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Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile: diario di un parrucchiere in quarantena
Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile: diario di un parrucchiere in quarantena
Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile: diario di un parrucchiere in quarantena
E-book314 pagine4 ore

Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile: diario di un parrucchiere in quarantena

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Info su questo ebook

Cosa fa un parrucchiere durante una pandemia? Ancora meglio: un parrucchiere-scrittore, cosa si inventa? Col salone chiuso, un cane, una mamma in casa di riposo, un pc e tanto, davvero tanto tempo a disposizione? Ovvio immaginarlo: scrive. Un diario, per la precisione. Ma non un diario qualsiasi. Niente pensierini in libertà, niente sogni, niente rimpianti e ricordi, niente “quando finirà, se sopravvivrò, la prima cosa che farò sarà”.
Scrive un diario di una quarantena, che non è un diario classico: è una raccolta cadenzata di esperienze, riflessioni, dialoghi, distopie, elenchi, consapevolezze, rivelazioni, visioni. È feroce, divertente, leggero e profondo. È una presa di coscienza che parte da sé e arriva al mondo. Che da qualche parte è là fuori, o là dentro, in attesa, come lui.
In attesa che tutto questo finisca.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2020
ISBN9788831260077
Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile: diario di un parrucchiere in quarantena

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    Anteprima del libro

    Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile - Gianluca Mercadante

    te

    Giorno 1

    Ho dimenticato di rimuovere la sveglia del cellulare, ieri sera, dopo aver atteso che Conte terminasse di annunciare il decreto che ordina la chiusura di tutte le attività commerciali – e finalmente ha nominato parrucchieri e centri estetici, categorie finora ignorate.

    Mi chiamo Gianluca Mercadante e faccio il parrucchiere da trent’anni. Coltivo inoltre (mio malgrado) il vezzo di scrivere libri, e di leggerne a tonnellate, ma è grazie alla professione con la quale mi sostengo se non ho idea di cosa significhi non aver voglia di alzarsi dal letto per andare a lavorare.

    Ho idea di cosa significhi non aver voglia di alzarsi e basta, sono pigro e resterei a crogiolarmi nel dormiveglia ore e ore. Come faccio una volta silenziata la sveglia, che provvederò a disattivare.

    Ripenso alle ultime giornate, massacranti più del solito. Il formicolio che da qualche tempo in qua attraversa il braccio destro, ed esplode al centro della mano con un bruciore acuto, me lo rammenta molto meglio di quanto già non riuscisse ogni mattina.

    Lavoro in un negozio che gestisco da solo, ricevo su appuntamento e ho ridotto a zero l’attesa fra una persona e la successiva. Il problema è che ho appuntamenti di mezz’ora in mezz’ora – e questo vuol dire, in termini pratici, che di trenta minuti in trenta minuti sono chiamato a servire qualcuno che si fida di me. Perfino in questa confusionaria circostanza.

    Nell’ambito operativo della mia professione è considerata routine sterilizzare i materiali che entrano in contatto con la clientela – e forse il governo, dando per scontato che normalmente noi si agisca secondo questo protocollo, in un primo approccio sulle misure di sicurezza da imporre abbia dato altrettanto per scontato che i nostri negozi fossero luoghi sicuri.

    In una situazione per l’appunto normale sarei pronto a sottoscriverlo, almeno per quanto mi concerne. Ma questa situazione normale non è.

    A fronte dunque del fatto che nessun decreto circostanziava informazioni a tal riguardo, mi sono permesso di pensare nell’immediato che quel che facevo non fosse abbastanza e da par mio mi sono organizzato, in regime di totale autonomia e arbitrarietà.

