I bassisti muoiono giovani
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I bassisti muoiono giovani - Francesco De Giorgi
Table of Contents
FRANCESCO DE GIORGII BASSISTI MUOIONO GIOVANI
Intro
Track 1 - Interno notte
Track 2 - Torino
Track 3 - Non desiderare la maglietta d’altri
Track 4 - Sudore & Sound
Track 5 - Il Milordo
Track 6 - Autoerotismo, gastrite e Rock’n’roll
Track 7 - Piccoli tastieristi crescono
Track 8 - Le esperienze precedenti
Track 9 - Garage Anarchia
Track 10 - La ragazza del tastierista (e del batterista) (e del bassista) (e del chitarrista) (e del cantante)
Track 11 - A mia nonna piace il rock
Track 12 - Cos’è successo all’amico Jimmy?
Track 13 - Eppur mi muovo
Track 14 - Alaska libre
Track 15 - Dieci anni dopo
Track 16 - L’inferno
Interludio
Ghost Track - Doveroso riconoscimento al simpatico complessino di Italia sì, Italia no
Track 17 - Incontri ravvicinati di un certo tipo
Track 18 - Il senso del Milordo per la rete
Track 19 - Incontri ravvicinati di un certo tipo (reprise)
Track 20 - La sera della festa
Track 21 - Indovina chi trovi a cena
Track 22 - Preso male
Track 23 - L’annosa questione del seguito
Track 24 - Che dio li perdoni
Track 25 - La dolce attesa
Track 26 - Il punto al posto dei puntini
Track 27 - Incubo di un giorno di mezza estate
Track 28 - Negativi di un’estate negativa
Track 29 - L’anagramma di dream
Track 30 - Tutto nasce dal basso
Track 31 - La morte enigmistica
Track 32 - Se apocalisse...
Bonus track - C’erano una volta
Francesco De Giorgi
I bassisti muoiono giovani
Illustrazione di copertina: I bassisti muoiono giovani
, 2015, Giovanni Matteo, ADDASTUDIO.IT
Foto dell’autore: Chiara Sergio, (elaborazione grafica Pierluigi Congedi)
Progetto grafico: Bookground
© Musicaos Editore, Tutti i diritti riservati
Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano (Le) - Tel. 0836.618232
Nessuna parte di quest’opera può essere riprodotta senza il consenso dell’Editore.
info@musicaos.it
www.musicaos.it
I edizione: Aprile 2015 - ISBN 978-88-99315-030
FRANCESCO DE GIORGI
I BASSISTI MUOIONO GIOVANI
I bassisti muoiono giovani
A chi, con idee, pignoleria,
tenacia e fatica,
crede in quel che fa.
Nonostante tutto.
Il lavoro quando serve solo a galleggiare,
a sopravvivere, solo a se stessi,
allora è la peggiore delle solitudini.
Gomorra, Roberto Saviano
Poi non è che la vita vada come tu te la immagini.
Fa la sua strada. E tu la tua.
E non sono la stessa strada.
Così... io non è che volevo essere felice, questo no.
Volevo... salvarmi, ecco: salvarmi.
Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare:
dalla parte dei desideri.
Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente:
il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No.
Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera.
Tu stai con loro e ti salverai.
Oceano mare, Alessandro Baricco
Occorre dirlo: i giovani lavorano, sgobbano sodo,
ma faticare solo per l’automobile non basta.
Bisogna risvegliare in loro passioni, hobby, interessi che certamente hanno
ma tengono segreti o non riescono a esprimere.
Far germogliare nei ragazzi l’entusiasmo è dovere di tutti noi.
Allora ai giovani tornerà la fiducia e non butteranno alle ortiche la vita e il futuro.
I fantasmi di pietra, Mauro Corona
Intro
Mi trovavo in macchina, me lo ricordo bene.
