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La Contessa Báthory
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E-book144 pagine2 ore

La Contessa Báthory

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Fantasy - romanzo breve (109 pagine) - “Ho parlato con mia madre e mio padre, morti. Con mio marito, morto. Ho parlato col re, col papa, con Dio e con l’imperatore. Alla fine ho parlato con le tenebre. E le tenebre mi hanno risposto.”


1614. Regno d’Ungheria. Morti viventi e spiriti disincarnati si muovono lungo strade, città, paesi e cimiteri, uccidendo senza pietà e – almeno all’apparenza – senza uno scopo. Il popolo, già vessato dalla lunga guerra contro gli Ottomani, fugge in preda al terrore, mentre l’imperatore Matthias II sta cercando di mettere in piedi un esercito che ribalti le sorti di una nazione che pare ormai perduta.

Al comando di un piccolo esercito di seimila uomini e in cerca di una gloria che tarda ad arrivare, il colonnello Demeter Jaksics è uno dei tanti soldati di professione che sono entrati in battaglia, agli ordini del misterioso e sfuggente voivoda Basarab. Il suo sforzo sembra condannato al fallimento, ma l’incontro con un umile monaco che porta con sé una reliquia dall’enorme potere potrebbe cambiare le sue sorti e quelle di tutto l’impero. Sempre che Jaksics e i suoi uomini riescano a riemergere vivi dal castello di Csejte, nelle cui torri diroccate la contessa Erzsébet Báthory, assassina di seicento ragazze e accusata di essere in combutta col demonio stesso, attende la sua vendetta contro chi ha osato murarla viva.


Cristiano Fighera è nato a Roma nel 1975. Ha scritto fumetti (Terra Inferno, pubblicato in Francia da Soleil), cortometraggi horror (Ultimo Spettacolo, regia di Alex Visani), testi teatrali e romanzi. Suoi racconti sono presenti in antologie edite da Dunwich Edizioni (La serra trema, Morte a 666 giri, L’ultimo canto delle Sirene, Ritorno a Dunwich 2 e nella serie di novelle Moon Witch), EseScifi (Premio Esecranda, Esescifi e Sole Morente), Edizioni Watson (Folklore e Horror Storytelling), Edizioni Hypnos (Strane Visioni) e altri. Suoi lavori sono usciti nella rivista Robot (Delos Books) e in questa collana.

LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2020
ISBN9788825412529
La Contessa Báthory

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    Anteprima del libro

    La Contessa Báthory - Cristiano Fighera

    9788825410846

    Prefazione dell'autore

    Cosa si può dire su un personaggio talmente conosciuto – e abusato – come Erzsébet Báthory, la – contessa sanguinaria – accusata di aver ucciso più di seicento ragazze per fare il bagno nel loro sangue allo scopo di rimanere per sempre giovane? Apparentemente, nulla. Eppure, nel momento in cui ho iniziato a mettere insieme le idee che sono poi confluite in questo testo, ho scoperto che invece Erzsébet è un personaggio ancora vivo, ricco di sfaccettature, e con ancora nuove storie da raccontare. Negli ultimi anni, nel suo Paese d’origine la Contessa ha subito più di un tentativo di riabilitazione. Si è ipotizzato – e forse queste idee non sono molto lontane dalla realtà – che in realtà la donna fu semplicemente vittima di un complotto ordito da alcuni nobili e dallo stesso imperatore d’Ungheria, molto interessati alle ricchezze che la Báthory aveva ereditato dal marito; e farla passare per una serial killer in combutta col demonio, processarla e murarla viva era la maniera più semplice per derubarla di tutto. Libri, articoli, saggi e documentari più o meno recenti hanno cercato di dare valore a tale ipotesi. Quello che state per leggere però non è tra questi. Anzi, gioca un po’ con il personaggio e si diverte a metterne in scena dei lati – inventati – forse ancora più oscuri. Il tutto, chiaramente, viene fatto solo per amor d’avventura e orrore. Speriamo che la Contessa, ovunque essa sia, non abbia a offendersene. E che non ci venga a cercare.