    Ho innanzitutto esteso le tempistiche, in maniera che mi fosse possibile eseguire davanti all’utente una pulizia completa – e manuale – dei ferri, prima e dopo l’uso, per poi passare a sanificare il posto che ha occupato. Ho eliminato una poltrona e distanziato le sedute per garantire il metro di distanza fra i clienti, che si sono unanimemente sentiti rassicurati e protetti dall’atteggiamento marziale che ho voluto adottare – e, in qualche modo, ingiungere loro. L’unico a cui non ho potuto per ovvie ragioni offrire garanzie sono io, le mie difese: guanti, mascherina, disinfettanti e un po’ di buon senso.

    Non pago, ho ordinato pacchi su pacchi di mantelle monouso, che normalmente utilizziamo per colori e permanenti. Le ho impiegate nell’esecuzione dei tagli. A ognuno la sua, è roba che si butta.

    Quando il rappresentante mi ha consegnato la scatola – che fra parentesi devo ancora saldare –, s’è innescato fra me e lui un dialogo grottesco.

    «Mi raccomando» ha detto, sottovoce nonostante fossimo soli. «Non è che ti metti a scriverla su Facebook, ’sta cosa delle mantelle?»

    Sono ben poco social, lo ammetto. Uso Facebook nell’esclusivo e dichiarato intento di promuovere l’attività che svolgo da scrittore: uscite in libreria, presentazioni, eventi letterari che mi coinvolgono, interviste, recensioni ricevute, o scritte da me su libri di altri. Non ho Instagram, né WhatsApp, ebbene no, e ho ancora un vecchio Nokia. Telefonini che consentono la vita, li chiamo.

    Quindi perché dovrei nutrire tanta urgenza di comunicare che nel mio negozio, cui su Facebook non accenno mai, ho deciso di utilizzare mantelle monouso su tutti?

    Notandomi accigliato a quell’uscita, il rappresentante ha aggiunto, a mo’ di ulteriore chiarimento:

    «Sei l’unico fra i tuoi colleghi di mia conoscenza ad averci pensato. Se lo dici facciamo la fine delle farmacie con le mascherine!...»

    Il decreto Conte ha rasserenato pure lui, poveretto, costretto a girare dalla mattina alla sera. Non c’è stato bisogno di postare consigli a beneficio di colleghi, per altro la mia lista di amici non è che ne pulluli.

    Da adesso siamo a casa. Io, il rappresentante, quasi tutti.

    Mentre sto per chiedermi chi siano di preciso quei quasi tutti, e quanto li senta vicini per aver anch’io lavorato nello stress che sicuramente subiranno dovendo comunque svolgere le proprie mansioni, una serranda, dabbasso, si solleva.

    Ho le allucinazioni, penso. Sarà il dolore al braccio, che mi spinge a sprofondare dentro un nirvana ingannevole, nel quale il mondo continua a vivere una quotidianità inalterata.

    Invece, poco più tardi, se ne sente un’altra.

    Suoni rassicuranti, oggi. I suoni di sempre, la colonna sonora della mia normalità. E sono veri, non ho dovuto decidere fra la pillola blu o la pillola rossa.

    Mi alzo, inforco gli occhiali, mi precipito alle finestre con l’apprensione che ieri, e qualsiasi mattina precedente, dirottava in bagno i miei passi. La pipì da appena svegli è un diktat.

    Tiro su le tapparelle, la vescica che sento scoppiare passa in second’ordine, come i futili egoismi di ognuno di noi in questo particolare momento. Ma permettetemi di essere futilmente egoista, due secondi. Il tempo di apprezzare il fatto di abitare sull’incrocio di un corso dove ho farmacia e tabaccaio sotto casa e una panetteria sull’opposto lato. Aperti.

    In quei due secondi di futilissimo egoismo voglio sentirmene felice, alla faccia di chi ci lavora con l’ansia addosso, propria e altrui. In quei due secondi mi piace addirittura pensare che si sia trattato di un incubo. Il coronavirus non esiste, non esiste alcuna emergenza, devo aver letto un po’ troppi libri di James G. Ballard e digerito male la cena.

    Basta però che abbassi di un niente lo sguardo ed ecco che nel campo visivo rilevo la presenza sul marciapiede di alcune persone; attendono il turno fuori dalla farmacia, distanti un metro le une dalle altre, con indosso la mascherina, o un foulard.

