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Mappin, Nanni e gli altri
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Mappin, Nanni e gli altri
E-book221 pagine2 ore

Mappin, Nanni e gli altri

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Info su questo ebook

Costanza penetra tutti i giorni nelle vite di bambini che, come Mappin, Nanni, Tsing e Giò Giò, vivono una quotidianità fatta di disagi, difficoltà e, a volte, traumi indelebili.
Le loro storie si intrecciano a situazioni e persone diversissime nella ricerca di un’esistenza migliore.
Una volta tornata a casa, Costanza si trova a ripercorrere le proprie giornate di lavoro e non può fare a meno di porsi sempre lo stesso quesito: perché questi bambini devono avere a che fare con una realtà così dura e un cammino così impervio?
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2020
ISBN9788835826002
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    Anteprima del libro

    Mappin, Nanni e gli altri - Federica Ciravegna

    Giò

    Mappin

    «Tu come ti chiami?».

    «Costanza».

    «Io Mappin».

    «Ciao Mappin».

    «Vieni, Costanza, voglio farti vedere una cosa».

    Mappin mi afferra una mano e mi trascina in camera sua.

    «Ma che bella cameretta! È coloratissima!».

    Ecco, è arrivato il momento. Sto entrando nella sua vita.

    Mappin ha dieci anni. Vive con i nonni paterni. Non ha né fratelli né sorelle. La mia collega di là, in soggiorno, parla coi nonni.

    «Dalla prossima settimana Costanza farà parte della squadra. Lavoreremo tutti insieme con Mappin, per Mappin».

    «Va bene. Va benissimo. Siete voi a decidere. Per noi non ci sono problemi. Da parte nostra c’è la più totale disponibilità. Lo sapete. Se avete deciso così… Se i servizi sociali hanno deciso così…».

    È il nonno di Mappin a parlare. La nonna continua a fare cenno di sì col capo, qualsiasi cosa dica il marito.

    Mappin mi guarda ma senza vergogna. È in sovrappeso. Ha qualche chilo di troppo, sulla pancia e sulle braccia. La osservo attentamente cercando però di apparire discreta.

    «La prenderai a scuola. All’uscita. Tutti i lunedì. Lì ci sarà anche sua madre ad aspettare. Poi comincerà l’incontro protetto. Per tre ore. Fino alle sette di sera. Voi tre insieme», così mi aveva spiegato l’assistente sociale, qualche giorno prima in Municipio.

    Questo è l’ennesimo caso in cui si cerca di aiutare un minore a convivere con i propri familiari. In cui lo si tutela da eventuali nefandezze. Pericoli nella crescita.

    «Vuoi vedere i miei quaderni?».

    Mappin fa la quinta elementare. Lo leggo sulla copertina di uno dei quaderni.

    «Guarda che bei voti!».

    «Accidenti ma sei bravissima! Tutti questi bene e benissimo. Ti piace studiare».

    Mappin si compiace. Mi chiede di continuare a sfogliare le pagine. Ho già aperto un secondo quaderno. Stavolta di matematica.

    La camera di Mappin è piena di peluche. Le tende alle finestre sono stampate con un disegno di Walt Disney.

    Mi guardo intorno, alla ricerca di indizi che mi aiutino a entrare nel suo piccolo universo di bambina. Mi siedo sul letto, la vedo aprire un cassetto della sua scrivania. Fotografo tutto con grande attenzione. Cercando di catturare anche il più piccolo dettaglio che possa aiutarmi a comprendere meglio.

    Apre una borsetta di plastica. Tira fuori tante piccole boccette variopinte. Le appoggia sul letto dove sono seduta «Questi sono i miei smalti per le unghie. Me li ha comprati nonna. Guarda quanti colori!».

    «Sono tantissimi questi smalti! Sono tutti tuoi?».

    Sistemo le boccette, una accanto all’altra. Ordinatamente, continuando a sfiorarle con le dita, per mostrare interesse. Partecipazione.

    «Sì. Sono miei. Ma non li ho comprati tutti insieme. È da un po’ di tempo che nonna me li sta regalando».

    Mappin è una bambina dolcissima. Vorrei stringerla in un abbraccio. Per trasmetterle calore. Affetto. Fin da ora. A prescindere. Le accarezzo i capelli. Sono castani. Lisci e lunghissimi.

    La guardo mentre ripone gli smalti nell’astuccio.

    «Qualche volta, se ti va, te lo metto io lo smalto sulle unghie».

    Mappin sorride soddisfatta della mia proposta. Per me già questo è sufficiente. Spero che diventeremo amiche, partendo dalla sua fiducia nei miei confronti. Aspetto che rimetta gli smalti dentro al cassetto della scrivania. Poi le chiedo di tornare di là. Dagli altri.

