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L'ultima bozza
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E-book231 pagine3 ore

L'ultima bozza

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Info su questo ebook

Stefano, un incallito correttore di bozze, abituato a setacciare le sue passioni e la scrittura, intrappolerà il sassolino scomodo del suo passato. Un destino beffardo gli farà valutare la bozza di un autore esordiente. Nel rielaborarla, qualcosa lo costringerà a rivedere le sue convinzioni e a superare le sue fobie. Stefano lo farà ricorrendo a un inganno, lo stesso che ha segnato la vita dell'altro protagonista: suo padre, Franco.

Sullo sfondo di tre storie d'amore, fra colpi di scena e drammi, l'intreccio, capitolo dopo capitolo svelerà il memoriale di Franco, un soldato italiano catturato dai Tedeschi a Lepanto subito dopo l'armistizio, e imprigionato in sette diversi campi di concentramento. Se il perdono accomuna e illumina il cuore di chi ritiene che in ogni inganno c'è qualcosa di autentico da salvare, la luce discontinua di un piccolo faro svelerà i contorni di una strana leggenda...

LinguaItaliano
Data di uscita9 feb 2014
ISBN9788868857257
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    Anteprima del libro

    L'ultima bozza - Michele Scaranello

    L’ultima bozza

    – Michele Scaranello –

    A Maria,

    allo sconfinato affetto per suo padre.

    A mia sorella Antonella,

    che si è spenta, prima dell’uscita del mio romanzo.

    Copertina a cura dei grafici

    Antonio Delvecchio e Chiara Torre

    Ogni inganno è sorretto da un sottile equilibrio:

    la colpa di chi lo usa e l’indolenza di chi vuole ignorarlo.

    I

    Il mio adorato mestiere di correttore di bozze è senza onori e senza gloria. Se per gli autori la scrittura è fonte di emozioni e patimenti, per me, censore incallito, leggere e rileggere con distacco è un’ossessione a cui sarà difficile sottrarmi. Fra crudeltà e tenerezze letterarie, ogni parola, ogni sillaba diventa il frammento di un congegno, e su un foglio impiastricciato edifico e smantello senza posa ogni possibile ingranaggio verbale.

    Dopo trent’anni di attività distinguo subito i pensieri retorici di uno sciatto e improvvisato sognatore dal sogno, accarezzato e poi rapito in una pagina bianca; perché nei bagliori del sogno l’esplorazione di un umile artista avrà già impresso il fascino della sua scrittura. In tanti mi detestano per aver amputato le loro fragili velleità, ma l’orgoglio di aver dato lustro a un’opera immortale resterà la mia unica e breve soddisfazione. Rasente e perpetua come la corrente marina, così la scrittura traccia l’approdo ideale fra due o più velate solitudini. Una, forse la più sconosciuta, è la mia.

    Non mi sono sposato: il mio aspetto è sempre stato troppo burbero e trasandato per avvicinare le donne. La miopia, il naso aquilino e il mento pronunciato hanno fatto il resto. I miei interessi da sempre si esauriscono nella lettura e nell’ascolto della musica jazz, di quella fantastica melodia che mi riporta al sogno americano accarezzato da ragazzo, quando mamma pensò di emigrare in cerca di miglior fortuna. Già, l’America. All’epoca mi sarei imbarcato sul primo bastimento pur di raggiungere il Cotton Club di New York. Mi sarei indebitato, pur di vedere duettare a suon di tromba Louis Armstrong e Nick La Rocca. Pur di strimpellare un contrabbasso, avrei attraversato il fumo pernicioso di quei locali notturni, dove sigari cubani ardevano indolenti la cenere, accesa come uno swing interminabile. Ogni nota sarebbe stata dissacrata dall’improvvisazione, strumentale, delirante. Senza lasciar respiro. Del resto, il jazz è come il mio lavoro: frantuma il suono e lo rielabora con una musicalità nuova, fino a esplorare melodie decise, convincenti.

    Non c’è autore o brano che preferisco, sono tutti straordinari. Amo le talentuose voci femminili di Etta James, Ella Fitzgerald e Dee Dee Bridgewater. Il loro soul aggressivo e dolce è da sempre nettare per i miei timpani. Condividevo la mia passione per il jazz con la compagna d’università Lorenza, che per conquistarmi un giorno mi regalò un vecchio sax. Io non sapevo suonarlo, né desideravo competere con i mostri sacri. Ci appartammo a casa sua e lei mi saltò addosso, cercando un bacio che riuscii a schivare.

    «Stefano, ma che ti piglia?» Mi urlò, mentre paonazzo mi dibattevo per una via di fuga. Dopo pochi minuti d’isolamento con una donna, arrossisco e sudo freneticamente. È un’asfissia cui non esiste rimedio. O meglio, sono io a essere riluttante ad ansiolitici e strizzacervelli. All’epoca, mica potevo curarmi per qualcosa di cui non mi sarei mai ammalato! Magari oggi avrei dovuto disintossicarmi con altri farmaci e sedute per riconquistare la mia libertà. No, a me va bene così.

