «Per quanto ne hai?».

    «Dieci minuti e sono pronta. Devo solo asciugare i capelli». Il tono era leggermente calato di intensità.

    Lorenzo Chiari avvertì il rumore del phon sovrastare la voce della compagna.

    «Sì, ma se poi l’acqua bolle, che faccio?», urlò per farsi sentire. «Devo buttare la pasta? Quale?». Non ottenendo risposta, si diresse in cucina, aprì l’anta del pensile e scrutò con aria indecisa le diverse confezioni accatastate disordinatamente nella dispensa.

    Cazzo, Elena, quando ti deciderai a essere un po’ più ordinata?, pensò, mentre alcuni sacchetti rotolavano fuori, rovesciandosi sul pavimento. Sollevò lo sguardo al soffitto. «Mi piacerebbe tanto vedere la tua scrivania in tribunale. Dubito ci sia tutto questo caos. Sei una pessima donna di casa. Forse è anche per questo che mi piaci». Pronunciò quelle parole sottovoce, immaginando di averla lì davanti. Si chinò a raccogliere i sacchetti caduti e li ripose nella dispensa, cercando di ordinarli un po’. Ce n’erano di tutte le marche, mai che si affezionasse a una.

    Dalla cassettiera estrasse una pentola sufficientemente profonda, la riempì d’acqua poco oltre la metà e accese il fuoco. La fiammata azzurrognola si estese oltre il fondo. Ruotò leggermente la manopola del gas e diminuì l’intensità.

    «Ele», chiamò a gran voce. «Spaghetti, penne, tortiglioni: cosa vuoi?».

    Lorenzo percorso il corridoio e si affacciò sulla porta del bagno.

    Elena gli voltava le spalle, la schiena china in avanti, la testa rivolta al pavimento, mentre la ventata d’aria calda le scompigliava i capelli. Non lo sentì nemmeno entrare.

    Lorenzo rimase un istante ammirato a guardarla. Era coperta da un asciugamano fucsia avvolto attorno al petto. Le gambe lunghe dalla muscolatura forte mostravano la definizione del bicipite femorale in tensione per la posizione a novanta gradi.

    Lorenzo si avvicinò in silenzio e si inginocchiò dietro di lei, sollevò leggermente l’asciugamano e le baciò le natiche. Il P.M. non si scompose, un sorriso le increspò le labbra. «Continua», gli disse, senza spegnere il phon.

    Lorenzo non se lo fece ripetere. Elena Macchi cominciò a ridere di quella situazione, stimolata dal solletico che le labbra di lui provocavano sul suo generoso fondoschiena, ma l’ilarità cessò subito, non appena i baci si fecero più audaci e lui sprofondò il viso nella sua intimità. Allora spense il phon e rimase immobile in quella posizione, in attesa dell’esplosione del piacere. Raggiunse l’orgasmo in pochi minuti, si alzò, si voltò verso di lui, sciolse il nodo all’asciugamano, gli sfilò i boxer, lo spinse contro il bordo della vasca e gli si sedette sopra. Lorenzo scivolò dentro di lei.

    Quando Elena raggiunse la cucina, l’acqua era quasi del tutto evaporata e il piano cottura schizzato da migliaia di goccioline. Tolse la pentola dal fuoco, aprì il rubinetto e la riempì di nuovo, quindi la rimise sul gas. Lorenzo le gironzolava attorno con aria ancora vogliosa. Le si appoggiò alla schiena nuda e le prese i seni tra le mani.

    Lei si voltò e gli sorrise. «Ma sei un insaziabile porco». Gli infilò la lingua in bocca e lo strinse a sé, afferrandolo per le natiche fino a sentire il suo membro duro premere forte contro il ventre, quasi a trapassarlo. Lorenzo la fece voltare e la penetrò di nuovo, mentre lei si teneva stretta al tavolo.

    Quand’ebbero finito, entrambi sazi e appagati, si scambiarono uno sguardo di tenerezza.

    «Ti amo, Elena». Questa volta lo disse ad alta voce.

    Lei si limitò a sorridergli. «Adesso, però, vestiamoci, che ho un altro tipo di languore: il mio stomaco reclama cibo».

    «Ci credo, con tutte le calorie che hai bruciato!», scherzò lui, dandole una pacca sul sedere.

    Tornò in cucina poco dopo con addosso un paio di jeans corti e una canotta. «Tieni, mettiti questi!». Gli lanciò i pantaloncini della tuta da jogging e la maglietta abbinata.

    «Tortiglioni all’arrabbiata?», domandò, cercando il sugo pronto nel vano conserve.

