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I fiori si bagnano il venerdì: Vite e speranze sullo sfondo della Bosnia martoriata
I fiori si bagnano il venerdì: Vite e speranze sullo sfondo della Bosnia martoriata
I fiori si bagnano il venerdì: Vite e speranze sullo sfondo della Bosnia martoriata
E-book431 pagine6 ore

I fiori si bagnano il venerdì: Vite e speranze sullo sfondo della Bosnia martoriata

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Info su questo ebook

Nel campo profughi di Ceško, in Slovenia, anche un vaso di fiori su un davanzale poteva essere il segnale di vitali assestamenti dell’anima. Nell’agosto del 2001, parte degli ospiti di quella struttura sono rientrati nel loro paesino in Bosnia, da cui erano scappati nel 1992 in seguito all’espansionismo serbo d’inizio guerra. Altri compaesani che invece si erano riaccasati nel mondo li raggiungono per condividere un momento davvero speciale: la “Festa della rinascita” di Korljevo. Da Milano arriva anche Massimo, volontario del gemellaggio che supportava il campo di Ceško, e che da quell’esperienza si era fatto assorbire in modo quasi viscerale, mentre da Trieste giunge Jana, psicologa che quell’intervento umanitario lo sovrintendeva. Il gioioso evento offre ai convenuti l’opportunità per riannodare vecchi legami nel tempo sfilacciati o anche spezzati, in particolare quello tra Jana e Massimo. Molte sono le sorprese che si snocciolano nei diversi incontri durante la festa, infine funestata da impensabili accadimenti che sconvolgono la piccola comunità bosniaca. E che fanno da sfondo al laborioso ripensamento del rapporto tra Massimo e Jana. Un romanzo di sentimenti che consente anche di esplorare le sottese dinamiche psicologiche tanto dei profughi quanto dei volontari, oltreché il complesso quadro di criticità politiche e sociali connesse ai rimpatri postbellici in Bosnia.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2023
ISBN9791280075642
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    Anteprima del libro

    I fiori si bagnano il venerdì - Marzio Biancolino

    Parte prima

    Shrapnel (10 schegge)

    Shrapnel Moderna granata antiuomo, d’effetto micidiale, che all’atto dello scoppio (comandato da una spoletta a tempo e a percussione) scaglia a raggiera numerose pallette metalliche (in lega di piombo e antimonio), munite talora di piccole cariche esplosive o incendiarie suppletive.

    Enciclopedia Treccani

    Korljevo, Bosnia, agosto 2002

    Jana

    JANA che si guarda attorno, scrutando con curiosità gli ultimi arrivati di quel tardo pomeriggio allo spiazzo della festa. Attenta a cogliere ogni nuovo nome che viene citato. Un nome che lei potrebbe finalmente associare a un volto. Quello di una delle statuine ancora anonime nel singolare presepe che in quegli ultimi sei anni è andata componendo nella sua mente.

    Jana che si riscuote un attimo e respira a fondo, come per prendersi una pausa da quel suo particolare esercizio. Con la schiena appoggiata al tronco dell’albero che la ombreggia, dà un altro piccolo morso alla costina di agnello. Poi la ripone nel piatto di plastica e si lecca le dita con gusto. Accenna un sorriso nel volgere il capo per studiare quel contesto rurale d’altri tempi, per certi dettagli così diverso dai canoni italiani.

    Jana che non è mai stata lì a Korljevo. Eppure, da una decina di anni quel paesino è entrato prepotentemente a far parte della sua vita. Addirittura gliel’ha sconvolta. Anche la sua.

    Jana che nelle orecchie ha ancora la suggestione della salmodiante voce del muezzin di un’ora prima, quando chiamava i fedeli alla preghiera. Si è chiesta chi avrebbe accolto quell’invito, a parte il giovane Mujo e qualche anziano. Dai racconti dei volontari sui profughi fuggiti da Korljevo all’inizio della guerra, ha mutuato l’idea di quanto si possa definire laico l’islamismo bosgnacco: giusto il tabù granitico della carne di maiale, perché quanto a birra e a grappa, la loro rakija, le maglie della tolleranza si allentano a dismisura. E anche la pratica religiosa non pare essere tra le priorità.

    Al di là degli alberi che su un lato delimitano l’ampio spiazzo erboso, cuore della festa, l’alto minareto svetta candido risaltando nella rosseggiante luminosità serale. A Jana sfugge un timido sorriso: le pare un missile spaziale in procinto di essere lanciato verso chissà quale pianeta lontano, o magari, semplicemente, nei Giardini Celesti del Supremo. Invece non è che la sacra icona della nuova grande moschea pressoché ultimata nel centro del paese, dopo che l’altra più periferica, come le ha poco prima spiegato Amir al banchetto del ristoro, è stata rasa al suolo ormai dieci anni addietro nel corso della guerra. Uno sfregio impietoso quanto emblematico, cinicamente inferto all’identità etnica di quel paesino bosniaco.