    Cristiano Fighera

    Prologo

    – Ne ha fatte fuori più di seicento, signore. Così hanno detto. Figlie di nobili e di contadini, per lei era lo stesso. Se le faceva affidare dai genitori, capite, per educarle. Così diceva. Quando avevano i genitori, ovvio. E le contadine gliele procurava Ficzkó, il nano che viveva qui al castello. Hanno detto che le marchiava a fuoco su tutto il corpo, anche sulle… e che le frustava fino a che non morivano. O le bruciava sul rogo o le squartava. Hanno detto che le faceva morire di freddo e di torture, dentro le cantine. Che ne mangiava pezzi interi, come fanno i cani. Che si bagnava col loro sangue e poi faceva a pezzi i cadaveri. Il prete del paese l’ha vista comparire una notte nella sua chiesa, trasformata in gatto nero. Il gatto parlava, e gli ha detto che il suo più grande desiderio era di mangiare il cuore di Re Matthias II. C’è stato un processo, e alla fine si è deciso di murarla viva nelle sue stanze. E sono più di tre anni, ormai. Come mai nessuno vi ha detto niente? Dove eravate?

    Miklós Báthory-Ecsed non rispose. Si strinse nel suo mantello e allungò il passo, sperando che la tortura di quella visita finisse in fretta. Mentre procedeva dietro la torcia accesa, che il vecchio faceva ondeggiare sopra la testa, continuava a guardarsi intorno, e non riusciva a credere a ciò che vedeva. Il bellissimo castello di Csejte, nel quale non tornava da più di dieci anni, un tempo luminoso e festoso in cima alla collina che dominava la valle, appariva ora polveroso e buio, vecchio e fatiscente, come se invece di due lustri ne fossero passati cento. I mobili in legno scuro – quei pochi che erano rimasti – sembrava fossero stati fatti a pezzi con un’ascia. I ritratti un tempo appesi alle pareti giacevano a terra squarciati, oppure mancavano del tutto. Tappeti preziosi erano arrotolati negli angoli come immondizia; i pesanti tavoli erano stati spinti contro le pareti, infrante le sedie, aperti gli armadi, rotte le vetrate delle finestre, ora coperte da coperte sdrucite, unico debole schermo contro il freddo dell’inverno.

    Stupito e oltraggiato, agghiacciato da un senso di orrore e tragedia incombenti che sembravano farsi a ogni passo più opprimenti, accompagnato nella sua salita verso la cima della torre del vàr, la fortezza che occupava il cortile centrale della rocca, solo dal suono dei suoi tacchi che battevano sul pavimento, dal crepitare della fiamma accesa in cima alla torcia, e dagli ansiti profondi del servo dal viso rubizzo, che pareva sul punto di strozzarsi dalla fatica e cadere a terra da un momento all’altro, Miklós si rese conto che non poteva più tollerare il silenzio che lo circondava. Silenzio di morte, colmo di oscuri presagi. Il silenzio di cimiteri sussurranti, di profonde grotte ove si rintanano i lupi, di cripte scavate nella terra e abitate solo da morti. In confronto ad esso, anche la gracchiante e volgare voce del servo che aveva ciarlato fino a pochi istanti prima si trasformava in un balsamo.

    – Ho passato gli ultimi dieci anni a Mezőkeresztes, e nelle regioni del nord, a combattere gli Ottomani – rispose, pur di udire un suono diverso da quel silenzio.

    Il servo girò subito il grosso testone verso di lui. – Avete combattuto la guerra dei tredici anni?

    – E ora sono tornato a casa. Ma se avessi saputo… – Si guardò ancora intorno e scosse la testa, affranto, senza terminare la frase. – Manca ancora molto?

    Il servo gli indicò l’ultima rampa di scale. Lasciò che lo precedesse durante la salita, e non appena raggiunsero l’ultimo piano fece segno verso la sua sinistra. Miklós vide un breve corridoio decorato con pannelli di legno; e, in fondo, il vano di una porta ostruito con pietre e malta. Solo un piccolo foro rettangolare rimaneva, in basso. Largo quel tanto che bastava – suppose – per farci passare un piatto, una brocca d’acqua, qualche oggetto.

    Ora che avevano raggiunto la loro destinazione, il servo pareva aver perso tutta la sua baldanza. Miklós attese qualche secondo, ma visto che quello si guardava intorno indeciso, dondolandosi sulle tozze gambe arcuate, gli fece cenno di muoversi e si avvicinò insieme a lui alla porta. Poggiò entrambe le mani guantate sulle pietre: erano grossi sassi grezzi, non intonacati, sistemati in modo impreciso, come se la parete fosse stata alzata in tutta fretta.

    Dall’altra parte non proveniva alcun suono.

    – È qui? – chiese.

    – Ve l’ho detto – rispose il servo.

    Miklós chiuse un pugno e lo batté sulle pietre. Il colpo produsse un rumore debolissimo, sordo, del tutto inefficace.