    «Con il caldo che fa, eviterei il piccante». Lorenzo cominciò ad apparecchiare la tavola. «Pomodoro e basilico?».

    «Non c’è», Elena scostò i vari vasetti e glieli elencò: «Arrabbiata, amatriciana, pesto ligure, pesto siciliano, pecorino e pomodorini secchi... altrimenti acciughe e capperi».

    «Acciughe e capperi».

    Il P.M. pose il vasetto sul pianale accanto ai fuochi.

    «Che ne diresti di andarcene via qualche giorno nel fine settimana?», propose Lorenzo. «Ti va di andare in una località di lago? O magari in montagna? Andiamo in cerca di un po’ di fresco. Qui il caldo si sta facendo soffocante. Pare che la settimana prossima aumenterà ancora. Ho delle ferie arretrate da prendere e tu non mi sembra abbia casi particolarmente importanti da seguire».

    «Vero, nulla che non possa aspettare. Fortunatamente solo roba ordinaria. Accetto volentieri. Hai già in mente una meta?».

    «A dire il vero no. Vuoi proporre tu?».

    «Lago di Garda? Sirmione, magari. Mi piacerebbe tornarci. Ci sono stata tanti anni fa e ne ho un ottimo ricordo».

    «Farà caldo, però. Non sarebbe meglio la montagna? Magari in Trentino?».

    Elena storse la bocca. «Non ho voglia di mettermi in viaggio ore. Sicuramente troveremmo code. Un posto più vicino? Val d’Aosta?».

    «Le escursioni del Trentino sono migliori», obiettò Lorenzo, mescolando la pasta.

    «E va bene, mi hai convinta. Ma guidi tu. Io mi voglio rilassare».

    «Andata. Dopo pranzo facciamo una ricerca in Internet e prenotiamo».

    «Assaggia un po’ la pasta. Non vorrei scuocesse».

    Lorenzo prese un tortiglione col cucchiaio di legno, ci soffiò sopra e fece per portarlo alla bocca. Elena glielo rubò fulminea con le dita e lo addentò. «Cotta. Scola!».

    «Agli ordini, capo».

    2

    MATTINO ORE 9:30

    Denata Zyka si apprestò a prenotare la fermata, premendo con il dito indice sul pulsante rosso. Lo smalto era in tinta, ma, sbeccato su più unghie, metteva in evidenza una certa trascuratezza della persona. Il sacchetto di plastica appeso al braccio frusciò contro la sbarra metallica alla quale la donna sulla cinquantina si era aggrappata. Una chiazza scura sotto l’ascella testimoniava il suo malessere nel trovarsi all’interno di quel mezzo i cui finestrini parevano bloccati. Qualche passeggero aveva già tentato inutilmente di aprirli. Sentiva il sudore colarle in rigagnoli lungo la schiena e imperlarle la pelle del viso, specialmente la fronte, sulla quale ricadeva una ciocca di capelli tinti di un biondo paglierino, e la parte compresa tra il naso e il labbro superiore.

    Con la mano libera, prese un fazzoletto dalla tasca dei jeans e si tamponò alla bell’e meglio. C’era uno sgradevole odore di sudore nell’autobus ed era certa che non si trattasse unicamente del proprio. Contava mentalmente i minuti che la separavano dalla fermata. Ancora poco e sarebbe finalmente scesa.

    Alle 09:32 precise, la linea C sostò alla fermata di via Quintino Sella. Le porte si aprirono con un rumore simile a uno sbuffo e una folata di aria calda invase l’abitacolo. Denata scese i gradini metallici e si trovò in strada. Sperò di trovare un po’ di aria fresca fuori dall’autobus, invece dall’asfalto saliva già un calore rovente nonostante fosse mattino presto.