    Con il calare del sole la morsa del caldo si va attenuando, con qualche refolo di aria fresca che comincia a regalare l’atteso sollievo. Il colorito vociare della gente è di tanto in tanto scosso da uno scoppio di risa o dalle teatrali esclamazioni di sorpresa suscitate da un nuovo arrivato.

    Tuttavia, è dalle proprie spalle che Jana sente arrivare una voce maschile.

    «Oh tu, sorella mia seppur forestiera...»

    Più che un richiamo, quasi un’invocazione. È in serbo-croato, ma Jana comprende quella lingua. Si gira e scopre con sorpresa che è rivolta proprio a lei. A qualche metro, un ragazzo sui vent’anni con le braccia protese è in attesa dell’attenzione appena richiesta. Ha i capelli scuri, mossi e trasandati, che gli arrivano oltre il colletto di una camicia color turchese acceso. Subito Jana è catturata dal suo sguardo, dolce e profondo, segnato da una tristezza indefinibile. Il giovane si sta trattenendo immobile, speranzoso.

    «Oh tu, sorella mia seppur forestiera...» ripete con un accenno di sorriso, incoraggiato dall’espressione invitante di lei. «Tu che i miei occhi hanno sfiorato appena tuttavia nel mio cuore alberghi… Possano le mie parole il benvenuto donarti, possa questa mia terra esserti soffice tappeto, possa questo tempo esserti amabile compagno, possa questa vita… cullarti fra le sue infinite braccia ed esserti madre...» e sulla scia di quelle ultime avvolgenti parole le si avvicina e le si genuflette di fronte, con delicatezza le prende una mano per accoglierla fra le proprie e gliela bacia.

    Dopodiché si accovaccia per rivolgersi a una bambina che, di fianco a Jana, lo sta fissando accigliata: «Non di meno a te, piccola principessa di un regno che ormai ti attende. Il futuro splende nei tuoi occhi e freme nelle tue tasche» e con rinnovata tenerezza la omaggia non meno teneramente di come ha appena fatto con la madre.

    Quindi entrambe lo vedono rialzarsi e con occhi luccicanti aggiungere con un inchino: «Zlatko vi ha salutato».

    Dopo un istante di incertezza Jana sta per abbozzare una replica ma lui, senza più voltarsi, si è già allontanato per perdersi nel brulichio vociante della festa. Lasciando comunque che il suo nome vada a collocarsi nel presepe mentale di Jana… Una statuina che però un nome già lo ha: Zlatko, il poeta in erba di Ceško, il maghetto degli scacchi che è anche venuto a Trieste... Un ragazzino solitario e introverso, sospettato di una psiche dilaniata da un profondo senso di colpa per essere sopravvissuto a genitori, fratelli e parenti tutti inghiottiti dalla voragine della guerra...

    Ancora colpita dai modi di quell’incontro, Jana si ritrova di colpo strappata dai propri ricordi da quanto sta per succedere sul piccolo palco su un lato dello spiazzo. Senza alcun preambolo, se non un acuto stridio del microfono, una voce amplificata si è appena lanciata in un conteggio dall’intento inequivocabile.

    «And one... and two... and one two three four!» e con l’esplodere di una musica arrembante la scena si incendia di luci colorate che con guizzi frenetici, chiaramente dilettanteschi, fendono senza sosta l’aria e i presenti. Jana riconosce subito una sorprendente Johnny B. Goode partorita da una band di cinque elementi che ci sta dando dentro di brutto. Il ritmo è incalzante, comunque coinvolgente, e il pubblico risponde scuotendosi fantasiosamente.

    «Mamma, chi sono quelli?» domanda Milena strattonandola per la maglietta. «Fammi vedere!»

    «Ehi, signorina, a otto anni non pesi più come una piuma» replica Jana prendendola in braccio, con un certo impaccio per cercare di tenere con una mano il piatto di costine e la birra che vi ha appoggiato sopra.

    «Ma perché qui parlano tutti come il nonno?» chiede la piccola volgendo lo sguardo intorno.

    «È vero» risponde Jana alzando la voce per farsi udire al di sopra della musica. «Però il nonno abita in un altro Stato che si chiama Croazia, mentre qui siamo in Bosnia. Ma adesso fammi un po’ vedere...» aggiunge acuendo lo sguardo in direzione del palco. «Ehi, ma quello che sta cantando… mi sembra proprio Adnan!»

    «Adnan?»

    «Sì, è un ragazzino che… Be’, no!» si interrompe Jana scuotendo la testa in una risata. «Oramai Adnan sarà sui vent’anni, e anche lui da piccolo era al campo profughi di Ceško, in Slovenia. Era tra quelli che insieme a Zlatko, il ragazzo di prima che ci ha salutato in quello strano modo, sono passati da casa nostra a Trieste, quando Massimo stava... Ma che stupida che sono!» esclama cambiando tono nel rivolgere alla figlia un buffo sguardo di autoindulgenza. «Sarà anche vero che te ne ho parlato, però a quel tempo tu avevi solo pochi mesi, eri troppo piccina per poterti ricordare di Adnan adesso» e schiocca a Milena un gran bacio sulla fronte.