    «Prenda un biscotto. Non faccia complimenti!».

    La nonna di Mappin mi indica il vassoio sopra al tavolo.

    La bambina afferra uno dei dolcetti. Mentre lo mastica continua a guardarmi.

    «Basta Mappin! Lo sai che non puoi mangiare tutti questi biscotti. Altrimenti ingrassi. Tra poco ceniamo».

    Qui in soggiorno c’è aria di circostanza.

    «Mi sembra che ci siamo detti tutto, no?».

    La mia collega sta per concludere l’incontro. I nonni ci accompagnano alla porta.

    Mentre sono sul pianerottolo Mappin mi lancia un’ultima occhiata fugace. Da dentro casa. Prima che la porta si chiuda. Le strizzo l’occhio in segno di complicità.

    «Che te ne pare? Che idea ti sei fatta? Della bambina. Dei nonni».

    La mia collega mi interroga mentre ci allontaniamo dall’abitazione di Mappin.

    «È presto per dirlo. Mappin mi sembra una bambina estroversa. A dispetto di tutto. I nonni appaiono disponibili. Collaborativi».

    Sono solo delle impressioni intuitive. Per quel poco che ho potuto osservare. Non voglio aggiungere altro. Ho paura di avere già detto troppo. Non voglio pronunciarmi a priori. Solo sulla teoria. Su quanto letto su carte scritte. Su valutazioni, relazioni tecniche o referti medici.

    «Hai ragione. La situazione è ben più complessa di quanto appaia. Avrai tempo di capire!».

    Mi congedo e mi infilo in macchina per tornare a casa.

    Fuori il buio e il freddo si sono fatti più penetranti. Mentre guido rifletto. Sull’incontro di poco fa. Con Mappin e con i suoi nonni. Sulla mezz’ora di conoscenza reciproca. Non mi sento più così tanto intimorita. Né preoccupata di fronte all’incognita di una nuova frequentazione. Al contrario. Ho voglia di infilarmi fin da ora dentro a questa ennesima avventura. Con l’auspicio di poter fare la differenza.

    «Eccola. È lei. È lei la mia nuova educatrice».

    Mappin mi indica col braccio teso alla sua professoressa. Sono sull’androne della sua scuola. Sono venuta a prenderla.

    «Allora vai. Puoi andare». Mentre mi raggiunge, Mappin sorride.

    «Oggi ci sono io con te. La nostra prima uscita insieme. Te lo ricordavi?».

    Ho sempre quel piglio scanzonato di cui mi servo per alleggerire la tensione.

    «Sì».

    Mappin si guarda intorno.

    «Mamma dov’è?».

    La cerca con lo sguardo ma senza vederla.

    «Non l’ho vista nemmeno io. Forse deve ancora arrivare».

    Ho conosciuto la madre di Mappin in Municipio. Me l’ha presentata l’assistente sociale. La settimana scorsa. Si chiama Seria.

    «Mi compri un pezzo di pizza? Ho fame».

    Proprio di fronte alla scuola c’è una pizzeria al taglio. Da lì posso accorgermi se, nel frattempo, arriva la madre di Mappin.

    «Andiamo mangiona!».

    L’accontento, anche se so che dovrebbe mangiare di meno. È una delle raccomandazioni che mi ha fatto la mia collega. A proposito delle sue cattive abitudini alimentari.

    «Ciao Mappin».

    Alle nostre spalle è arrivata Seria. Le chiedo se posso offrirle qualcosa.

    «Costanza, pago io la pizza di Mappin. Non si preoccupi».

    Rifletto in un attimo su quanto sia più opportuno lasciarle pagare il conto. È lei la madre di Mappin. Diversamente potrebbe sentirsi estromessa. Anche solo di fronte a questo mio piccolissimo gesto. Non voglio che accada. Farò in modo che non accada. Devo muovermi come una funambola. Facendo attenzione a non cadere. Dribblando le circostanze.

    «Andiamo Mappin. Mangi camminando. Tra dieci minuti devi essere a pallavolo».

    Procedo dietro di loro di qualche passo. Per lasciarle un po’ sole. Per quel poco che posso e che viene loro concesso.

    Ho le orecchie tese. Le sento chiacchierare. Seria fa delle domande a Mappin che risponde sbrigativamente. Devo anche ascoltare. Il mio compito è anche questo. Prevenire esternazioni eccessive. Fuori luogo. Da parte di Sera. Ai danni di Mappin. In nessun modo Seria può permettersi ancora di minare l’equilibrio della figlia. Come è già successo in passato.

