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L'Aquila Nera
L'Aquila Nera
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E-book274 pagine3 ore

L'Aquila Nera

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Fantasy - romanzo (212 pagine) - Non guardo alla mia sovranità come privilegio di possedere, ma come responsabilità di governare. PREMIO ITALIA MIGLIOR ROMANZO FANTASY


Sicilia, primi anni del XIII secolo. In una terra scossa dai venti di un feroce conflitto di successione all’ambito trono imperiale, il giovane Federico Hohenstaufen intraprende un pericoloso viaggio insieme a un gruppo di mentori e amici. Percorrendo una terra antica, piena di magia e misteri, di creature fantastiche, crocevia di culture e di civiltà, il giovane aspirante monarca dovrà affrontare nemici nascosti e a viso aperto, distinguendo la lealtà dal tradimento, per dimostrare, soprattutto a se stesso, di essere degno del suo nome e del fardello della corona.


Claudio Chillemi,  nato a Catania nel 1964, insegnante, ha pubblicato numerosi racconti, romanzi e opere teatrali per ragazzi. Ha vinto due volte il Concorso Nazionale Teatro e Natura e nel 2000 il premio per il teatro scolastico Arte Per La Pace, e diverse volte il Premio Italia per il miglior racconto di fantascienza. Ha fondato, insieme a Enrico Di Stefano, la rivista amatoriale Fondazione. Tra le sue opere più importanti i romanzi Federico piccolo grande Re (2005) e Kronos (2009). Nel 2014 ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Fantasy and Science Fiction il racconto scritto con Paul Di Filippo The Panisperna Boys in Operation Harmony, una ucronia dedicata alla figura di Ettore Majorana.

LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2021
ISBN9788825416589
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    Anteprima del libro

    L'Aquila Nera - Claudio Chillemi

    Prologo

    Castello di Caccamo. 26 dicembre 1193

    La luce accecante che seguì il tuono inondò di un bianco e latteo candore le pareti granitiche della sala da letto della Regina.

    Un temporale imperversava in una notte di luna oscura. Solo il vagare tempestoso dei fulmini sembrava rischiarare l’orizzonte dove il mare, ancor più tempestoso, produceva ampi gorghi di schiuma bianca.

    Costanza da Hauteville dormiva inquieta in un enorme letto a baldacchino, in quello che era stato il castello di uno dei più acerrimi nemici di suo zio, il re Guglielmo che aveva regnato qualche decennio prima. Quel Matteo Bonello che invano aveva tentato di spodestare la casa reale di Sicilia e ne era rimasto ucciso dopo i più indicibili tormenti.

    Il suo sonno era turbato dal suono incessante della tempesta, ma anche da un uragano molto più grande e profondo che scuoteva la sua anima. Quel matrimonio impostole da suo padre con il figlio del Barbarossa. Enrico era un amante crudele e un marito schivo e disinteressato. Non le aveva mai mostrato un atto di gentilezza ed era giaciuto con lei nella furia e nell’odio, ritenendola un’amante troppo vecchia per le sue bramosie indegne. Lei, donna fedele alla casata e figlia fin troppo ubbidiente, si era sottomessa e aveva accolto, se non nel suo cuore, almeno nella sua vita quel tedesco villano e miscredente che non le aveva mai mostrato un atto di genuina gentilezza.

    Costanza vide balenare un altro fulmine e si coprì istintivamente gli occhi mentre tuoni roboanti scuotevano il cielo. In quella fitta penombra aleggiava il tremulo fuoco di un candeliere che lottava a fatica con il vento che spirava fischiando da una crepa in una delle finestre.

    In quell’atmosfera la Regina fu vinta dallo sconforto e si decise a chiamare la sua fedele dama che dormiva nella stanza accanto. Proprio mentre la sua bocca si stava per schiudere ed emettere un suono, innanzi a lei, similmente a un lampo, apparve una luce e come per incanto il vento si azzittì e si fermò anche la tempesta.

    Un lamento dal suono vagamente ancestrale si sostituì al fragore della tempesta. Erano parole, suoni simili a parole, di una lingua sconosciuta che però insinuava nella mente della donna un timore crescente.

    – Chi è che parla? Chi sussurra? O anime dei morti abbiate pietà di me! O Signore Iddio proteggi la mia anima!