    «E c’era ancora papà?» chiede la piccola accigliandosi.

    Jana si lascia sfuggire un sospiro. «Proprio proprio quel giorno... no. Però a quel tempo… sì, stava ancora con noi.»

    «E c’era anche Massimo?»

    «Ma… ti ricordi ancora di Massimo?»

    «Quello che il papà diceva che era cattivo...»

    «E invece ti ripeto che non è affatto vero» ribatte Jana con voce ferma, appena venata di severità. «E te l’ho già detto un po’ di volte.» Poi torna a guardare il palco. «Oh, senti un po’ che razza di musica stanno suonando quelli lì...» Ma con la coda dell’occhio si avvede che Milena è ancora incupita: la piccola sembra incapace di sbarazzarsi del suo coriaceo manicheismo infantile. «E io che mi aspettavo della musica tradizionale, oppure qualcosa dei Bijelo Dugme. Scommetto che è stata un’idea di Adnan! Senti come suona adesso, è lui che sta facendo l’assolo...»

    «Ma papà quand’è che è andato via?» chiede invece Milena.

    «Te l’ho già detto… Quando tu non avevi neanche un anno.»

    «E perché?... Di chi è stata la colpa?»

    Jana trae un profondo sospiro. «Anche di quella sporca guerra...» risponde riuscendo a camuffare una smorfia. Spia di una bugia di cui non si sente affatto orgogliosa.

    Adnan

    ADNAN che nei pressi dell’accesso allo spiazzo della festa sta ancora zompettando da una gamba all’altra per l’incredulità. Ha il volto stralunato da un’espressione di straripante felicità, e con le mani si tiene la testa irrequieta accentuando una sorpresa già fin troppo palese.

    Adnan che si lancia di nuovo sull’amico in un abbraccio travolgente. «Senad! Dammi uno schiaffo e svegliami, dimmi che non sto sognando!»

    Adnan che alza al cielo una bottiglietta di birra avocando a sé l’attenzione del gruppetto di amici. Quindi fa partire un coro sgangherato sull’aria di Happy Birthday: «Do-bro do-šli Se-nad... Do-bro do-šli Se-nad...».

    Dobro došli!, la stessa espressione di benvenuto che campeggia sullo striscione posto all’inizio del paese.

    «Senad! Cazzo cazzo cazzo... Ancora non riesco a credere che sei qui. E magari ci sono anche Anela e il bambino?»

    L’amico annuisce, sorridente e commosso. «È passata a salutare sua madre. Poi verranno anche loro alla festa.»

    «Super Senad!» esclama di nuovo Adnan. «E poi lo vedi anche tu? Guarda un po’ quanta... quanta quanta gente qui a Korljevo per la festa!» aggiunge ruotando su di sé con un braccio aperto e con compiaciuta incredulità.

    «E arriverà anche Massimo!» grida uno nel gruppetto.

    «Eh eh eh» fa Adnan con il fare di quello che la sa lunga. Poi cinge Senad per le spalle, come a farne una propria esclusiva, e con lui si avvia ai margini dello spiazzo. «Però adesso, amico mio, tu mi devi spiegare una cosa» riprende fissandolo con occhi indagatori. «Massimo vive in Italia, appena qui girato l’angolo, ma tu... tu come cazzo hai fatto?»

    «Be’, ho lavorato sodo e...»

    «D’accordo. Ma dal Canada... Dal Canada, cazzo, ci vuole una barca di soldi!»

    «E allora? Dal Canada, certo... E se da qualcuno dovevo imparare cos’è la tenacia, quello sei proprio tu!» gli spiega con occhi colmi di ammirazione. «Come avrei potuto mancare alla Festa per la rinascita di Korljevo organizzata dal mio amico Adnan?»

    Già, come poteva dargli torto?, pensa il suo amico Adnan, quando gli accordi di pace di Dayton del 1995 sembravano aver sancito la morte definitiva della loro amata Korljevo? All’iniziale tripudio per la fine della guerra, per la fine di quell’impensabile carneficina fraterna, la fine del loro straziante sradicamento, la fine della separazione dai loro cari rimasti in patria – quei fortunati che erano riusciti a sopravvivere – era in seguito subentrata un’atroce disillusione per il reale destino di Korljevo. Un paesino di etnia mussulmana che, nello smembramento geopolitico sancito dal trattato, era finito a far parte della neonata Repubblica Serba di Bosnia. Proprio i loro nemici, anzi, i loro carnefici… Che ora davano vita a una delle due cosiddette entità in cui la Bosnia, regione costituente della defunta Federazione Jugoslavia e Stato autonomo dopo il referendum del 3 marzo 1992, era stata ripartita alla fine della guerra fratricida. L’altra era la Federazione Croato-Mussulmana. Ma Adnan lo ha già capito che la storia è sempre stata quella: per i militari e i politici, paesi, famiglie e vite umane non sono altro che spiccioli per far quadrare i conti di spietate strategie di potere.