Quando me ne resi conto mi trovavo nella Panda rossa di famiglia, intento a farla trottare sulla provinciale nonostante i singhiozzi del motore e i suicidi dei moscerini malati di cancro che si spiaccicavano in massa sul parabrezza per farla finita. Stavo tornando a casa per pranzare, dopo aver trascorso la mattinata guardando video musicali sul web dal mio amico Riccardo.
In realtà, non avrei dovuto nemmeno starci molto da lui, ma poi, come accadeva spesso quando ci trovavamo di fronte al computer, in camera sua, un video tirava l’altro. Io facevo scoprire un nuovo gruppo a lui e lui faceva ascoltare a me qualche chitarrista virtuoso che non conoscevo. Serviva il richiamo sua madre, che alle dodici e trenta gridava puntualmente dal piano di sotto: «A tavola!», a farmi capire di non essere più gradito, prima di essere letteralmente scaraventato fuori casa.
Riccardo era un grande appassionato di musica, dedicava la maggior parte delle sue ore all’ascolto, ed era anche un ragazzo gentile, disponibile, educato, però appena sua madre lo invitava a scendere per il pranzo o per la cena diventava intrattabile. Potevi anche fargli ascoltare in esclusiva il brano più bello del mondo, ma se sua madre lo chiamava per mangiare, scattava di botto, spegneva qualunque cosa gli stesse davanti e ti dava solo il tempo di salutare velocemente e sparire.
Uscendo da casa sua, ero obbligato a passare di fianco alla tavolata imbandita e all’insostenibile vociare di suo padre, delle sue due sorelle e dei suoi cinque fratelli, i quali non prestavano la minima attenzione a chi si levava dalle palle, intenti com’erano nel riempirsi i piatti di cibo. Pronunciavo nell’indifferenza generale un saluto che non aveva alcun effetto; tranne una volta, quando il padre lo scambiò per il ronzio di una mosca e disse: «Presto, sbrigatevi a mangiare prima che si posi sulla pasta!».
Così, sulla strada, mentre ero intento a guidare, feci caso al mio cuore in affanno. Mi accorsi di respirare con una certa fatica ma, nonostante questo, non mi allarmai più di tanto. A venticinque anni, nel bel mezzo di una giornata di sole, dopo aver ascoltato ottima musica e mentre ci si dirige verso un abbondante pranzo domenicale, ci si sente immortali e i problemi di salute non sono minimamente ammessi. Tutto passa, niente è stabile a quell’età.
Durante quel pranzo nazista a base di grassi, di fritto e, infine, di zuccheri, il peso sul torace si fece sentire sempre di più, quindi piombai all’istante nel tempo dei rimorsi e dei buoni propositi per il futuro: basta cibi grassi, basta alcol, basta fumo. Basta tutto!
Era giunto il tempo della redenzione.
Il pomeriggio lo passai seduto sul divano, guardando il dvd appena uscito di Fahrenheit 9/11, credendo ingenuamente che lo stare calmo e rilassato mi avrebbe aiutato a frenare quello tsunami di inspiegabile agitazione che si stava scagliando in maniera del tutto anomala sul mio cuore; invece, quel cazzo di documentario sugli illeciti rapporti tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden non fece altro che farmi aumentare l’ansia e, di conseguenza, i battiti cardiaci.
Ricordo la mia fronte sudata.
Ricordo che era il 31 ottobre del 2004 e, verso le sei del pomeriggio, mucchietti di bambini vestiti da cadaveri e da streghe iniziarono a suonare ripetutamente ai campanelli delle case al grido di dolcetto o scherzetto?
.
Quella frase, che per tanti anni avevo sentito solo nei film e nelle serie tv americane, la sentivo pronunciare per la prima volta anche nel mio paese, nel mio sputo di paese che per secoli non aveva mai avvertito la necessità di un cinema, di una libreria, di un negozio di dischi, di un pub, di un teatro, di un parco per i bimbi, di una bocciofila per gli anziani, e che invece, all’improvviso, sentiva l’urgenza di vestire i bambini da zombi per mandarli in giro e attaccarli ai citofoni come la tradizione americana, mai vissuta prima di quel giorno, imponeva.