    L’allenatore deve urlare per farsi sentire perché i bambini sono tanti e fanno chiasso. Sono seduta accanto a Seria, su una panca.

    «Prima vi riscaldate poi giochiamo. Cominciate a correre in cerchio. Vi dico io quando smettere».

    L’allenatore forma due squadre che iniziano a palleggiare. I miei occhi sono puntati su Mappin.

    «Mappin, per favore! Devi andare incontro alla palla. Non devi aspettare che ti arrivi addosso».

    Mappin non si muove speditamente. Non è agile. È per questo che viene più volte incitata all’azione dal suo allenatore.

    Seria non parla. È già uscita fuori, due volte a fumare. Guarda in silenzio Mappin giocare.

    «Mi sembra bravina però!».

    Cerco lo scambio con lei. Per sciogliere il ghiaccio.

    «Sì però mi ha detto che l’anno prossimo vuole cambiare sport. Si è stancata della pallavolo». Ha un viso dolcissimo. Come quello di Mappin. Sorride sempre. Anche senza farlo. Solo con gli occhi.

    «Vorrebbe iscriversi a hip hop. C’è un centro vicino a casa sua».

    Seria scandisce bene le parole quando parla. Non ha la bocca impastata. A dispetto della terapia farmacologica che prende da una vita. L’ha sospesa più volte di sua iniziativa. Perché la sedava. La stordiva e l’annebbiata. Rifletto su quanto possa essere stata insostenibile quella sensazione di torpore dovuta ai farmaci di cui però non può fare a meno. Il mio rispetto è incondizionato.

    «Perché no? Si potrebbe anche fare. È comunque attività fisica».

    La guardo negli occhi. Per essere sulla sua stessa lunghezza d’onda.

    Mappin ci ha raggiunte appena terminata la lezione.

    «Che vuoi fare adesso?».

    È lei a decidere cosa fare del tempo a disposizione con Seria. Quello del lunedì è uno spazio suo. Prima ancora che della madre.

    «Voglio tornare a casa, dai nonni».

    Seria ha il permesso di frequentare la casa dove Mappin vive con i nonni. È lì che andremo. Tutte e tre. Fino alle sette.

    Le lascio camminare alcuni metri avanti. Di nuovo. Come prima. Arriviamo a casa di Mappin. In soggiorno scambio due chiacchiere con i suoi nonni. Il tempo trascorre in un baleno.

    «Che dici Seria, ce ne andiamo?».

    Seria guarda l’orologio. È dispiaciuta. Ce l’ha scritto in faccia.

    Mi sono vista con Mappin e Seria già un po’ di volte.

    Oggi però mi vedo solo con Mappin. Seria sta male. Ha l’influenza. Salterà l’incontro con la figlia.

    «Mamma non viene. È a casa con l’influenza. Mi ha telefonato stamattina per dirmelo».

    Informo Mappin della defezione.

    «Sì, già lo sapevo. Ieri ha chiamato anche me».

    Mappin e la madre possono sentirsi telefonicamente durante la settimana. Ogni volta che ne hanno voglia.

    «Allora oggi ce la spassiamo da sole. Cosa ti va di fare?».

    Non ha pallavolo. Riprenderà a gennaio. Dopo le feste natalizie. Con il rientro a scuola.

    «Andiamo a farci un giro. Non voglio stare a casa».

    L’accontento. Cerco di farlo sempre quando posso.

    Gironzoliamo per il quartiere con la mia macchina. Col volume dello stereo molto alto. Come piace a Mappin.

    «Che hai fatto stamattina?».

    Glielo domando a ogni nuovo incontro, non solo per sapere come passa il tempo quando non va a scuola. Ma anche per farle arrivare il mio interesse. La mia partecipazione.

    «Sono restata a casa coi nonni. Non sono uscita».

    Le risposte di Mappin sono sempre molto scarne. Essenziali.

    Piano piano mi sto abituando a questa sua forma stringata di contraddittorio. Quasi inesistente. Non la rimprovero per questo, l’insofferenza verso il mondo degli adulti è tipica dell’adolescenza.

    «Vuoi che chieda a nonna di farti uscire più spesso?».

    «Uscire con mia nonna? Uscire più spesso con mia nonna? Ma stai scherzando?».

    Mappin è ironica nel dirlo. Tristemente ironica. È chiarissimo il messaggio. Le alternative però non sono molte.

    «Hai ragione ma purtroppo la situazione è questa. Però voglio aiutarti».

    Mi fermo con la macchina sul ciglio della strada. Spengo la radio.

    «Se vuoi aiutarmi, vieni tutti i pomeriggi da me. Portami fuori. Fammi uscire. Anche quando non lavori. Fallo per me!».

