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E-book236 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Un delitto, soprattutto per la sua efferatezza, scuote la tranquillità di un piccolo centro di provincia. L’avvocato Federico Antinori è titolare di un prestigioso Studio Legale che a Firenze, da ben quattro generazioni, si occupa principalmente di Diritto Penale. La sua, a differenza della maggior parte dei propri clienti, è sempre stata una vita facile e caratterizzata dal benessere economico che non lo ha mai dovuto fare privare di niente. Se proprio gli è mancato qualcosa quello è stato il vero concetto di famiglia, motivo per cui, alla soglia dei cinquant’anni, continua a non sentire ancora il desiderio di averne una tutta sua. Condivide con Marcella un rapporto sentimentale senza schemi né progetti, mentre si sente appagato dalla professione di avvocato penalista che esercita con scrupolo e coscienza incondizionata. Questo equilibrio si incrina dal momento in cui decide di accogliere la richiesta di difendere un nuovo cliente coinvolto, all’apparenza immotivatamente, negli ingranaggi della Giustizia. Al di là di ogni aspetto giudiziario, Federico capirà di avere commesso un grosso errore di valutazione. Ne aveva avuto sentore sin dal loro primo incontro, quel colloquio nel corso del quale l’avvocato studia, oltre alle ragioni prettamente giudiziarie, anche i tratti caratteriali dei nuovi clienti che si trova davanti per decidere se offrire loro la propria assistenza legale o meno. Ignorando quei segnali che lo avevano allertato, per ragioni all’apparenza poco chiari Federico aveva invece deciso di accettarne comunque la difesa. Non immaginava neanche lontanamente quanto però questa scelta gli avrebbe rovinato la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2023
ISBN9791222431659
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    Anteprima del libro

    Non guardarmi - Riccardo Riccardi

    CAPITOLO 1

    Sabato 23 dicembre 2017

    "Ognuno di noi è il suo Diavolo

    e noi facciamo di questo mondo il nostro Inferno"

    Oscar Wilde

    Il Diavolo esiste.

    È davanti a me, riflesso in uno specchio ingiallito dal tempo, che mi punta una pistola alla testa.

    Il silenzio è assordante e più insopportabile della mancanza di aria e di luce che caratterizzano questo schifo di posto.

    Seduto ad una scrivania ammaccata, che aveva di certo conosciuto tempi migliori, fisso l’uomo riflesso nello specchio e apro la bocca nel tentativo di dire qualcosa, ma gli occhi cattivi che vedo mi persuadono a tacere e a restare immobile.

    Conosco fin troppo bene quegli occhi. Resto perciò in silenzio e non mi muovo.

    Sposto lo sguardo dallo specchio al pavimento, non riuscendo più a sostenere il suo e penso che ormai, per quanto poco m’interessi, il mio carnefice potrebbe anche ficcarmi l’intera pistola nel cervello fino all’impugnatura, attraversando pelle, muscoli e ossa e poi sparare. So che lo farà ed io neanche l’ostacolerei.

    Spero solo che faccia presto; non sopporto più l’odore di stantio e fumo di questa squallida camera d’albergo che una fioca abat-jour appoggiata sul comodino alle mie spalle illumina a malapena, creando ai lati coni d’ombra inquietanti.

    Rialzo lentamente le palpebre e resto in attesa che l’uomo dica qualcosa, ma quello sembra determinato a portare a termine il proprio piano criminale in totale mutismo, finché all’improvviso dalle sue labbra non esce una voce quasi gutturale che stento a riconoscere.

    Mi fa rabbrividire.

    «Perché?» mi domanda, mentre attraverso lo specchio è tornato a fissarmi.

    Nemmeno saprei cosa rispondere, se mai ne avessi la forza.

    Riesco solo a immaginare che fra poco mi ritroveranno riverso in un lago di sangue con un foro d’arma da fuoco nella testa, mentre il mio assassino la passerà liscia ancora una volta.

    Con questo pensiero, socchiudo di nuovo gli occhi in attesa di quello che ormai considero il colpo di grazia che darà fine ai miei tormenti per rivedere, come in un film, la rapida successione di una parte della mia vita e degli eventi che mi hanno portato fino a questo punto.

    CAPITOLO 2

    Federico

    Mi chiamo Federico Antinori ed esercito la professione di avvocato penalista.

    Mio nonno già lo era, peraltro figlio di genitori anch’essi avvocati.

    Suo figlio, cioè mio padre, esercitò la stessa professione finché non passò a miglior vita, appena due anni dopo il mio esame di abilitazione; ovvero quando, senza ancora avere neanche uno straccio di esperienza, mi ero ritrovato in eredità lo Studio Legale più prestigioso di Firenze, la mia città.