    Adoravo l’America, volevo inseguire concerti jazz per tutta l’Italia, ma non ho mai preso la patente: sono pigro, ma soprattutto ho paura di guidare. Gli altri possono esser protagonisti, io leggo e ascolto. Le macchine e i congegni elettronici sono l’antitesi del mio mondo, un mondo fatto di letture e trentatré giri, in vinile. L’unica trasgressione consentita è l’impianto stereo di nuova generazione, un ingordo divoratore tecnologico che accoglie minuscoli dischi argentei, senza incidere alcun solco, senza distorsione, dicono i tecnici. A me invece piace lo scricchiolio della puntina che apre un orizzonte di note e melodie. I moderni compact disc riducono gli spazi, ma creano innumerevoli fessure di vuoto tra un ripiano e l’altro della mia libreria, ed io odio gli spazi vuoti perché prima o poi devi preoccuparti di colmarli. Adoro invece la mia poltrona in pelle, testa di moro, che sosta al centro della stanza, proprio dinanzi la scrivania. è qui che mi rifugio a leggere, a pensare, come in questo momento. Amo il mio studio: le sue braccia in acero chiaro come cellette generose accolgono i miei tesori e circoscrivono le pareti. Da un lato conservo i libri di una vita, dall’altro raccolgo i long playing. Forse sono l’unico uomo sulla faccia della Terra a esporre frontalmente la copertina dei dischi, come fossero ancora in vetrina, quasi che ogni autore jazz dovesse contemplare uno scrittore intramontabile: Billie Holiday può scrutare Verga; Coleman può ammirare Dostoevskij o Pirandello, e viceversa. Non c’è un ordine, un senso particolare in questo. Ogni settimana retrocedo una copertina e ne faccio avanzare un’altra; così lo studio si ravviva di nuovi colori: nuovi titoli generano nuove emozioni. È un gioco, una piccola mania per mantenere in esercizio la memoria dei suoni e delle parole.

    Da due anni, dal venticinque settembre del novantatré, mia madre Chiara è bloccata a letto semi-paralizzata: un ictus ha ridotto la sua mobilità. Fatica a parlare, anzi a farfugliare, eppure è capace di cogliere i miei stati d’animo. Non le manca mai la forza di accarezzarmi, soprattutto quando le faccio fare un po’ di ginnastica agli arti immobilizzati, o quando, per farle prendere un po’ d’aria, la porto a spasso nella sua carrozzella. Per mia madre non è stato facile badare a me: lei si occupava del suo laboratorio di sartina, che sorgeva al piano inferiore della nostra palazzina, e non tollerava le mie stravaganze. Col tempo si è rassegnata. Già all’età di sette anni l’aiutavo a prendere le misure dei suoi clienti: cavallo, braccio, torace, bacino, erano numeri che si trasformavano in omini di velina bianca. Era un modo per starle vicino. Lei imbastiva abiti e scamiciati, riadattava giacche e cappotti destinati a scaldare più generazioni, ad agghindare l’unica vanità di una giornata di festa. Ogni abito vestiva una storia diversa, e fin da piccolo m’incantavo ad ascoltare le storie che passavano da quel piccolo laboratorio, come nelle pagine di un libro di racconti. Per mantenermi al liceo mamma lavorava spesso anche di notte, e per alleggerire i suoi sacrifici decisi di guadagnarmi qualche lira: appena uscivo da scuola, aiutavo un pizzicagnolo a confezionare pacchetti di pasta e di legumi; anni fa si vendevano sfusi, o in razioni giornaliere. Gli spiccioli che guadagnavo li investivo nell’acquisto di qualche libro usato. Io e mia madre la domenica andavamo a Messa insieme, ma disdicevo l’appuntamento con i rosari della sera, quei vespri infiniti che terminavano a tarda ora; talvolta rincasava quando ero già a letto. Preferivo rimanere a casa e godere, a buon volume, la mia musica jazz.

    Quelli dell’adolescenza furono anni difficili, mia madre pensò addirittura di emigrare. Fu il freddo inverno del 1956 a salvarci dalle ristrettezze e da quel proposito: mamma confezionò centinaia di giacche e di cappotti, ed io tagliai, insieme a lei, chilometri e chilometri di stoffa. In quel periodo studiavo al piano di sopra e nelle pause restavo ad ascoltare il rollio perforante della sua macchina da cucire a pedale. Ammiravo la sua immagine minuta, costantemente incurvata, non mi accorgevo dei capelli che imbiancavano, delle rughe sui suoi occhi vitali. Lei avvertiva subito la mia presenza, sollevava il capo e mi sorrideva. Poi si chinava e i suoi pensieri scivolavano sotto l’ago saettante. Un sottile filo di cotone avrebbe saldato ritagli di tessuto, come i brandelli di una vita non sempre generosa.