    In pochissime parole Mappin mi ha narrato una storia lunghissima. La storia della sua vita, delle sue privazioni.

    Mi convinco sempre di più di quanto spessore ci sia in questa bambina dalla maturità esagerata. Decisamente sproporzionata rispetto ai suoi pochi anni di vita. Mappin esterna solo se incitata. Altrimenti è bravissima a rimanere in silenzio. Senza recriminare. Subendo semplicemente gli eventi che le piombano addosso. In questo preciso momento mi arriva tutto il suo dolore. La sua rassegnazione. Mappin non piange. È solo molto arrabbiata. O almeno questo è ciò che mi mostra.

    Mappin mi chiede di ripartire mentre accende di nuovo la radio. La musica stride con questo momento di crude verità.

    Vorrei concludere il pomeriggio in maniera diversa da come sta procedendo. Per stemperare gli umori.

    «Ti va di andare a piedi al centro commerciale?».

    «No. Continuiamo a girare in macchina. Non mi va di camminare».

    Al diavolo tutti i miei buoni propositi di farla muovere. Se non ha voglia di camminare non camminerà.

    «Facciamo così. Oggi sarai tu a decidere per tutte e due su cosa fare. Va bene?».

    Le sorrido con la speranza di essere contagiosa.

    Mappin mi guarda sorridendo a sua volta.

    Adoro questa bambina. Me la sento incollata addosso.

    In una fredda mattina di dicembre facciamo una riunione di verifica per Mappin. Siamo nella stanza di un Municipio di una città del Nord Italia. Nell’ufficio dei Servizi Sociali. C’è tutta l’équipe che segue Mappin, al completo: l’educatrice, la collega che mi ha accompagnato al primo incontro, l’assistente sociale e la psicologa. L’assistente sociale è la coordinatrice del team e chiede, per primo, il mio intervento.

    «È importante il tuo parere. Mi servono le tue impressioni, le tue osservazioni e le tue valutazioni. Hai conosciuto Mappin da poco. Sei stata l’ultima a entrare nella squadra di lavoro».

    «Ho fatto, più o meno, sei o sette incontri protetti. L’ultimo è saltato perché Seria aveva la febbre. Ho potuto approfondire la conoscenza di tutte e due. Madre e figlia. Direttamente. Senza filtri o condizionamenti».

    Sono un po’ emozionata. Perché mi sento coinvolta svolgendo un lavoro ad alto tasso empatico.

    «Mappin mi ha accolta bene, fin da subito. Le sono simpatica. Me lo fa capire a ogni occasione. È una bambina estroversa. Aperta. Socievole a dispetto del suo passato. Ride. Ride spesso. Anche per niente. Sono contente di stare insieme. Parlano tra di loro. Parla più Seria di Mappin durante l’incontro. Seria è rispettosa delle regole. Non ha mai creato problemi con richieste fuori luogo. Si attiene a quanto le viene chiesto. Ha comportamenti adeguati alla situazione. Mi domanda sempre, prima di fare o di dire qualcosa. Anche troppo. Per il timore di sbagliare».

    «Tutto in positivo mi sembra», interviene l’assistente sociale. «È un buon inizio su cui procedere. Forse ci voleva un po’ di aria nuova. Una nuova educatrice da inserire. Forse un ciclo si è concluso. Per fare spazio a uno nuovo», poi mi ridà la parola.

    «Devo riferirvi però che Mappin ha degli improvvisi cambiamenti d’umore. Come se si innescasse in lei un meccanismo capace di mutare il suo stato d’animo. In negativo. In questi accessi cerco di assecondarla. Per farla aprire. Per far parlare quel disagio che affiora repentino. Che la trasforma, sottraendole la sua tranquillità mentale».

    Gesticolo presa dal vortice di quello che sto dicendo.

    «Quando racconta aneddoti del suo passato, che riguardano lei o la la sua famiglia, ho davanti una bambina diversa: una ragazzina schiacciata dalla sensibilità esasperata. Schiacciata dal peso della sua storia. Dalla vita che è costretta a vivere».

    Non aggiungo altro. Non entro nello specifico. Chiudo così il mio intervento.

    «Sono tutte dinamiche interne che hanno bisogno di venire fuori. Per poter essere esorcizzate. È un bene che la psicoterapia stia riuscendo a smuoverle qualcosa».

    L’assistente sociale lo dice guardano la psicologa di Mappin, poi ci scambiano considerazioni, in un contraddittorio costruttivo che si protrae per tutta la mattinata.

    Quando riuscirò a dare a Mappin, in termini di emozioni, più di quanto lei riesca a

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