    Così dal novembre del 1995, ma di fatto fin dal maggio 1992 dell’occupazione serba, Korljevo è scomparsa dalla topografia della Bosnia. Un paesotto di tremila abitanti… semplicemente cancellato. Abitato solo da sterpaglie e cornacchie, più qualche decina di profughi serbi fuggiti a loro volta da villaggi conquistati da un’altra etnia, serbi o bosgnacchi.

    «E così vi siete piazzati alla grande dall’altra parte dell’oceano!» riprende Adnan. «Una figata di casa, come ho visto dalle tue foto, e anche Anela che ha un buon lavoro e il piccolino che si è inserito bene all’asilo...» snocciola figurandosi quella realtà esotica raccontata in anni di lunghe lettere con il suo amico.

    «Già! Però c’è una domanda che continua a ronzarmi per la testa: perché non sei venuto anche tu?»

    Adnan sospira a fondo. Appoggia un braccio teso su una spalla dell’amico, ma sempre tenendo lo sguardo ficcato a terra.

    L’ennesima replica a quella domanda è risaputa, ma il modo con il quale adesso è stata posta gli è suonato troppo brusco. Come alla televisione quando passi da un film comico a un canale in cui qualcuno è in punto di morte.

    Quante volte ha già dato a Senad quella risposta? «Tenacia, no? L’hai detto tu stesso poco fa.»

    E Adnan conosce anche la rituale obiezione che altrettante volte l’amico gli ha opposto: d’accordo la tenacia, ma superato un certo limite, quell’ammirevole virtù può scadere in disdicevole ottusità.

    È una storia che sta durando da un sacco di tempo. Fin da quando, neppure una decina di mesi dopo essere arrivati al campo di Ceško, la famiglia di Adnan aveva rifiutato l’opportunità di trasferirsi in Svezia o in Canada, o addirittura in Australia, che altri avevano invece accettato. Senad aveva insistito parecchio per convincerlo ad aggregarsi, ma inutilmente. E ne avevano discusso assiduamente, come se una decisione di una tale portata spettasse a loro, due ragazzini dodicenni, piuttosto che ai loro genitori. Ci avevano perfino litigato di brutto. Ma più che tradire la patria, a Adnan pareva di sottrarsi a una speranza irrinunciabile, voltando per di più le spalle a quanti ancora stavano combattendo e morendo per loro in Bosnia, a poche centinaia di chilometri da Ceško.

    Alla chiusura del campo nel 1997, a due anni dalla firma dell’accordo di pace, ormai maggiorenne Adnan aveva avuto una nuova opportunità per lasciare la Slovenia e rifarsi un futuro altrove. Ma nonostante Korljevo fosse stata fagocitata dall’entità serba, lui si ostinava a credere che prima o poi si sarebbe potuti tornare. E se qualcuno gli dava del sognatore, lui non se ne vergognava affatto, fino a ritrovarsi infine in prima fila, gagliardo ed ebbro d’orgoglio, non appena quel sogno aveva cominciato a concretizzarsi un paio di anni più tardi.

    Adnan sente la bottiglietta di birra dell’amico incocciare contro la propria.

    «Ma dimmi un po’» chiede Senad «c’è stato qualche progresso per quel progetto di cui mi scrivevi di recente?»

    «L’Ikea?» Adnan inarca le sopracciglia e si prende un attimo per un nuovo sospiro. «Non si farà mai» risponde lapidario con una smorfia, lo sguardo di nuovo conficcato a terra. «Ormai è da più di un anno che continuano a litigare per...»

    «Ma… chi litiga?»

    «I politici!» esclama Adnan alterandosi. «Tutti: serbi, croati e… bosgnacchi.»

    «Anche noi?»

    Adnan scuote la testa. «Ma sì! È tutto un tiramolla di giochi di posizione, di potere e di ripicche. Io non ti do l’acqua se tu non mi dai il legno al prezzo che voglio io e non si fa il negozio dove dice quell’altro... Sono quasi due anni che sono tornato, e ormai ho imparato come funzionano adesso certe cose qui.»

    Non gli era sembrato vero: trecentocinquanta assunzioni in un nuovo punto vendita, l’unica Ikea dell’intera Bosnia e a una misera cinquantina di chilometri da Korljevo. Ma la grande euforia iniziale non era stata neppure una briciola della delusione che da allora lo stava consumando. ogni giorno. Con una giovane moglie e già un figlio in arrivo.