Proprio a Matino, un paese di circa undicimila abitanti dove il fascio del vicino era sempre più nero e dove si faceva fatica ad accettare qualunque cosa non fosse italiana (soprattutto se fatta di carne e ossa), la cultura pubblicitaria aveva vinto e quindi, oltre alle macchine straniere, anche la festa di Halloween era la benvenuta.
Immaginai, a quel punto, i poveri anziani che, con la batteria dell’ampli quasi scarica, rispondevano impauriti al citofono cercando di capirci qualcosa.
Il coro di voci bianche: «Dolcetto o scherzettooo?».
L’anziano di turno: «Cooosa? Chi è? C’è un topo nel gabinetto? Ma chi parla?».
Poveri anziani matinesi, avevano quasi imparato che i regali di Natale non li portava più il bambinello, bensì un barbone vestito di rosso che lavorava per una nota bibita americana, e ora si ritrovavano nuovamente confusi dal dover accettare il carnevale a fine Ottobre.
Io, con tutto il mio bon-ton, a ogni suono di citofono, mi alzavo dal divano esclamando a gran voce il nome di battesimo del figlio di Dio, con la speranza che si sentisse anche fuori dal portone, ma siccome non bastava, con la cornetta tra le mani rispondevo senza grazia: «Chi è che rompe?».
La rabbia dovuta alla tendenza degli umani di seguirsi come pecore anche nel declino, mi era già arrivata alla testa. Avevo perso il controllo.
«Dolc...», provavano a fiatare, ma non gli lasciavo neanche il tempo di finire che...
«È la notte di tutti i santi per noi, stronzi! - urlavo a squarciagola - Siete italiani, non americani, brutti idioti!».
Allorché, alcuni genitori che presenziavano al simpatico evento, si toglievano quei sorrisetti da buontemponi dalle facce e allontanavano di scatto i loro figli dal mio portone. Non prima di avermi dato del maleducato, s’intende.
Altri bimbi più sgamati, invece, imbrattavano il mio portone con farina, cacao e uova.
Ma questi bimbi più sgamati (detti solitamente figli di buona donna) avendo farina, cacao e uova, non potevano starsene a casa a farsi preparare una torta da quelle buone donne delle loro madri (dette solitamente madri coi figli più sgamati) invece di implorare un dolcetto a casa mia?
L’agitazione continuò ad aumentare, ma non sapevo più se dare la colpa al film o ai bimbi stronzi.
Presi in considerazione l’ipotesi che non fosse un malessere passeggero soltanto di notte, quando il battito del mio cuore non mi mise in condizione di chiudere occhio.
Presi in considerazione, quando qualche lacrima cominciò a bagnare le ciglia a causa di un brutto presentimento, l’ipotesi di aprire la porta della mia stanza, sistemarmi al centro del corridoio che porta alle stanze da letto, e con la delicatezza di un urlo svegliare tutta la famiglia, cane compreso, chiedendo gentilmente di portarmi al pronto soccorso. Ma non lo feci per una sorta di vigliaccheria. Però, in compenso, per sopperire a questa mancanza, feci altro: valutai la seria ipotesi di non potermi risvegliare il mattino seguente. E come quelli che per prendere sonno contano le pecore, io mi visualizzai nella mente la mia lapide e la fissai fino ad addormentarmi. Fissai attentamente la mia data di nascita e quella della mia morte, perché le date sono tutto. Sono le date che fanno la differenza nella vita di un uomo.
Quando la mattina seguente, aprendo gli occhi, mi ritrovai nella mia stanza, non mi creai false aspettative, sapevo che era tutto rimandato. Dopo le brutte sensazioni del giorno prima, mi sentivo a pezzi a prescindere dallo stato in cui realmente ero in quell’istante.