    La possibilità di trascorrere parecchie ore a casa era uno dei motivi che mi aveva indotto ad accettare il lavoro da correttore. Mia madre non lo diceva, ma ne era contenta, ed io non avrei potuto separarmi da lei per nulla al mondo. In passato desiderava che mi trovassi un’adeguata compagnia con cui varcare la porta di casa, ma io le dicevo che il mondo lo vedevo scorrere attraverso i libri che leggevo, e le emozioni che mi trasmettevano valevano quanto quelle di un buon amico o di una donna.

    Da quel maledetto venticinque settembre del novantatré mamma trascorre diverse ore a letto o in cucina. Due anni fa le ho comprato una poltroncina di tessuto, ben imbottita, dove siede spesso per guardare la tv e tenermi compagnia mentre cucino o lavo le stoviglie. Nonostante gli acciacchi, conserva una carnagione rosea, rasserenante, senza età.

    La cucina è moderna. Ogni scaffale a vista è invaso dai miei testi in formato tascabile che alterno a piccoli souvenir in ceramica. In questa stanza ho sempre l’impressione che manchi qualcosa. O qualcuno. Di mio padre, il caporale Francesco Vannucchi, si erano perse le tracce sul fronte greco nel settembre del ‘43, dopo l’armistizio. Di lui restano solo due sbiadite fotografie in bianco e nero: una, in divisa, scattata prima di partire; l’altra, insieme a mia madre, il giorno del loro matrimonio. Entrambe sono custodite in un unico portafotografie d’argento riposto sul comò; fin quando ha potuto, mamma lo lucidava con gesti di rituale sacralità.

    Mio padre era un bell’uomo, un marcantonio, per quei suoi baffetti sarebbe stato scambiato per il compianto Humphrey Bogart. La sua fotografia svela uno sguardo penetrante, un fascino da divo americano. Quando da ragazzo portavo all’indietro i capelli con la brillantina, mia madre si emozionava, diceva che ero la sua copia vivente. Eppure portavo già gli occhiali per la miopia, e il mio fisico era piuttosto gracilino al suo cospetto.

    Non ho nessun ricordo di lui: l’ultima volta che mi aveva baciato e accarezzato avevo due anni, così diceva mia madre, commuovendosi ogni volta. La venerazione per quell’uomo occupava stabilmente la sua memoria, i suoi discorsi erano intrisi di ricordi nostalgici. Sospirava spesso con amarezza, sosteneva che il tempo le avesse negato l’opportunità di amarlo come avrebbe voluto. Io non comprendevo il valore di quell’affermazione. Per quella devozione sconfinata, immaginavo che si fossero amati alla follia nei due anni trascorsi insieme.

    Il babbo era un manovale, praticava il calcio e amava la musica; aveva frequentato le scuole elementari con profitto, ma le aveva abbandonate presto per portare a casa qualche lira. Aveva iniziato a lavorare all’età di dieci anni, senza lesinare alcuna energia, anche nelle più disagevoli condizioni atmosferiche. Palo di ferro era il suo appellativo, legato alla stazza e alla forza che lo distinguevano. Almeno questo era ciò che mi raccontava mia madre. Anzi, no, diceva pure che aveva una gran bella voce.

    II

    Brik, Ventinove Gennaio, 1945

    "La guerra, la mia prigionia somigliano molto a un ingranaggio impazzito che sparge solo sciagure. Col passare dei giorni mi convinco sempre più che qualcuno ha nascosto l’interruttore per spegnerlo.

    Ho visto molti compagni scrivere memorie. Loro hanno un atteggiamento pessimista, quello che si addice a un condannato a morte.

    A scuola ho letto un libro intitolato Le mie prigioni. L’autore, di cui non ricordo il nome, come me, come tutti noi, è stato imprigionato ingiustamente. Lui ha avuto la fortuna di marcire in un unico posto; a me invece sono toccate più prigioni, come se dovessi testimoniare a qualcuno che non esiste un solo inferno.

    E siccome le disgrazie non mi hanno ancora avvilito, né mi considero un bacchettone, in odor di libertà ci provo anch’io. Ingannerò il tempo e i dubbi, che mi fanno due volte prigioniero. Spero che di tutte queste sciagure rimanga alla fine un vago ricordo, o un triste racconto da leggere a figli e nipoti."