    «Poi ti ritrovi a che fare con gente come Mujo...» accenna Adnan con un gesto nervoso della mano.

    «Oh, è tornato in vacanza perfino l’amico Mujo?»

    «Poteva anche restarsene dove cazzo si trovava, se era per venire a farmi il culo per una birretta del cazzo! Oltre a tutte le altre stronzate che va blaterando. Te ne renderai conto tu stesso» e di nuovo sbuffa sonoramente. «Ma lasciamo perdere! Qualcosa di buono salterà fuori anche da queste parti» aggiunge come per rassicurare per primo se stesso.

    «Certo che sì» ribatte Senad con tono asciutto «magari continuando a paracularti per due spiccioli da qualche serbo qui in giro, e massacrandoti di lavoro fino a notte!»

    A Adnan non sfugge che l’amico pare già pentito di essersi lasciato scappare con tanta disinvoltura quella che in fondo era l’amara realtà. Parole come i leggeri tocchi del ferro del dentista che, senza neppure un goccio di anestesia, vanno a stuzzicare un nervo scoperto.

    «Vaffanculo, Senad!» sbraita Adnan stringendo i pugni colmi di rabbia. Vorrebbe anche rincarare la dose ma si limita ad aggiungere: «Ora devo andare a suonare, canadese!» e mentre si allontana gli fionda un’ultima occhiata pregna di triste risentimento.

    Rispetto… solo rispetto! continua a ripetersi, come in un rabbioso mantra.

    «Adnan, fratello!» si sente chiamare mentre sta fendendo la gente assiepata nei pressi del palco.

    «No, Zlatko, anche tu! Prima Senad, poi quell’infoiato di Mujo... Non è il momento!» intima sbrigativamente al caro amico che, pur urtato a destra e a sinistra dai passanti, sta resistendo immobile con le braccia levate verso di lui.

    «O Adnan, fratello di mille cupe notti e di mille leggiadre fughe» riattacca Zlatko con il suo sorriso disarmante. «Adnan specchio dei miei tramonti e delle mie albe, di voli impalpabili e di visioni laceranti, Adnan materno rifugio e Adnan paterno sprono… Oh Adnan, in un’unica parola... Zlatko!» e su quel nome Adnan si sente cingere in un abbraccio che lo sorprende per intensità. Poi l’amico fraterno indietreggia un poco, lo fissa con uno sguardo indecifrabile e aggiunge: «Zlatko ti ha salutato».

    Dopodiché Adnan lo vede voltarsi senza indugio e, come serpeggiando tra le criptiche evocazioni appena distillate, rituffarsi tra la gente per affrettarsi chissà dove.

    Pur sapendo che da Zlatko c’è da aspettarsi di tutto, Adnan se ne resta lì impalato. E disorientato.

    Infine si riscuote per rispondere con un cenno ai richiami sempre più insistenti che gli stanno arrivando dal palco. La musica non può più aspettare.

    Gloria

    GLORIA che insieme a Massimo ha appena finito di sciropparsi oltre quindici ore d’auto per arrivare da Milano a Korljevo, Bosnia.

    Gloria che aveva insistito per un viaggio più rilassante via mare da Ancona, ma timidamente. Per subire infine, come ai vecchi tempi, il carisma di Massimo e accettare la lunga cavalcata via terra: In quella realtà ancora convalescente, con tutto il tempo per potersi abituare tanto con gli occhi quanto con il cuore come aveva detto lui.

    Gloria che strada facendo si è convinta della sensatezza di quella decisione, via via che i tignosi lasciti della guerra si erano fatti sempre più manifesti già addentrandosi in Croazia: case diroccate, di fatto ruderi del tutto inabitabili, oppure vissute ora con vistosi rattoppi per farle tornare agibili dopo gli spietati sventramenti subiti dalle granate.

    Gloria che stravolta ma raggiante, pur con la sensazione di puzzare in modo impresentabile dopo un viaggio così lungo, passeggia ora per la festa chiacchierando con Edna e sua figlia Jasmina, che ormai ha la bellezza di dieci anni. Otto in più dell’ultima volta che l’aveva vista al campo di Ceško.

    Di tanto in tanto si fermano per un caloroso abbraccio nell’imbattersi in qualche profugo del campo. Ma succede anche che Gloria venga gioiosamente bloccata da un adolescente brufoloso e sconosciuto, salvo poi riorientarsi nei suoi lineamenti e riconoscere, con l’aiuto del nome, il bambinetto sdentato con il quale aveva condiviso per qualche anno scherzi e giochi infantili.

    Quando poi hanno incrociato Jana e Milena, Gloria è finalmente tornata a scambiare due parole in italiano. Ma soprattutto è stata felice di rivedere la piccola dopo ben sette anni dall’ultima volta che era passata a Trieste tornando in Italia, quando Milena non sapeva ancora camminare. Il volto rassicurante di Jana, poi, le ha suggerito un’idea intrigante, e cioè che in quel paio di giorni lì a Korljevo, per una faccenda del tutto personale, una volta tanto avrebbe potuto avvalersi lei delle sue competenze di psicologa. Davvero un’occasione d’oro!