    Forse anche immeritevolmente, ma mentre i miei colleghi di Facoltà erano ancora impegnati presso qualche avvocato con le uniche mansioni di fare fotocopie e caffè, io già prendevo in mano le redini dell’avviatissima attività di mio padre quando neanche avevo fatto in tempo a capire come funzionassero la fotocopiatrice e la macchinetta da caffè del suo studio.

    Fortuna che i suoi collaboratori, molto preparati ma soprattutto molto comprensivi, pur rispettandomi nel mio inedito ruolo di datore di lavoro, mi insegnarono per filo e per segno la professione forense, esattamente come a suo tempo aveva fatto con loro il mio genitore.

    Che mio padre fosse stato il miglior penalista della città non lo dico io, ma lo sostengono a gran voce tutti i Procuratori che se lo sono trovato contro in Tribunale e i tanti colleghi che lo avevano affiancato per motivi professionali.

    In buona sostanza, ho un cognome altisonante da generazioni e ne sento tutto il peso; perciò, m’impegno a mantenerne alta la fama e, devo ammettere, riuscendoci anche bene.

    Più che altro ritengo di essere dotato di una discreta onestà intellettuale, a partire dal giorno in cui devo decidere se accettare o meno una difesa, fino al momento in cui devo consigliare un cliente sulle scelte processuali da prendere. Il più delle volte è un modo di agire che va contro ogni mio interesse economico ma non posso farci niente, è più forte di me. Evidentemente, la mia coscienza riesce sempre ad averla vinta su tutto, condizionando di continuo le mie scelte professionali.

    Sono molto richiesto ma non mi rendo disponibile per tutti e scelgo bene i clienti da difendere, usando come mezzi di selezione l’intuito e lo spiccato pragmatismo che mi caratterizzano.

    Grazie a questi riesco sempre a tenermi lontano da casi che si presentano problematici sin dall’inizio; quasi sempre, devo dire adesso, considerando che se mi trovo in una camera di Hotel con una pistola puntata alla testa è dovuto proprio a un mio errore di valutazione nella scelta di un cliente e ciò di cui era accusato.

    Ragion per cui ritengo quanto abbia dell’incredibile quello che mi è accaduto ultimamente.

    Mio padre utilizzava il detto Saper essere stupidi al momento giusto è segno di grande intelligenza.

    Ebbene, o nell’ultimo anno ho raggiunto una grandezza intellettiva smisurata oppure l’aforisma tanto amato dal mio genitore faceva acqua da tutte le parti ed io sono stato semplicemente troppo stupido.

    CAPITOLO 3

    Marcella

    «Sei pronta?» stavo chiedendo alla mia fidanzata, spiandola da sopra il computer portatile aperto sul tavolo della sala.

    «Quasi» mi rispose lei, da lontano, con voce tremolante.

    Riconosco quel modo strano di parlare, le succede ogni volta che sta per mettersi le scarpe con il busto chino sulle ginocchia, in piedi.

    Noi uomini, non so perché, invece ci mettiamo sempre seduti mentre calziamo le scarpe. Sia che queste abbiano i lacci, come le mie tante scarpe inglesi, sia che si tratti di mocassini o scarpe sportive. Evidentemente i nostri pochi neuroni che rimbalzano da un lobo all’altro della testa, hanno bisogno di riposare nel corso di quella faticosissima procedura.

    Le donne no. Loro devono starsene in piedi anche su una gamba sola, piegate in due come un sandwich, piuttosto che sedersi e darcela vinta.

    Se solo potessi capire come fanno.

    Forse i tanti neuroni che affollano la loro scatola cranica riescono invece a fare un tale lavoro di squadra che non necessitano di troppi sforzi.

    «Il tempo di chiudere la fibbietta delle décolleté e arrivo» mi stava rispondendo Marcella, a conferma delle mie riflessioni.

    Bene. Chiusi il laptop del PC, mi misi in piedi, allentai la cintura e sbottonai i pantaloni per sistemarci la camicia dentro. Poi richiusi i bottoni e ristrinsi la cintura.

    Con gesti automatici indotti dall’abitudine mi sistemai il nodo della cravatta e in ultimo indossai la giacca che avevo appoggiato sulla spalliera della sedia dietro la mia, per poi allacciarne il primo bottone, come dev’essere.

    Al look ci ho sempre tenuto molto e chi mi conosce sa che non trascuro i dettagli; come nel lavoro, motivo per cui mi riesce così bene.

    Mi aggiustai i capelli con le mani, nello stesso momento in cui Marcella arrivava dalla camera da letto in fondo al corridoio che separa la zona giorno dalla zona notte di casa mia.

    Ho detto casa mia, piuttosto che nostra, semplicemente perché Marcella ha la sua abitazione dall’altro lato della città, dove vive con un gatto bianco di nome Ninno.