    Percorse un tratto di strada in discesa, mentre il bus richiudeva le porte e proseguiva la sua corsa lungo la salita alla volta del Sacro Monte. Sfilando davanti alla maestosa villa in giallo lombardo, formulò il solito pensiero che la coglieva ogni volta: quanto le sarebbe piaciuto abitare là dentro con la sua famiglia. Le mancava tanto, forse troppo. Non si sarebbe mai abituata a quella distanza, che non era solo fisica, era soprattutto mentale, emotiva. Lismor, il suo ex marito, l’aveva lasciata da circa un anno, dopo averle detto, una sera, tornando dal bar, che era solito frequentare con gli amici, che non la sopportava più e non aveva intenzione di trascorrere il resto della sua vita con una donna sciatta come lei. Sul momento, Denata non aveva dato peso a quelle parole, pronunciate da un ubriaco e uscite dalla bocca miste all’odore dell’alcol. Era certa che, dopo una sana dormita, il mattino seguente le avrebbe chiesto scusa per quella sortita infelice, le avrebbe detto che si era trattato di una frase suggerita dal vino, non dal cuore, come già era capitato altre volte. Invece Lismor era crollato sul divano e, al risveglio, si era alzato, si era diretto in camera da letto, aveva aperto l’armadio e aveva cominciato a svuotarlo delle proprie cose, impilandole disordinatamente sopra il materasso. Che stai facendo?, gli aveva chiesto visibilmente preoccupata. Non lo vedi? Preparo la valigia. La valigia per fare che?. Ma allora non hai capito un cazzo ieri sera, aveva esclamato senza nemmeno guardarla in faccia. Ti ho detto che non voglio più stare con te. Me ne vado. Te ne vai?. Aveva ripetuto, quasi in cerca di un’inutile conferma. Ma perché?. Lismor allora aveva sollevato gli occhi su di lei che lo guardava con apprensione, mentre un lieve tremore le increspava le labbra. Ho conosciuto un’altra donna, aveva detto, smettendo di impilare i vestiti. Un’altra donna?. Ma la smetti di ripetere quello che dico? Ti mollo, ti lascio, mi fai ribrezzo. Ecco, sei soddisfatta adesso?. Quelle parole le erano giunte come una cannonata in pieno petto. Si era sentita spazzata via in un istante. E chi sarebbe questa donna?, aveva trovato la forza di dire con un filo di voce. Non ti riguarda. Ti dico solo che è una molto più bella di te. Ma ti sei vista? Ti sei ridotta a una balena, non c’è più niente di attraente in te, non hai il minimo amore per te stessa. Come pensi di potermi ancora piacere?. Denata si era sentita salire un nodo alla gola, le lacrime le avevano invaso gli occhi e offuscato la vista. Non era colpa sua se era diventata così: era stato lui a metterla incinta, via un figlio sotto l’altro, esattamente come aveva fatto suo suocero con la moglie. E adesso, come poteva trattarla in quel modo? Ma, soprattutto, come poteva farcela ad andare avanti senza di lui? Lismor rappresentava l’unica fonte di sostentamento per la famiglia. Lei non possedeva il becco di un quattrino, non avendo mai lavorato, occupata unicamente a crescere i loro sei figli. Se n’era andato così, senza dire altro. Non le aveva nemmeno fatto recapitare la lettera dall’avvocato. Denata era a tutti gli effetti ancora la moglie di Lismor, anche se lui viveva con un’altra donna e non l’aveva più cercata. Si era dimostrato un gran bastardo, perché non si era più preoccupato nemmeno dei figli, che ora vivevano a Coriza con la nonna materna. Le mancavano terribilmente i suoi affetti e li avrebbe voluti lì con sé, in quella grande villa dalle pareti gialle che si era appena lasciata dietro.

    Imboccò via Adige e percorse un altro tratto di strada sotto il sole cocente. I tacchi, sotto la pressione del peso corporeo, lasciavano l’impronta su un asfalto bollito dal calore di quell’estate rovente.

    Arrivò davanti all’edificio della sua destinazione, una vecchia villa padronale, da poco ristrutturata. Prese il mazzo di chiavi dalla borsetta e aprì il cancello pedonale. Percorse il vialetto di sampietrini e raggiunse l’ingresso. Inserì la chiave nella porta e la aprì. Meno male all’interno c’era meno caldo. Le pareti spesse della vecchia casa isolavano abbastanza bene i locali. Posò la borsa sull’attaccapanni, sfilò i sandali e tirò fuori dal sacchetto di plastica le ciabatte infradito. Dispose con ordine le scarpe accanto allo zerbino e si diresse verso lo sgabuzzino in fondo al corridoio, a ridosso dell’ingresso della cucina. Prese scopa, aspirapolvere, spazzolone, secchio e straccio, poi cercò sugli scaffali un detersivo adatto per lavare i pavimenti.

    Avrebbe cominciato dal piano terra: ingresso, cucina, bagno e, per ultimo, soggiorno, come di consueto. Nelle pulizie era metodica più che mai. Nel pomeriggio si sarebbe dedicata al piano superiore: tre camere da letto, due bagni e studio. Diede una passata con la mano al pavimento dell’ingresso: era ancora pulito. Cercò di guardare il marmo in controluce: nessun alone. Non sarebbe stato necessario lavarlo, sarebbe bastata una passata con il panno cattura polvere. Conosceva bene la maniacalità del suo datore di lavoro e quanto tenesse ad avere la casa linda, però, diamine, su quel pavimento ci avrebbe pure potuto mangiare!