    Sembra un carnevale triste, una danza malata.

    È la mattina del 12 marzo 2020. Buongiorno Italia, buongiorno Maria.

    Il cane, che uggiola in salotto da quando s’è accorto che il padrone, di là, è tornato fra i vivi, esige la sua passeggiata lo stesso.

    Giorno 2

    Mi occupo di Sansone da quando mia madre, che ne è stata la legittima e adorante proprietaria, è ospite di un istituto per anziani. A dispetto del nome altisonante, si tratta di un incrocio fra un chihuahua, un pechinese e altro di non pervenuto. Il risultato è un esserino col muso da Yoda, grande come una bottiglietta di minerale con le zampe.

    Lo sto portando a spasso lungo un viale fino a mercoledì abbastanza trafficato, oggi deserto. Incrocio qualche proprietario di cane che conosco e benché in precedenza fra i nostri animali non si fossero verificati alterchi, attraversano e proseguono sul marciapiede di fronte.

    Credo sia corretto agire così. Temo piuttosto il pensiero – e le azioni – di chi sostiene si stia facendo un polverone per nulla; vagli a toccare il curatissimo orticello privato, a certe persone, per non parlare di tutti i diritti che sempre cianciano di vedersi negati benché gli spettino. Gente che pensa con la propria testa, si autodichiarano. Convinti loro.

    Qui si tratta di una scelta etica e civile, ecco qual è la vera questione che genera disagio. Siamo un popolo che da parecchio ha perso di vista una visione etica e civile tale da porre, almeno all’occorrenza, tutti sullo stesso piano. Adesso che sullo stesso piano ci dobbiamo restare a tempo indeterminato, è fisiologico che ci vogliano delle regole. E che si debba, semplicemente, osservarle.

    Pensare non è richiesto. Ricominceremo a pensare nel momento in cui potremo permettercelo di nuovo, come quando in tivù appariva il cartello: LE TRASMISSIONI RIPRENDERANNO IL PIÙ PRESTO POSSIBILE.

    Tanto complicato?

    Mentre il mio amico a quattro zampe sta ormai da un pezzo col muso in ammollo, dentro un ceppo di erbacce che deve nascondere qualcosa di davvero interessante (forse ha trovato La Forza, chissà…), il persistere di un rumore di sottofondo mi sottrae vivaddio ai miei deliri sociologici. Un rumore che il traffico abituale avrebbe di certo soffocato.

    Seguo incuriosito la direzione del suono e ne intercetto l’origine: sui rami dell’albero davanti al quale io e Sansone stiamo fermi, a ciuffi, sono sbocciate delle gemme. E le api, indisturbate, fanno quello che a noi, guarda caso, è stato ordinato per il bene comune di evitare: lavorano, vivono la propria vita, occupano lo spazio che tocca loro occupare. Ma soprattutto ci ricordano che un inverno che nessuno di noi dimenticherà mai sta mollando il colpo. Con tutti i suoi virus.

    Mi vengono d’un tratto in mente, non so perché, i libri.

    Anzi, no. Credo di saperlo.

    Se c’è una missione che i libri dovrebbero compiere, secondo me, non potrebbe che essere quella di abitarci delle parole con cui nominare una a una le cose del mondo, perfino le più alienanti e incomprensibili, e sorprenderci, mostrando della vita lo squarcio, il lume che contraddistingue l’essenza della vita stessa. Emozionandoci. Facendoci trascorrere del buon tempo in compagnia delle storie che le pagine raccontano, avendo modo e voglia di leggerle.

    E adesso che di tempo ce n’è… adesso che di tempo ce n’è suona il cellulare e tocca rispondere. Hai visto mai sia la casa di riposo, han vietato gli ingressi non appena chiuse le scuole, non vedo mia madre da un mese. Se non chiamo io, vengo contattato dal reparto per fornire beni di natura personale, saponette, asciugamani, biancheria.