     Trentun Gennaio, 1945

    "Avevo quasi dieci anni quando incominciai a capire come funzionava il mondo e fu triste per me conoscere le miserie di casa mia. Frequentavo la terza elementare, quando mi accorsi che la mia famiglia faceva grandi sacrifici per educarmi e sostenermi negli studi. Lo sforzo maggiore era di mia madre Lina, e in parte di sua sorella, zia Margherita. Se c’è una persona di cui voglio parlar poco, quella è mio padre Michelangelo. È stata colpa sua se la famiglia non progrediva. Sì, perché, grande amante del vino, non portava mai a casa neppure un centesimo.

    Da scapolo mio padre faceva il contadino: mio nonno materno, Lorenzo, volle insegnargli un lavoro più nobile e lo assunse nella sua bottega di arrotino. Mio padre imparò rapidamente, poté contare anche su zio Raffaele, che già da molti anni seguiva le orme del nonno; e dalli oggi dalli domani i clienti si affezionarono a lui. Di mio padre apprezzavano la manualità, dicevano che era assai simpatico.  Però, zitto zitto zio Raffaele intascava molti più denari di mio padre e quando la mamma lo scoprì, furono dolori. Il babbo si difese dicendo che era colpa della sfortuna, che era in credito con molti clienti, ma con il passare del tempo mia madre si accorse che erano i vizi ad alleggerire le tasche di papà. Lei lo ammonì più volte, lo fece pure richiamare dai suoi parenti. Papà, dapprima intimorito, giurò di rimettersi sulla buona strada, ma la promessa durò ben poco, poiché nei giorni seguenti riuscì a far di peggio. Mamma Lina, esasperata, finì col prendere una decisione alquanto scandalosa: separarsi. Mio padre tentò più volte di riappacificarsi, ma lei lo scacciò malamente, preferì far da sola. Per diverse sere lo sentii battere i pugni contro la porta chiusa, sbarrata con assi di legno. Lui bestemmiava, supplicava la mamma di entrare, squassava la porta con i suoi colpi e Dio solo sa perché entrambe non cedettero mai. Papà le chiedeva ripetutamente di vedere me e mia sorella, ma mia madre non s’impietosì mai: il suo cuore, come la porta, era una saracinesca invalicabile.

    Per non farci mancare un tozzo di pane, mamma accettò un impiego come lavandaia presso la casa del podestà e per badare ad Anna, mia sorella più piccola, fui costretto a lasciare la scuola prima della fine dell’anno scolastico; ci tornai a ottobre. Visto che zia Margherita era ammalata, mamma prese il suo posto nella vendita di petrolio e candele. All’epoca l’elettricità scarseggiava e molte famiglie usavano i lumini. Così, ogni giorno, domenica freddo e pioggia inclusi, già nel primo pomeriggio attraversavamo il paese, bussando di casa in casa. Trascinavamo a piedi un carretto su cui era fissata una piccola cisterna di duecento litri di petrolio. Ricordo ancora il tintinnare continuo dei piccoli recipienti di latta, con i quali misuravo le quantità. I clienti riconoscevano il nostro arrivo più da quel frastuono metallico che dalle nostre grida. Ci ritiravamo a casa verso le nove di sera e solo a quell’ora potevo fare i compiti, sfruttando la luce dei lumini a petrolio o delle candele che non vendevamo. Quello era il momento del sospirato riposo. La stanchezza risaliva dalle gambe e pian piano mi avvolgeva. Spesso mi addormentavo sui quaderni.

    Alla fine dell’anno fui promosso in quinta elementare. Fu quell’estate che mia madre decise di non mandarmi più a scuola: per lei ero capace di scrivere, leggere e far da conto. Mi ritenne ormai scaltro, al punto da affiancarla nella sua attività. La maestra Tina tentò in tutti i modi di farmi tornare tra i banchi, diceva che avevo talento nella scrittura e nelle scienze, ma non ci fu verso di convincere mia madre: «Se Franco ha talento come dite, può benissimo fare a meno di voi!» Questa fu la risposta di mia madre all’insistenza della maestra. A dieci anni maneggiavo già un bel po’ di denari, e non era cosa da poco. Le piccole tentazioni non mancavano e mi tolsi anche qualche sfizio. Si trattava di poche cose: un gelato e qualche biglia di vetro prima, una partitina al biliardo, una sigaretta e una birra fresca poi. Quando mia madre scoprì i miei piaceri, me le suonò di santa ragione: «Disonesto! Tu sei tale e quale a tuo padre! Franco, se continui così farai la sua stessa fine! Non sprecare la tua intelligenza!» Ripeteva. Nonostante le legnate e i rimproveri, quel che m’irritava di più era il paragone con mio padre. Non lo vedevo da anni, lo odiavo. Per colpa sua mamma si era imbastardita e le disgrazie continuavano ad abbattersi sul mio destino.

    A quindici anni tutti i vizi si erano impadroniti di me. Mamma Lina aveva ragione. Disperata, per punizione, mi affidò a un gruppo di muratori. Avevo orari massacranti, sgobbavo come pochi, e mia

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