    Arrotolò il grande tappeto Shiraz e lo spostò ai piedi della scala che portava al piano superiore, inserì la spina dell’aspirapolvere nella presa della corrente e cominciò a passare il pavimento, iniziò a muovere ritmicamente la macchina avanti e indietro. Soltanto dopo avrebbe passato lo swiffer, per raccogliere la polvere residua, sempre che ce ne fosse. Era una fortuna che in quella casa non vivessero animali. Ricordava bene cosa volesse dire raccogliere peli di gatto e di cane quotidianamente, dal momento che a Coriza aveva vissuto per anni con un persiano dal pelo lungo e con un labrador. I peli erano una vera ossessione: non ce ne si liberava mai.

    Le sovvenne una canzone della Oxa, la sua cantante preferita. Chissà che fine aveva fatto quella voce meravigliosa. Albanese come lei, in pochi, forse, lo sapevano. Anche lei, per qualche tempo, aveva abitato a Varese. Che strana coincidenza. Chissà se era felice oppure no... Mentre formulava questi pensieri, cominciò a canticchiare.

    Quanti ricordi dietro me

    Li segnerò nel diario della vita

    E terrò quei vecchi batticuori nel presente mio

    Di bianco e rosso vestirò.

    Sarò un angelo per te

    Quella donna che puoi stringere sul cuore

    Ma se occorre come il sole i tuoi sensi accenderò

    E piano piano poi li spegnerò.

    Gran bella donna la Oxa... Fosse stata anche lei così, sicuramente suo marito non si sarebbe cercato un’altra. A ripensare all’ultima volta in cui aveva visto Lismor, le salirono le lacrime agli occhi. Le sue parole bruciavano ancora, come alcol su una ferita aperta.

    Se si fosse messa a dieta, magari ce l’avrebbe fatta a conquistare una linea aggraziata e a essere ancora attraente, come quando lo aveva conosciuto e gli aveva fatto perdere la testa. Scrollò il capo. «Che pensieri idioti, Denata», disse ad alta voce. «Chi potresti più conquistare alla tua età? Chi vorrebbe mai una donna con sei figli, senza cultura, senza ambizioni, se non quella di lucidare a specchio un pavimento?». Tirò su col naso e ricacciò le lacrime con il dorso della mano.

    Terminato l’ingresso, venne il momento della cucina. Raccolse le sedie e le mise rovesciate sul tavolo, quindi cominciò a passare la scopa sulle piastrelle. Subito dopo, riempì il secchio di acqua calda e vi versò il detersivo che profumava di limone. Passò lo straccio con lo spazzolone e, nell’attesa che il pavimento asciugasse, si dedicò alla pulizia del bagno. Era un bagnetto piccolo, quelli belli erano ubicati al piano superiore, con tanto di vasca idromassaggio e quella che il suo datore di lavoro chiamava doccia emozionale, impreziosita di luci colorate ed essenze che scendevano insieme all’acqua. Questi ricchi...

    Ora mancava solo il soggiorno, dopodiché avrebbe fatto una meritata pausa.

    Entrò canticchiando un altro motivo della Oxa, aspirapolvere tra le braccia.

    Sarebbe facile guardarsi

    Appena e scivolare via

    Ma la mano mia cade nella tua

    E col fatto che si resta amici

    Com’è giusto che sia

    Scarto l’idea di domandare a te

    Senza di me cosa si fa

    Nei pomeriggi troppo blu

    Senza me chi sarà

    A darti un bacio di più

    Sarebbe inu...

    L’aspirapolvere le cadde dalle braccia, schiantandosi con gran rumore sul pavimento.

    Denata si portò una mano alla bocca.

    «Zoti i shenjtë!».

    3

    «Buongiorno, Dottoressa». La voce del commissario capo Auteri investì il P.M. al suo ingresso nel soggiorno della villa. Il materiale plastificato dei copriscarpe azzurri accompagnò i passi della Macchi.

    «Brutta morte», commentò il commissario capo, indicando con un cenno della testa la vittima.

    La scena che si era aperta alla vista del P.M. era a dir poco sconvolgente: un uomo giaceva legato su una sedia, mani e caviglie immobilizzate con dei bloccacavi, un sacchetto di cellophane sulla testa, fissato con del nastro adesivo intorno al collo. Attraverso la plastica trasparente se ne poteva vedere il volto: gli occhi erano sbarrati, in un’espressione mista di terrore e dolore, la bocca spalancata, come fosse stata ancora in cerca di ossigeno o di lanciare un ultimo spaventoso grido, la pelle bluastra.

    La

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