    – Contessa Báthory? – chiamò allora. – Erzsébet?

    Dall’altra parte, solo silenzio.

    – Cugina?

    Nulla.

    Il servo scosse la testa.

    – Risponde solo se vuole, signore – disse. – E quasi mai se uno la interroga direttamente. – Si tolse il copricapo di pelliccia e si grattò il cranio pelato. – Uno direbbe che per una persona come lei, costretta a star sola dentro una stanza murata, con anche le finestre sbarrate e senza la compagnia di nessuno, poter parlare con chicchessia dovrebbe essere la cosa più desiderabile. Eppure lei sta sempre zitta, neppure a noi che la serviamo dice qualcosa. Mah, chissà.

    Miklós strinse i pugni. Avrebbe voluto dire al servo che evidentemente sua cugina era ancora capace di mantenere i suoi modi regali, la sua dignità, e che neppure quell’orribile tortura l’aveva piegata al punto da costringerla a mendicare una conversazione con dei contadini ignoranti e superstiziosi, ipocriti e traditori, ma tacque. Se c’era una cosa che aveva imparato durante gli anni della guerra era che il popolo aveva iniziato a rifiutare di sottomettersi a coloro che gli erano superiori, non accettava più di essere trattato come meritava, e non perdeva occasione di calunniare e denunciare chi stava sopra di lui, invece di sottostare ai suoi giusti voleri. Erzsébet ne era la prova vivente. Quindi, invece di parlare, o di colpire quell’impudente, tacque, si abbassò sulle ginocchia, e ripeté il suo nome.

    Dall’altra parte dell’orribile foro nero vennero solo silenzio, buio, e una zaffata di odore acre e marcio, come di stalla.

    – Ve l’avevo detto – ripeté il servo.

    – Miklós? – sussurrò una voce.

    L’ometto sussultò.

    Era una voce sottile e acuta. Talmente lieve che pareva essere stata emessa da un corpo privo di vita, come il sussurro di un cadavere; e talmente stridente da far sospettare, dietro allo sbalordimento che sembrava esprimere, una vena incessante di follia.

    Miklós si chinò subito in avanti, poggiando entrambe le mani sul pavimento gelido. Il servo, nel vederlo in quella posizione incomoda e poco dignitosa, rise di lui.

    Miklós usò tutte le sue forze per trattenersi dall’ucciderlo.

    – Cugina? – disse, cercando al centro della sua anima il tono più dolce e rassicurante che – nonostante l’orrore di quell’ingiusta situazione – gli riuscì di trovare. – Cugina, sono io. Miklós. Ho saputo di voi non appena sono tornato a Nagyecsed e sono corso qui. Ma come è possibile? Come è stato possibile tutto questo?

    La donna rise appena. Lo squittio di un topolino. Un’altra zaffata acre si insinuò oltre il foro rettangolare. Miklós si ritrasse.

    – Ho ucciso… – sussurrò la contessa. – Dicono che ho ucciso. Il palatino ha detto che ho ucciso.

    – György Thurzó?

    – Dorka mi ha insegnato come fare…

    Il servo si fece il segno della croce. – Dorka era la strega che le ha insegnato la magia nera, e a giacere con il demonio. L’hanno bruciata viva, quel mostro. Anche lei, avrebbero dovuto bruciare.

    – Silenzio! – Gli urlò Miklós. – Parlerai solo se sarai interrogato!

    Il servo si limitò a guardarlo, senza tradire la minima emozione. Poi emise un verso roco, come di chi si schiarisce la gola, molto simile a un accenno di risata. Ma alla fine si fece indietro, limitandosi a tenere alta la torcia.

    – Cugina – riprese Miklós. – Perché lo avete fatto?

    Dall’altra parte del foro venne una nuova risata sottile, talmente stridula, e lenta, da far accapponare la pelle.

    – Da Thorko ho appreso una nuova tecnica deliziosa: prendi una gallina nera, e la percuoti a morte con una verga bianca. Ne conservi il sangue, e ne spalmi un poco sul tuo nemico. Se non hai la possibilità di cospargerlo sul suo corpo, fai in modo di procurarti uno dei suoi abiti, e impregnalo con il sangue – disse la contessa.

    – Dite una parola, una sola parola che mi convinca della vostra innocenza, e io vi farò liberare – disse Miklós. – Una parola sola. Fatelo, ve ne prego. Parlate con me. Parlate.

    – Parlare… – disse la contessa. Tacque a lungo.

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