Con la faccia ancora spiaccicata sul cuscino, mi trovai a tu per tu con la forte luce verde che segnava l’ora sulla radiosveglia. E poter vivere le sette e quarantatre minuti di quel primo novembre fu un’emozione indescrivibile; quell’orario colorato di verde rappresentava la più bella poesia che potessi leggere in quel momento.
Insomma, svegliarsi prima delle otto non era mai stato così eccitante.
Quella mattina avevo appuntamento con alcuni amici, per questo dovetti alzarmi dal materasso e cercare di avere il miglior aspetto possibile. Dall’armadio tirai fuori solo un paio di pantaloni neri larghi con due tasconi enormi appena sopra il ginocchio e un maglione completamente fuori misura con delle piccole strisce nere, rosse e blu orizzontali.
In un periodo dove i ragazzi della mia età vestivano tutti con magliette aderenti per esaltare il loro fisico scultoreo, io mi vestivo come un tossico che andava ad elemosinare due spicci per potersi fare. Trovai anche una larghissima camicia color sabbia con un cappuccio nero da portare come giacchetto di mezza stagione.
L’abbigliamento extra large senza che ce ne fosse bisogno, la barba trascurata da due giorni e i capelli disordinati, pettinati solo da un colpo di mano, mi facevano somigliare a un giovane pittore francese trasandato e tormentato. Le ragazzine impazzivano per i tipi così, quando li vedevano su uno schermo, appiccicavano i loro poster in camera, mentre invece, vedendo me camminare in paese, mi lanciavano addosso occhiate di disprezzo. Bastava poco per distruggersi la vita in un piccolo posto e dagli sguardi delle ragazze in macchina intuivo che, dopo quella mattinata, di compaesane non ne avrei scopate per un bel po’ di tempo.
Davanti ai miei amici, restai in silenzio per quasi tutto il tempo. Seduto sugli scalini di casa di uno di essi, li guardavo discutere su argomenti che, in quel momento, mi sembravano grandi puttanate. Non me fregava niente di come avremmo trascorso quella giornata, perché non sapevo nemmeno se l’avrei vissuta tutta.
Me ne stavo seduto a patire quel venticello freddo che penetrava il mio maglione largo, tenevo le mani nascoste quasi completamente sotto le maniche, proprio come un tossico. Quando i più cominciarono ad andarsene, qualcun altro si accorse del mio colore pallido sul volto.
«Non ti senti bene?», mi chiesero.
Era giunto il momento della confessione. Non vedevo l’ora di raccontare quel che stavo passando. Aspettavo solo la domanda giusta.
«Sapete, stanotte ho avuto paura di morire.»
«Eh, esagerato!»
Nemmeno il tempo di finire la frase che mi liquidarono con un Ma che cazzo dici?
e giù a ridere come se avessi raccontato la più grande barzelletta del mondo.
Non potevo neanche chiamarli animali
perché era comprensibile quell’atteggiamento per chi considerava qualunque dolore lontano anni luce da sé.
Tornai a casa a piedi, quando in strada non c’era quasi più nessuno, giusto qualche auto di chi era in ritardo per il pranzo. Il cielo era del tutto grigio e il vento mi tenne i capelli in aria durante il tragitto. I fogli degli elettrodomestici in offerta svolazzavano qua e là, così come qualche bottiglietta vuota rotolava fino ad arrivarmi sui piedi.
Da quel tragitto affrontato con lentezza affinché non mi affaticassi, passai alcune giornate in attesa che il mio malessere passasse. È vero che non ero stato un santo fino a quel momento, ma era anche vero che non c’era stato nessun fatto così eclatante da farmi rischiare la vita in giovane età. Così, in attesa di tempi migliori, mi trovai protagonista di altre nottate passate a inviare gli ultimi messaggi agli amici, con gli occhi commossi e il cuore timoroso di prendere sonno, e di risvegli nei quali, seduto sul letto, mi voltavo credendo di trovare il corpo ancora steso sul materasso. Ogni mattina pensavo fosse la mia anima a sollevarsi, perché, non essendo mai morto prima, l’unica unità di misura per constatare la vita o il decesso era quella appresa nel film Ghost: se il mio corpo non stava più nel letto mentre io mi alzavo, voleva dire che ero ancora vivo. La immaginavo così la morte. Se c’era gente in cerca di un libretto d’istruzioni per poter affrontare la vita, io lo cercavo per affrontare l’aldilà: come si intuisce, come prepararsi, come uscire di scena...
