Una pioggia di angeli scuri
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Anteprima del libro
Una pioggia di angeli scuri - Francesco Di Vicino
UNA PIOGGIA DI ANGELI SCURI
di Francesco Di Vicino
Prima edizione: novembre 2019
Tutti i diritti riservati 2019 ©BERTONI EDITORE
Via Giuseppe di Vittorio, 104 - 06132 Chiugiana (Perugia)
Bertoni Editore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata
Francesco Di Vicino
UNA PIOGGIA DI
ANGELI SCURI
Chi songh’i’?
Che cammino mmiezo ‘a via
parlanno ‘e libertà.
Pino Daniele
I
Seduto sulle bianche e polverose scale di casa, Svanito guardava le api tornare al loro favo, dentro un mattone bucato del muro dirimpetto, con le zampette cariche di polline. Il loro ronzio era musica d’estate. Attorno, il profumo di rose e fiori d’arancio, alimentavano in lui l’idea di un probabile Dio creatore e gli infondevano speranza. La speranza nell’oggi, ma era sua certezza che la festa del domani, sarebbe stata non meno stupenda di quella dell’oggi. La notte era solito viverla come una quiete attesa tra una festa e l’altra, suonata con accordi minori. La vita: un orgasmo di colori, profumi e cose da toccare con mano. Il segreto sarebbe stato l’avere sempre le mani pronte per sfiorare, tastare o stringere al momento opportuno, cioè sempre, la vita, e mai disposte a toccare, ciò che non lo fosse veramente. Le sue, erano mani che accarezzavano corde di chitarra e capelli di ragazze e che usava sventolare nell’aria per salutare suo padre al mattino, quando il vecchio andava al lavoro. Non avrebbero potuto tradire tutto ciò stringendo una siringa o una pistola. Seduto sulle bianche e polverose scale di casa Svanito pensò che fosse venuto il momento di alzarsi, di salutare con un sorriso Bel, il cucciolo spinone che sbavava e scodinzolava dietro il cancelletto verde sul terrazzo di casa e avviarsi verso la stazione.
Nel cortile ebbe una esitazione: la radio dava un pezzo dei Beatles e Svanito decise di non passare oltre con indifferenza, sarebbe stato irriverente verso quella splendida giornata. Chiuse gli occhi e appoggiò le mani al vecchio muro con l’intonaco scuro e ruvido e pieno di piccole buche dove erano solite posarsi leggere farfalle per riscaldarsi al sole, con le ali aperte. Voleva ascoltare meglio, fino a dentro le ossa, quelle note, quelle voci di folletti felici.
La canzone finì e Svanito riaprì gli occhi e riprese il cammino con l’espressione in volto di chi è sazio.
Una canzone non è mai solo una canzone
pensò.
Questa è una legge fisica, o forse, chimica. Chimica, si chimica, senza dubbio, perché crea un piacere mentale, una reazione che si ripercuote su tutto il corpo. Si... proprio chimica!
Quella mattina, come tutte le mattine, Svanito aveva lo sguardo di chi vuole vivere per sempre, i piedi di chi ama correre lento e in mente gli giravano note del passato prossimo. Uscendo dal cortile oltrepassò un dosso che tutti chiamavano saglie e scinne
e si diresse verso la ferrovia, dal lato opposto del Triste rione, dove conobbe il suo primo amore. Amore che durò materialmente poco, ma che lo accompagnò per svariate stagioni con i suoi tormenti. Il suo primo amore, che lui amava ricordare come primo bacio
. Bacio che, come una bella canzone, portò al suo giovane cuore, un piacere nuovo, partendo da un punto ben preciso, per poi irradiarsi, in maniera amplificata, in tutto il suo essere. Quel bacio odorava di adolescenza, di spensieratezza e della piccola Mezzanotte
la ragazza dolce con la pelle scura. Erano passati pochi anni da quel bacio, ma, i colori di quel momento intenso ed emozionante, tornavano a visitarlo di tanto in tanto, avvolgendo i suoi pensieri come cerulei coriandoli carnevaleschi.
Il suo passo silenzioso, gli consentiva di ascoltare la vita che respirava intorno: il battere dello zoccolo del cavallo legato ad un chiodo in attesa di essere tosato, il fischio del treno che a distanza dichiarava il suo passaggio, il vocio dei bambini proveniente dalla masseria della Madonnella di Gioia, il respiro del Somma, il vecchio vulcano non del tutto dormiente che in quella stagione, colorava di verde il paesaggio e che copriva di fatto il Vesuvio, dalle sembianze più minacciose e tristemente grigio. L’aria era tiepida e aiutava Svanito a pensare.
Lui pensava canzoni viaggianti e labbra di ragazze sorridenti. Camminava solitario sui binari che lo avevano conosciuto bambino, gli stessi sui quali ripassava le formule matematiche quando andava a scuola o tenendo chiari nella mente, ritmi, grouve e tempi dispari quando andava alle prove con la band per suonare funky mediterraneo. Gli stessi binari che sarebbero diventati di li a poco il letto di morte del suo amico Ndré, il triste palcoscenico di una notte da incubo che avrebbe stracciato con forza la sua teoria della notte quale attesa tra una festa e l’altra.
Arrivò alla stazione ed il treno vesuviano lo inghiottì insieme a tanti altri per venti minuti circa e lo vomitò alla stazione di Barra, dove si confuse tra i colori di cento magliette che inseguivano un pallone, cento sorrisi con i capelli lunghi e qualche innocente e profumatissimo spinello. Era solito salutare alzando il braccio sinistro col palmo della mano aperto, alla maniera degli indiani d’America, per poi lasciarlo cadere lentamente verso l’esterno, come a voler estendere a tutti il suo saluto.
«Olà Svanito vuoi fumare?»
«Certo, passa dai. Come stai Cirotto?»
Cirottino aveva pochi anni più di lui.
Un ragazzo minuto e bassino dal volto scarno coi lunghi capelli biondi, non lunghi come quelli di Svanito, ma abbastanza da coprirgli gli occhi, tanto da costringerlo a soffiarli costantemente storcendo le labbra all’insù.
Gli passò la canna e con aria sommessa gli rispose:
«Di merda... hai saputo di Mony?»
«No, che gli è successo?»
«È morto».
«Ma che cazzo dici?»
«Lo hanno investito mentre era fermo sulla residenziale a cambiare una gomma all’auto di suo padre».
Svanito restò in silenzio per lungo tempo, con la canna che si consumava tra le dita della mano destra, mentre con la sinistra stringeva il braccio dell’amico. Il tempo a volte non ha tempo. Mony aveva la sua età. Era uno dei tanti colori di quel grande arcobaleno che era la sua compagnia brancaleonica. Era una nota tra le tante che componeva la sua sinfonia.
Pierino ‘o Fellone, Tore ‘a Seccia, Cirottino, Vicienzo Pinocchio, Tonino Kempes, Giorgio Amagiò, Loredana Lancetta, Patrizia, Rosaria, Rosanna, Sandrino, Annarella, Giovanni ‘a Cambogia, Angioletto ‘o Biondo, Ottavio, Alduccio, Totore, Arturo, Luciano ‘o Bello, Giovanni Sasiccio, Vincenzo ‘o Teschio, Ombra e molti altri. Erano tanti, erano il