    Invece è il caporedattore di un giornale locale col quale collaboro.

    «Come stai?» Subito s’informa, sapendo che il lavoro che faccio può benissimo avermi portato a contatto con persone contagiate.

    Gli dico che sono in forma e lo ragguaglio in merito alle misure che ho adottato, giusto per metterlo tranquillo e fare un po’ di polemica.

    «Senti» fa lui, propenso a più pratici risvolti. «Avresti voglia di scrivere un articolo sui libri da leggere durante la quarantena?»

    «E… e cosa potrei consigliare? I promessi sposi, che parlava dell’epidemia di peste, o direttamente La peste di Camus?»

    A patto che allegata al numero regalerà ai lettori una lametta da suicidio, mi astengo dal chiosare.

    Avendo colto l’intonazione critica dietro le perplessità che gli ho esposto, il caporedattore, persona intellettualmente onesta e di profonda cultura, esala un sospirone e si assume il rischio che chiunque si è assunto, se ha indirizzato al qui presente le seguenti due paroline:

    «Fai tu.»

    Perfetto. Oltre a scendere il cane, oggi lavoro. Sono un privilegiato.

    «L’idea…» soggiunge poi «…potrebbe nascere dalla celeberrima domanda, no? Quale libro porteresti sull’isola deserta?»

    Eh. È ’na parola.

    Che poi chi cazzo se l’è inventata, ’sta domanda? Cosa diamine dovrebbe andare a farci un povero cristo qualsiasi su un’isola deserta?

    La quarantena per il coronavirus, risponderebbe il povero cristo qualsiasi.

    Ognuno di noi è diventato dall’oggi al domani un’isola deserta, distante almeno un metro da un’altrettanto solitaria consimile. Siamo il Big Bang in stato sospeso, prima unito e dopo esploso, ma subito frizzato in un fermo immagine che sembra dover durare un’eternità.

    In questo orizzonte divelto, in queste ore che viaggiano più veloci di noi e di colpo ce le ritroviamo stoppate, ad aspettarci, c’è altroché bisogno di qualche buona storia. C’è bisogno di fantasia, di quel posto dove ci piove dentro, per dirla come tal Italo Calvino.

    Senza calcolare che la fantasia, l’immaginazione, è il farmaco più potente di cui l’organismo dispone allo scopo di ridurre l’ansia provocata dallo stare forzatamente nelle nostre case. Case che, in fin dei conti, abbiamo appunto immaginato, al dettaglio, per poi arredarle a nostro insindacabile gusto e piccarci poi di quanto poco tempo vi trascorriamo, presi (o rapiti?) dalle rispettive vite.

    Il coronavirus non ci ha infettati in massa, né ci sconfiggerà, ma ci sta instillando l’urgenza di custodirle, le nostre vite, ognuna al riparo dentro il cuore caldo dell’isola che ci tocca divenire.

    Come gli uomini libro di Fahrenheit 451, che rimandavano a memoria un romanzo a testa onde evitarne la completa distruzione, dovremmo andare alla ricerca di un libro che possa ricordarci chi siamo. E che ce lo ripeta, finché non potremo toglierci le mascherine e mostrare innanzitutto a noi stessi quant’è ancora luminoso il nostro sorriso.

    Quel libro non esiste purtroppo in nessuna libreria. Non si può recuperare in ebook. Quel libro ce lo siamo scritti dentro, giorno dopo giorno. E l’unico segnale che dal nostro interno deve e può emergere, nel corso della frenata che ci ha arrestati, sta nel difenderci l’uno dall’altro, sta nell’attraversare la strada al momento opportuno. Sta nell’attribuire a ogni singolo gesto l’importanza attribuita a quelli che consideriamo grandi gesti, grandi gesti di cui rendiamo oggetto tuttavia rare persone.