Il timore verso il sonno, inoltre, si estese anche verso altre situazioni fino a farmi temere un affanno nel fare le scale, nell’urlare per un gol, ma soprattutto nel fare sesso. Facile fare la battuta riguardo al morire trombando come morte ideale; ma se uno sapesse di rischiarci la vita ci penserebbe due volte, anche cento. Non era l’ideale raggiungere l’orgasmo, venire e sfiatare definitivamente. Avrebbe creato imbarazzo anche alla mia partner. A questo proposito, mi ordinai di fregarmene di quel che sarebbe successo dopo la mia morte. Se il nero sarebbe stata l’unica cosa che avrei visto da quell’istante in poi, non c’era bisogno di preoccuparsi su come avrebbero vissuto gli altri il mio decesso. Cazzi loro!
L’altra questione riguardava le cose che mi sarei perso. Non erano cose che mi avrebbero cambiato la vita, come si è portati a pensare, tipo la famiglia, i figli o altra roba di questo genere, ma sciocchezze che si sarebbero realizzate a breve. Per esempio, sapere che nel giro di una settimana sarebbe uscito il nuovo disco del mio gruppo preferito, ma temere seriamente di non poterlo ascoltare neanche una volta, mi recava un tale sconforto da ridurmi in lacrime. Era lì, una settimana, un lasso di tempo che fino a qualche giorno prima avrei considerato niente, ma che all’improvviso sembrava un’eternità.
Sono passate quasi due settimane orribili, fatte di attimi che non si possono dimenticare. Così come le giornate particolarmente felici, anche quelle dolorose rimangono impigliate nell’anima per parecchio tempo; la differenza sta nell’effetto a lungo termine: quelle dolorose possono segnare un punto di non ritorno, le altre finiranno col creare una sorta di noia costante che deteriorerà la testa e lo stomaco, non appena ci si rende conto delle difficoltà presenti nel riuscire a bissarle. Che piaccia o meno, la felicità e la sofferenza sono destinate a lasciare il segno, e non sempre quel che uno si aspetta dai canoni dei due termini.
Lo so che è brutto dirlo, ma se dovessi augurare qualcosa a tutti i ragazzi, augurerei di trovarsi al più presto a tu per tu con la morte, gli augurerei di baciarla sulle labbra, sentirne il sapore e poi staccarsi subito. Ecco! Così! Se la fretta e l’impeto che avete messo nello staccarvi dalla sue labbra vi ha fatto cadere a terra, dando una forte botta col culo, meglio ancora! Adesso lo sapete com’è sentirsi risucchiare via. L’avete provata la paura di sparire. Di sentirvi chiamare scomparsi
senza essere stati nemmeno cercati. Adesso siete pronti per fottervela, la vita: alzatevi da terra e andate ad affrontarla.
A me quelle giornate fecero venire una voglia matta di vivere. Come se il destino mi avesse dato l’opportunità di nascere una seconda volta.
La mia storia cominciò lì.
Spesso è la morte che riesce a dare un senso all’esistenza di ogni individuo.
Sempre che l’individuo abbia voglia di esistere...
Track 1 - Interno notte
Io vorrei che i Backstreet Boys fossero gay,
che le teen agers amassero Casadei.