    Già, proprio così. Alla soglia dei cinquant’anni sono fidanzato al pari di un adolescente.

    Mai stato sposato.

    Non ho mai avuto perciò avvocati matrimonialisti, mediatori di coppia e psicologi da foraggiare.

    Non ho matrimoni fallimentari alle spalle.

    Non ho ex mogli infelici e figli viziati da mantenere.

    Il mio non è cinismo. Marcella, che di anni ne ha appena tre di meno, la pensava esattamente come me ed era felice di questa nostra scelta.

    L’autonomia e la gestione del tempo oltre che dei propri spazi, quando si vive come due fidanzati, non ha prezzo.

    Se avessi avuto voglia di stare da solo, per qualunque motivo, non avrei dovuto sforzarmi troppo nel fornire particolari motivazioni e l’avrei fatto senza timore di essere giudicato. Lo stesso valeva per lei.

    Quel giorno era sabato e Marcella avrebbe dormito da me. Magari l’indomani sarei potuto rimanere io a dormire da lei.

    Il tutto senza mai programmare niente.

    Litigavamo? Ognuno a casa propria finché non sarebbero svanite le paturnie.

    Marcella doveva trattenersi in ufficio fino a tardi? Non sarebbe stato un problema; avrei disdetto il ristorante e me ne sarei restato a casa a vedere la Champions League. Ci saremmo visti, caso mai, l’indomani a pranzo nel ristorantino sotto il mio studio o nel Bistrot vicino al suo ufficio.

    Avevo un caso che doveva farmi lavorare anche di sabato perché il lunedì successivo avrei avuto un’udienza in Tribunale? Nessun problema. Marcella avrebbe cancellato la prenotazione dell’albergo programmata per trascorrere il fine settimana al mare e ci saremmo organizzati per vederci da me la sera, giusto per stare un po’ insieme a cena.

    Molto bello, ma il raggiungimento di tutto ciò non era stato affatto semplice.

    Marcella veniva da un travagliato matrimonio che l’aveva logorata e fatto smarrire la fiducia negli uomini, dopo una causa di divorzio durata tre anni.

    Per ironia della sorte mi conobbe proprio tramite Marta, la sua matrimonialista nonché sua amica d’infanzia, che io frequentavo già da tempo per motivi di lavoro.

    Ci presentò una sera in occasione dell’ouverture alla stagione invernale del Teatro Verdi in centro a Firenze.

    Restai subito colpito dalla sua bellezza e dalla spiccata somiglianza a Nicole Kidman in versione castano scura.

    Peccato la rigidità caratteriale. Tuttavia, sebbene Marcella all’apparenza si mostrasse piuttosto superba, proprio al pari della famosa attrice, sospettavo che invece nascondesse un’anima estremamente vulnerabile. Non mi sbagliavo affatto.

    La salutai con la richiesta di poterla rivedere e lei ricambiò i saluti ma senza promettermi alcunché, forse sperando anche che non la contattassi mai, chissà.

    Per non apparire invadente la chiamai solo dopo tre settimane, grazie a Marta che mi aveva fornito il suo numero di cellulare, per proporle un innocente aperitivo in centro storico. Sono sicuro che restò favorevolmente colpita di essere stata invitata in un piccolo e disparato locale, frequentato principalmente da turisti stranieri, anziché in uno dei tanti blasonati bar che si trovano fra Piazza del Duomo, Piazza della Signoria e Piazza della Repubblica.

    Vero è che ci tenevo a fare colpo su quella donna, ma non desideravo di certo farlo ostentando la frequentazione dei locali più alla moda della città. Volevo solo essere me stesso senza troppi orpelli, sebbene capii subito che Marcella in quel momento non avesse intenzione di farsi coinvolgere troppo emotivamente da nessuno, perciò neanche da me.

    Questo nonostante il mio aspetto che se ora descrivo piacente è solo per pura modestia, perché so bene di essere un uomo molto avvenente, con i miei capelli brizzolati di media lunghezza, i miei tratti regolari in contrasto con un mento volitivo che ricorda gli attori americani delle soap opera, il mio metro e ottantacinque di altezza che sorregge un fisico atletico e longilineo, ma soprattutto i miei occhi neri che solitamente le donne apprezzano più di ogni altra cosa.

    Anche se solo dopo diverso tempo, Marcella cedette comunque al mio discreto ma esplicito corteggiamento.

    Iniziò da quel momento un rapporto idilliaco, con tutte le sfaccettature positive che ho appena descritto, finché nella mente di Marcella non si riaffacciarono i fantasmi del passato travestiti da sospetti, a causa di alcuni miei atteggiamenti che adesso definire semplicemente stupidi, offenderebbero il comune senso del pudore.