    Intanto, conversando con Edna, è assillata da mille curiosità riguardo le tremende vicissitudini attraversate in quegli anni dall’amica bosniaca: dalle difficoltà legate al precoce rientro ancora durante la guerra a Vrestiče, suo paesino natale, alle reazioni di Jasmina e alle prospettive di vita che ora possono loro schiudersi a Korljevo.

    Ma ben più di una volta la mente le è volata via, di colpo impermeabile alle parole di Edna. Inutile negarselo, le confidenze fatte a Massimo durante il viaggio le hanno aumentato l’inquietudine che si sta portando da Milano.

    Come ai vecchi tempi! si era detta Gloria alla partenza, ricordando le tante spedizioni in cui avevano fatto parte della medesima equipe in viaggio per la Slovenia. Intorno alla trentina, Massimo era uno degli anziani in mezzo a tanti universitari e giovani poco più che ventenni, come appunto lei. Lei che come tante volontarie ne subiva non solo l’autorevolezza ma anche un certo fascino: un bel ragazzone dai capelli scuri e un po’ cespugliosi, sempre disponibile e gioviale, diretto e intelligente, seppur con un non trascurabile difetto... Essere già sposato.

    Questa volta con meta la Bosnia e Korljevo, dopo un centinaio di chilometri di aggiornamenti su situazioni lavorative e hobbistiche, più varie ed eventuali, tutto era successo senza preavviso. E a dare il la era stata proprio lei: «Forse Massimo... date le attuali circostanze, sarebbe doveroso che io ti confessi una cosa» aveva accennato con palese imbarazzo. «Si tratta di una… una questione molto intima.»

    Forse sorpreso anche dal tono mellifluo di quelle parole, Massimo si era distratto un istante dalla guida per poterla guardare negli occhi. Che fosse tornato con i ricordi a quelle sere che anche lei si portava tuttora nel cuore? Spaparanzati a terra nella mensa del campo, a lume di candela, ad ascoltare Adnan o Roby che suonavano la chitarra… Lei che gli appoggiava con noncuranza la testa sulla spalla, oppure su una gamba a mo’ di cuscino, e si nutriva di quell’intimità furtiva e clandestina…

    «Cioè?» aveva buttato lì Massimo nel riprendere a fissare la strada.

    Le era sembrato di vederlo sospirare e scuotere appena la testa, come aggrappato al volante, ipnotizzato dalla riga di mezzeria che veniva inghiottita dalla loro auto.

    Così aveva rotto gli indugi, e le erano bastati dieci minuti per raffigurare, dichiarare e circostanziare in mille dettagli tutto il suo amore. Perché ormai era solo così che lei poteva definire quel sentimento. Il suo amore per Ibro, con il quale aveva intrattenuto una corrispondenza sempre più fitta e ricca di foto da quando il campo di Ceško era stato chiuso, le spedizioni delle equipe cessate e il giovane bosniaco si era trasferito con la famiglia in un piccolo appartamento in paese. Dapprima non si era resa conto di quanto stava nascendo fra loro, finché qualche parola più coraggiosa aveva aperto un nuovo percorso nella loro relazione epistolare. Parole che avevano via via assunto contorni tanto dolci quanto inequivocabili, facendo sì che infine lei non vedesse l’ora di andare a Korljevo, tornare a guardarlo negli occhi e… chissà. In qualche modo Ibro avrebbe saputo della festa e di sicuro ci sarebbe stato anche lui.

    «Naaah!» aveva esclamato Massimo, distraendosi di nuovo dalla guida con un sospiro che le era parso come di sollievo. «E così questo viaggetto arriva proprio al momento giusto.»

    Lei però si era di colpo adombrata. «Sono sei mesi che non mi risponde, nonostante gli abbia scritto più volte!» E aveva aggiunto che Ibro, nella sua ultima lettera, aveva accennato a un suo possibile ritorno stabile a Korljevo. Ma poteva mai essere quello il motivo delle sue mancate risposte?

    «Tra non molto lo saprai» l’aveva rincuorata Massimo passandole la mano destra fra i capelli. «Vedrai, si sarà trattato di qualche incasinamento postale. In Bosnia sono un po’ più arretrati che in Slovenia. Figurati poi a Korljevo...»

    Passeggiando ora con Edna alla festa, Gloria ha notato che Jasmina non è mai intervenuta nelle loro chiacchiere. Di tanto in tanto si allontana per una breve corsa con qualche amichetta, finché in una pausa per riprendere fiato le chiede: «Ma se tu sei italiana, come fai a parlare la nostra lingua?».