    Il coronavirus ci sta offrendo l’occasione di estendere la nostra necessità di produrci in grandi gesti verso chiunque, facendo in realtà poco e nulla, indistintamente protagonisti e vittime della trama di un giallo nel quale l’identità dell’assassino è stata spoilerata a prescindere.

    Sansone risolleva il muso dalle erbacce. Non ha trovato La Forza, ma conosco lo sguardo implorante che questo Yoda in miniatura mi rivolge.

    È tempo di scrittura e di crocchette.

    Giorno 3

    Tenere seduto un parrucchiere è una sfida che non auguro di tentare ad anima viva. Neppure il coronavirus può illudersi di spuntarla.

    Uno dei motivi per cui ci metto parecchio a scrivere un libro sta proprio qui: sono impossibilitato per indole a restarmene seduto, non per oltre un tot di tempo, per lo meno, che stenta a raggiungere l’ora piena.

    Cosa succede? Niente di che, per carità. Mi alzo e piglio a camminare, su e giù per casa, faccio il tour dell’appartamento. Evento gettonatissimo, lo replico in continuazione e registro il tutto esaurito. Con un pubblico pagante composto da un solo utente, me, rappresento il cento per cento d’incasso al botteghino.

    Così faccio, mentre questa prolungata astinenza contro cui son costretto a fare i conti perdura.

    Non dovrei trovarmi qui, a battere tasti sul pc e contare quanti paragrafi ho buttato giù per vedere se sia già il caso di giocare al criceto in gabbia. Né in negozio, a destreggiarmi fra la clientela. Il telefono che suona in media ogni dieci minuti, gente che ha bisogno in giornata e l’agenda è full, donne non del tutto convinte del nuovo look e che a sorpresa ti monopolizzano la mattinata, incapaci altrimenti di arrivare a sera.

    No. Dovrei trovarmi in una stanza spoglia, con delle sedie al centro disposte a cerchio. Perché ho un problema di astinenza, ebbene sì, che a tre giorni di pur condivisa reclusione morde allo stomaco.

    Il salotto dove sto scrivendo queste righe potrebbe in effetti prestarsi al caso, c’è perfino una colonna di cui non comprendo il senso e nella quale, simbolicamente, si può ipotizzare vi si trovi seppellito il cadavere di un parrucchiere cinese. Non per paura del coronavirus, ci mancherebbe, ma per inscenare su di un ideale set l’astio che la mia categoria manifesta verso coloro che vengono considerati usurpatori del mestiere, arraffa clienti a tradimento e mercenari del prezzo basso.

    Immagino, nella versione riveduta e corretta del salotto, seduti nel cerchio attorno all’insensata colonna, donne e uomini dai look eclettici, cliché di chi esercita la mia professione – e che, di recente, spopolano nelle reti commerciali.

    C’è un’ultima sedia rimasta vuota. La riunione che sto di sana pianta cogitando ha paradossalmente preso il via senza di me.

    «Scusate» dico agli astanti, che si voltano con facce inospitali, offese dal ritardo. «Stavo assumendo il metadone.» minimizzo.

    Mi fissano interrogativi.

    «Scrivevo» preciso. «E ho perso di vista il tempo. Almeno ne approfitto per fare qualcosa di creativo comunque, no?»

    Qualcuno storce il naso. A livello locale m’è giunta voce che diversi miei colleghi sostengono io debba mettermi a fare o solo il parrucchiere o solo lo scrittore, ma c’è di peggio. C’è addirittura chi maligna io scriva per ottenerne, san loro come, pubblicità. O un ritorno in immagine.

    Mi viene in mente una bella dedica che di suo pugno vergò per me un caro amico, uno scrittore scomparso verso la fine del 2018. Si chiamava Andrea G. Pinketts. Ci frequentavamo da vent’anni, siamo andati perfino in vacanza. Sulla prima pagina di uno dei suoi romanzi che in assoluto preferisco, Il senso della frase, Andrea aveva scritto: All’uomo che legge i capelli come fossero libri, all’uomo che sconfigge la banalità come fosse forfora, uno shampoo alla birra da bersi insieme.