Caparezza
Nel buio del salotto, stravaccato in poltrona, mi faccio ipnotizzare dai colori della tv riflessi nel verde del vetro di una Moretti Baffo d’Oro che ha giaciuto nel mio frigo per troppo tempo. Le sue sorelle birre sono finite nel mio stomaco parecchi giorni prima di lei, parecchi momenti neri prima dell’attuale. Questa, invece, ha dovuto subire uno dei miei periodi di redenzione, con seguente periodo di nuovo sprofondamento, e una posizione nel frigo strategica per non balzarmi subito agli occhi; ma oggi è giunta l’ora della sua morte. Amen.
Con lo sguardo quasi ucciso dal sonno, dallo spiraglio lasciato aperto dalle palpebre, fisso il culo della conduttrice di uno dei talk show più radical chic d’Italia. Malgrado abbia superato i quaranta, il suo culo non ha ceduto al passare del tempo. Poi, sempre ammirando quella parte lì, rifletto sul mio modo di vedere i quarantenni come esseri molto più vecchi di me, una visione da adolescente che non ha niente da spartire con gli adulti. Peccato che io abbia già raggiunto i trentatré anni e che, nel periodo storico nel quale vivo, i rotocalchi di gossip abbiano spesso in copertina alcune cinquantenni che raccontano delle loro relazioni amorose con dei ventenni ancora bisognosi di latte. Se non fossi in una mia serata autolesionista, gioirei per la constatazione appena fatta: sono nell’età perfetta per potermi scopare le ventenni attratte dalla mia posizione economica e sociale, le coetanee felici dall’idea di poter salire con me sul tanto desiderato treno chiamato una famiglia tutta mia
e, addirittura, le tanto sognate quarantenni reduci da un matrimonio fallito, vogliose di vita nuova.
La conduttrice, con quel suo bel sedere e quel modo di sistemarsi e accarezzarsi i lunghi capelli sulla parte sinistra del collo a ogni domanda, è l’unica cosa interessante della trasmissione. Guardo lei, la immagino porca nell’intimità, e smetto completamente di seguire l’assurdo dibattito sulla dieta tisanoreica che i suoi ospiti stanno inscenando. Non riesco a credere che il sapore di una buona carbonara venga difeso solo da un vecchio agricoltore di Vercelli, che parla mangiandosi l’ultima vocale di ogni parola e, proprio per questo, viene deriso dagli altri ospiti in studio, presentati come la parte buona e colta del Paese.
Mi attacco alla boccia, come un neonato al biberon, e per parecchi secondi prendo a ciucciare quel fresco oro che, nonostante mi faccia sentire più pesante, mi regala una sensazione di benessere, messa in risalto dallo sfiato soddisfatto nel quale mi lascio andare appena cerco di dividere le labbra dal vetro verde e mando giù la sorsata. Nella mia situazione si dovrebbe smettere del tutto di bere, ma è difficile convincersi che la birra non sia un integratore di sali minerali per l’anima. C’è chi si abbevera di Gatorade, Powerade, Energade e tutti quegli altri tipi di evidenziatori liquidi, dopo aver effettuato attività fisica, mentre io mi abbevero di birra per dissetarmi dopo un’altra insoddisfacente giornata di merda.
Finalmente la conduttrice saluta i suoi opinionisti perché - ahimè - il tempo a loro disposizione è concluso anche se non sono giunti a nessuna soluzione. Nessuno ha ritrattato la sua tesi, nessuno si è fatto venire un dubbio, tutti erano e sono convinti di quel che hanno sostenuto. Sarebbe più facile contare i granelli di sabbia di tutte le spiagge italiane anziché provare a far cambiare idea a un individuo preso a caso in questa Penisola. Tutti sanno tutto e tutti sono sicuri di quel che fanno. Fottuti bastardi! L’essere precipitati in questo schifo di situazione non gli ha scomposti per nulla. Potrei andare avanti tutta la nottata nell’infamarli riguardo alla crisi economica, sociale e culturale che sta paralizzando questo posto, ma... le ragazzine presenti nello studio televisivo cominciano ad agitarsi, si lasciano andare in