    Un po’ per pudore, Gloria decide di rispondere solo con una parte di quella che è la semplice verità: «Sai, l’ho studiata all’università. Perché mi sono innamorata della vostra terra, della sua storia, della sua gente e... vorrei conoscerla ancora di più».

    Magari sposarmi con Ibro e venire a vivere qui, e darvi anche una mano a far ripartire questo paese così martoriato dalla guerra, lontano dal futile benessere di casa mia. Qui dove...

    E intanto ha preso a lanciare occhiate saettanti tutt’intorno, soffermandosi a scrutare ogni volto maschile a portata di sguardo. Sussultando di tanto in tanto per poi ricredersi sulla prima impressione.

    Ormai deve parlarne con Edna e chiederglielo, lei di sicuro lo sa. Ma perché cavolo si sente così bloccata?

    «Sei tu?... Gloria!»

    A quelle parole l’italiana si volta di scatto, con il cuore in gola. Per rendersi conto, nel giro di un istante, che la propria espressione deve aver intanto fatto un funambolico giro del mondo: dalla gioia alla delusione alla sorpresa… fino a una rassegnata constatazione.

    «Sorella Gloria! Respiro del mattino e sospiro della sera…» Con le braccia levate, Zlatko le sta rivolgendo un sorriso sconfinato. «Rugiada dei miei ricordi e brezza della mia memoria, o Gloria sorella delle mie grevi levità e sorella delle mie inani fantasie, fiore della nostalgia e arcobaleno dell’uggiosità, possa questa vita cullarti fra le sue braccia ed esserti madre...» e con leggiadra solennità le si genuflette di fronte, le coglie una mano e gliela bacia con incomparabile tenerezza.

    Gloria si sente confusa, e non solo per aver compreso sì e no la metà di quelle parole a lei dedicate.

    Ma già Zlatko si è rivolto a Edna, ossequiandola con il medesimo cerimoniale.

    «E anche a te, sorella Edna: che quanto da me appena invocato per sorella Gloria sia eco carezzevole per le tue soavi orecchie, oltre che floreale giaciglio per il tuo morbido futuro.»

    E dopo essersi rialzato indirizza loro un fugace sorriso e si allontana gridando: «Zlatko vi ha salutato!».

    Edna scuote leggermente il capo. «Il solito Zlatko» commenta con tono amabile.

    «Gloria!... Ma sei proprio tu!»

    E questa volta il cuore di Gloria non può proprio tradirla, perché lei quella voce la ricorda troppo bene. Neppure il tempo per esplodere in un grido di gioia e già si sente sollevare da terra, stretta in un abbraccio vigoroso e persa in una voragine di beatitudine. E quando infine tocca terra, si rende conto di quanto l’emozione l’abbia resa malferma sulle gambe. Ancora stordita riesce solo a mormorare: «Ibro...».

    Certo, Ibro! Con quel suo sorriso irresistibile, sempre lo stesso. Quel suo sguardo così unico, quei suoi capelli corvini folti e capricciosi, quei suoi baffi un tempo timidi e adesso così pieni e maschi...

    «Gloria...» accenna ora flebilmente Ibro, intanto preso a braccetto da una giovane donna che soltanto adesso l’italiana si rende conto abbia presenziato a quella commovente scena. Una donna di bell’aspetto, dai capelli lunghi, biondo scuro e mossi, la cui espressione accigliata non le è certo sfuggita. Così come le sue forme eloquenti che, al di sotto di un’aderente maglietta arancione, dichiarano un principio di gravidanza.

    Con un sorriso tirato, la giovane donna si rivolge a Ibro: «È forse una volontaria di Ceško?».

    Però la semplice risposta tarda a prendere forma, perché Ibro adesso è come impietrito. Una smorfia di dilaniante imbarazzo sembra invecchiargli il volto.

    Gloria si sente fremere dentro, con il respiro sempre più affannoso nel vedere Ibro dare finalmente un segno di vita solo per riavviarsi i capelli con un gesto nervoso.

    «Sì, era una volontaria...» interviene Edna, confusa. «Gloria faceva parte delle equipe di italiani che per quattro anni sono venute a Ceško. Ma… cosa sta succedendo qui?»

    E allora Gloria non riesce più a reprimere i singhiozzi, ormai sul punto di scoppiare in un gran pianto. Sussulta e ansima, e anche Edna deve aver capito che il suo stato d’animo non ha alcunché da spartire con la gioiosa emozione che si prova nel ritrovare dopo tanto tempo una persona cara.

    Con un pretestuoso colpo di tosse, Ibro infrange quello strano incantesimo e si rivolge alla donna che lo tiene a braccetto: «Scusami, per favore». Si slega da lei con un sorriso forzato e si avvicina a Gloria. «Posso chiederti di seguirmi un attimo?»