    Credo abbia reso idea di cosa ne penso riguardo l’argomento.

    Ma vabbè. Mi siedo, tanto so. E dico:

    «Mi chiamo Gianluca e sono un drogato.»

    Pausa strategica.

    E via che mi rialzo. Lo so, ho appena fatto atterrare le chiappe, la sedia è fredda e parrebbe esserci un colpo di scena in corso, ma che vogliamo farci, amici ascoltatori? Passeggio per casa un momento, preparo magari un caffè in cucina, do due coccole a Sansone, che mi s’inerpica sui polpacci da quando ho iniziato a scrivere, e ritorno.

    In mia assenza, simbolicamente quanto la colonna col regalino incorporato, salto una riga.

    «Un drogato di lavoro.» Aggiungo subito. Che a equivocare si fa presto.

    Sì, è questa la cosa. Mi drogo dal martedì al sabato, a ritmo sostenuto, e non ne ho basta, mai. Trovo scuse per ficcarmi in negozio a far due robe la domenica, fossero pure pulizie, spesso al lunedì servo i pazienti degli ospedali presso cui ho vinto anni fa un appalto, oppure frequento corsi d’aggiornamento.

    Dire che sono un tipo tutto casa e lavoro è un eufemismo. Ci abito, in salone, è questa la diagnosi definitiva.

    La prassi dei drogati è elementare: ci si procura il denaro, si va dallo spacciatore, si acquista la dose e ci si spara in vena il tutto.

    Da me, meccanicamente parlando, accade il contrario. È la droga ad arrivare sulle sue gambe, suona al campanello puntuale all’appuntamento, siede in poltrona, mi permette di incanalare la mia inesausta creatività, di trasformare in qualcosa di bello e di utile il casino che c’ho in testa dacché sono al mondo, e a fine servizio paga. In contanti o bancomat. Non nuoce alla salute, non arreca danni immediati.

    Immediati, lo sottolineo. Tradotto dal politichese, diciamo che una quindicina d’anni fa, a giornata conclusa, facevo la doccia, divoravo la cena e uscivo. In tempi odierni l’arcipelago Divano, al completo dei suoi comfort, accoglie di sera in sera l’accozzaglia di muscoli doloranti che porto addosso e chiede in cambio di usare solamente un pizzico di grazia, se mi ci lascio cadere a piombo.

    Da tre giorni vado a spasso per casa quasi a ripetizione, le gambe lo reclamano, come la fame di dolciumi di un diabetico. Sopperisco alle ore di mancato lavoro con una marcia nervosa, che in maniera perversa lego al ricordo di uno splendido Toni Servillo nel ruolo di Giulio Andreotti. Al solo pensarci rabbrividisco, ma nemmeno figurare me stesso in quei panni è in grado d’inibirmi dallo zuzzurellare fra quattro mura.

    «E dedicarsi al footing?» Propone una fenomena del fantasioso convivio.

    È incredibile ma finora attività sportive di questo genere vengono concesse, purché non sfocino in assembramenti di corridori, impauriti più dall’idea di restare prigionieri della casa che stanno finendo di pagare, che non dal coronavirus – o dai mutui che hanno acceso.

    Preferisco la camminata veloce, nonché domestica. E lo stretching, cerco di praticarlo tutte le sere, a meno che l’arcipelago Divano non mi tenti.

    Ma se con le gambe scendo a compromessi, la creatività come la sazio?

    «Lo stai facendo in questo preciso istante, te ne sei accorto?» Dice una collega dalla chioma in stile mimetica.

    E io… boh. Non capisco.

    «Ci hai creato con la tua immaginazione per non sentirti solo, in casa. E hai scritto di noi perché per te le parole che scrivi, che leggi nei libri, sono importanti quanto lo sono i capelli. Aveva ragione il tuo amico.»

    Il mio amico. Sì, il mio amico.

    Tanto per fare qualcosa

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