    I continui tradimenti dell’ex marito erano stati il motivo per cui il loro matrimonio era naufragato. Lo ero venuto a sapere dalla stessa Marcella e solo molto tempo dopo averla co nosciuta, facendomi comprendere tanta diffidenza nei confronti dei miei iniziali corteggiamenti.

    Inoltre ebbi modo di scoprire, grazie a quella tardiva confidenza, che la sua gelosia, ai miei occhi patologica, in realtà fosse dovuta a una profonda sofferenza interiore le cui radici stavano in una serie di soprusi subiti in quattro anni di matrimonio.

    «Sei molto elegante» mi disse non appena me la trovai davanti, facendomi sobbalzare dalla mia rievocazione di vecchi ricordi.

    «Grazie e tu sei bellissima» replicai.

    Mi diede un leggero bacio sulle labbra per non sporcarmi di rossetto, dopodiché uscimmo dal portone.

    Gli amici ci aspettavano nel ristorante più esclusivo della città. Molti erano miei colleghi, come Marta, altri erano amici del Liceo. Tutti miei ospiti.

    Festeggiavo la sentenza di assoluzione con formula piena di un mio cliente, emessa il giorno prima, in un processo durato poco più di un anno.

    Peccato per la Pubblica Accusa che a difenderlo ci fossi stato io. E non lo dico per presunzione, ma semplicemente perché ritenevo che l’uomo fosse del tutto estraneo ai fatti di cui veniva accusato, al di là di ogni ragionevole dubbio, da prima ancora che lo stabilisse la Corte, altrimenti non lo avrei difeso.

    In realtà per me quell’assoluzione significava molto più di quanto tutti i miei ospiti, incluso Marcella, potessero immaginare.

    Eppure, paradossalmente, fu la vera causa della mia fine.

    CAPITOLO 4

    Rosetta

    La mia vita, a differenza di quasi tutti i miei clienti ma anche di molti miei colleghi, è sempre stata molto facile e ricca di agevolazioni.

    Ho avuto il beneficio delle frequentazioni più abbienti della società sin da quando ancora non sapevo parlare né camminare e il privilegio di una linea di credito in molte boutique di Via Tornabuoni sin da quando non avevo neanche imparato ad allacciarmi le scarpe da solo. Non so se mi spiego.

    Ho studiato nelle migliori scuole private di Firenze con i più accreditati insegnanti a partire dalle scuole elementari fino alla maturità classica.

    Nel corso della mia adolescenza ho collezionato moto, conquistato fra le più belle ragazze della città e non mi sono mai fatto mancare gli abbonamenti allo stadio per seguire da vicino la Fiorentina, la mia squadra del cuore.

    Dopo il Liceo ho frequentato il corso di laurea in Giurisprudenza presso l’Università Bocconi a Milano, con tanto di alloggio di proprietà voluto da mio padre non appena superato il test d’ingresso.

    Fra feste, sfilate di moda, prime teatrali, concerti e ancora tante ma proprio tante belle donne, sono anche riuscito a laurearmi a pieni voti dopo appena cinque anni e mezzo.

    Per tutto quel periodo non ho mai preso un treno per tornare a casa perché già dall’ultimo anno del Liceo ero fra i pochi miei coetanei ad avere un’auto tutta mia e non presa in prestito dalla famiglia.

    Insomma, dal momento in cui sono venuto al mondo, non ho mai sofferto della mancanza di alcunché ma se proprio devo ammettere che mi sia mancato qualcosa, quello è stato il vero affetto dei miei genitori.

    Mio padre, sempre troppo impegnato sul lavoro, evidentemente preferiva essere un grande penalista piuttosto che un buon genitore e delegava Rosetta, la sua segretaria, per ogni occasione che mi riguardasse.

    Mia madre invece, sempre troppo impegnata a fare la moglie del grande penalista, preferiva dedicarsi alla cura della propria bellezza che a suo figlio; anche lei delegava Rosetta affinché mi accompagnasse in ogni dove, sin dai tempi dell’asilo. Per questo motivo sono sempre stato così tanto affezionato a quella che poi divenne anche la mia segretaria per continuare ad esserlo tuttora.

    Rosetta ha un’età indefinibile.

    Chi la vede per la prima volta, potrebbe credere che abbia una sessantina d’anni portati male.

    Chi la conosce da un po’, scommetterebbe che abbia quasi settant’anni portati benino.

    Ma solo chi la conosce da sempre, come me, sa che i settant’anni li ha già superati, ma guai a ricordarglielo. Ne ha settantadue, per l’esattezza, e portati benissimo.

    Iniziò a lavorare qui con mio nonno, dopodiché per me c’è sempre stata, intendendo dire affettivamente, oltreché come presenza nello studio.

    Perciò c’era quando, superata la sospirata abilitazione all’esercizio della professione, entrai come tirocinante nello Studio Legale Antinori, già passato di proprietà a mio

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