    Lei gli fa segno di sì con il capo, mentre si asciuga con il dorso di una mano un paio di lacrime che già le stanno rigando il volto. Con uno sguardo spento lo segue fino a isolarsi in un angolo appartato dello spiazzo. Neppure gli urti involontari dei ragazzini che si rincorrono sono riusciti a penetrare il suo bozzolo di catatonica prostrazione.

    Ibro si ferma e si schiarisce la voce. «Lei...» mormora a capo chino, senza guardarla in faccia «lei è Samira.»

    Gloria chiude gli occhi, come due pesanti saracinesche che di colpo tonfino a terra. E già nella sua mente ha preso a scorrere a folle velocità il film di ciò che lui ora può anche risparmiarsi di raccontarle. Samira che era stata il suo primo e unico amore, Samira che abitava in un villaggio a una ventina di chilometri da Korljevo, Samira sparita nel nulla quando le milizie serbe vi avevano fatto irruzione, Samira che era all’origine dell’inestirpabile tristezza che a Ceško gli marchiava l’anima, Samira della quale, nelle sue lettere, Ibro aveva raccontato con straziante rimpianto prima che Gloria mitigasse quella pena facendo breccia nel suo cuore, Samira che poi aveva smesso di comparire tra le parole sempre più affettuose che Ibro riservava all’amica italiana, e… Samira che a quanto pare, sul più bello e chissà come, era ricomparsa dal nulla fra le loro vite.

    Gloria scoppia in un pianto convulso.

    Ibro le si avvicina un po’ di più, con intento consolatorio, forse addirittura per cingerla fra le proprie braccia. Ma lei lo respinge violentemente con entrambe le mani.

    Attraverso una spessa cappa di disperazione, lo sente biascicare: «Gloria… la vita deve continuare». Goffo e patetico. Inconsapevole di quanto stia complicando ancor più la situazione.

    Gloria trae un brusco respiro. «Potevi anche avere il coraggio di dirmelo. Stronzo!» gli grida in faccia a pieni polmoni. «Vaffanculo, stronzo!!!» ripete sguaiatamente con compiacimento, divorata da un strazio incontenibile.

    E con un rigurgito di vomito a stento trattenuto, corre a perdersi tra la folla festante.

    Alina

    ALINA che è appena scesa dall’autobus alla fermata di Korljevo. Grazie ai suoi giri di lettere con gli amici italiani, ha saputo dell’arrivo di Massimo e Gloria e ora non sta più nella pelle.

    Alina che si sta sistemando meglio il velo sulla testa, prima di lanciarsi di corsa in direzione dei clamori che provengono dal luogo della festa.

    Alina che si è attardata a Pitiča dal dentista. Colpa di quell’imprevisto che all’ambulatorio ha fatto passare un brutto quarto d’ora a un paio di medici e relative assistenti.

    L’intervento presentava una certa complessità, cosicché il dentista, trattandosi anche di una paziente di soli vent’anni, aveva deciso che la dose di anestetico sarebbe stata robusta. Trascorsa una decina di minuti, le aveva dato un bel pizzicotto sulla guancia e lei non aveva sentito dolore.

    «Ora potrei cavarteli anche tutti e trentadue che neppure te ne accorgeresti. Così mai più problemi di denti!» aveva scherzato suscitandole una risatina.

    Quindi Alina aveva chiuso gli occhi e aperto docilmente la bocca: per essere un serbo, quel dentista riusciva a esserle simpatico. Ma già ne era convinta che non tutti i serbi sono demoni sanguinari.

    Dopo una ventina di minuti che insieme all’infermiera le stava trafficando in bocca, all’improvviso Alina aveva accusato una prima vampata di sudori freddi, poi altre ancora, sempre più ravvicinate e accompagnate da un senso di svuotamento diffuso in tutto il corpo.

    Il dentista le avrebbe poi raccontato che avevano dovuto sospendere l’intervento perché lei era di colpo sbiancata, cominciando a ondeggiare con la testa e a emettere lamenti come se fosse sul punto di svenire. Allarmato, aveva chiamato il collega dalla sala accanto, ma entrambi non avevano saputo che pesci pigliare. Se si fosse trattato di uno shock anafilattico non si sarebbe verificato dopo tutto quel tempo, e in ogni caso non era quella la sintomatologia.

    Poi Alina aveva cominciato a mormorare parole sconnesse continuando a sudare, con le assistenti che si erano permesse di levarle il velo e sventolarle intorno un paio di asciugamani. Mentre uno dei due dentisti le provava la pressione, l’altro si era attaccato al telefono per un rapido consulto con un terzo collega in un altro studio, ed era stato proprio allora che Alina aveva iniziato a dare i primi segni di ripresa. Aveva smesso di sudare e di lamentarsi, e più volte aveva schiuso gli occhi, seppur con il respiro ancora un poco affannato. Anche un lieve colorito rosa aveva cominciato a rivitalizzarle il volto.

    E infatti i ricordi di Alina riprendevano da quando si

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