    Il lamento si infittì e si estese turbinando da un lato all’altro della grande stanza, rimbalzando fino all’alto soffitto. Si concentrò in una serie di grida disperate, come di gente che soffriva pene indicibili. Urla di pietà e di sconforto si fecero distinte. Le mura della stanza presero vita come d’incanto. I lamenti lugubri e sibilanti uscirono dalle pareti e lentamente, quasi goccia dopo goccia, un liquido oscuro, rosso che dava sul nero, iniziò a scorrere fino al pavimento.

    La donna rimase impietrita. Afferrò la croce di ferro che aveva appesa al collo e iniziò a pregare, segnandosi più volte come in preda al delirio. I lamenti divennero urla e il liquame, che lentamente si accumulava sul pavimento, iniziò a bollire emettendo sibili acuti e stridenti.

    Costanza rimpianse la tempesta. Rimpianse il rombare del mare. Rimpianse la violenza del fulmine. Le sue mani si strinsero attorno al segno della sua fede e le sue parole divennero incerte.

    Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Requiescant in pace.

    Ripeteva con convinzione e senza paura. Chiunque o qualunque cosa fosse innanzi a lei doveva, voleva affrontarlo senza paura. Un filo di nebbia emerse dal liquido ribollente che copriva il pavimento. Il candido fumo si attorcigliò e prese forma vagamente umana.

    Apparve, dinoccolato e ciondolante, il corpo smagrito e corrotto di quello che aveva tutta l’aria di essere uno spettro. Digrignò i denti, o almeno cercò di farlo, con quella che era una mandibola scarnificata e debole. Infine, come un sussurro, un sibilo, uno squillo uscì dalla sua diafana bocca:

    – Questa è la luce della Gran Costanza da Hauteville che del secondo vento di Soave generò ‘l terzo e l’ultima possanza.

    – Chi sei tu o anima inquieta? – chiese la Hauteville.

    – Tu che mi parli senza agitazione, o tu donna di lontana stirpe che a me servì dolosa morte, io ti saluto col nome mio obliato. Matteo Bonello a servirvi io sono.

    Costanza si alzò dal letto, accorgendosi che, quasi per incanto, sul pavimento non vi era più traccia del liquido che fino a pochi istanti prima ne aveva invaso le assi.

    La donna non aveva nessuna paura di quel corrotto ectoplasma che la fissava, della carne scomposta che copriva il suo corpo diafano e informe, delle deformità frutto forse delle orrende torture a cui il suo antenato l’aveva sottoposto. Quell’essere era la spaventosa visione di un delitto infame, ma anche l’emblema di un delitto infame per un deprecabile tradimento.

    – Il Coraggio! – disse Bonello parlando tra sé.

    – Soffri ancora le pene del tuo tradimento? – chiese la Regina allungando pietosamente una mano.

    – Senza un attimo di sosta – lamentò lo spettro.

    – Ti sono vicina nella sofferenza, pregherò Iddio che ti dia tregua – lo consolò Costanza sinceramente pietosa.

    – La Pietà e il Rispetto del diverso! – commentò lo spettro con voce appena percettibile.

    – Qual è il significato delle parole con cui mi hai salutata?

    – La genuina Curiosità! – continuò Matteo senza farsi udire.

    – Perché non rispondi alla tua Regina?

    – La Fiera Appartenenza a una stirpe di re e conquistatori ti sono di pregio. Che la mia anima possa patire una sola oncia in meno di dolore, come da tuo comando mi appresto a rispondere a ogni tuo quesito.

    – E dimmi, tu che conosci la crudeltà degli uomini e la giustizia di Dio, dimmi quale futuro mi aspetta?

    L’ectoplasma si dimenò e le sue ossa scricchiolarono, mentre la carne cadeva a brandelli. Vermi viscidi gli divoravano le carni, che sembravano non consumarsi mai.

    – Tra un anno esatto, non qui, non in Sicilia, genererai la terza Possanza, lo stupore del mondo. Coraggio, Pietà, Rispetto e Curiosità, oltre che la Fiera Appartenenza, saranno i suoi compagni fedeli e una Intelligenza senza pari farà apparire la giovinezza età adulta e l’età adulta eternità.

    – Un figlio, avrò un figlio? – costanza portò le sue mani al viso.

    – Lo avrai, ma né tu né il padre avrete la ricchezza di vederlo crescere.

    – Perché mi dici tutto questo? – la voce della nobildonna era turbata, non impaurita.

    – Io porterò a lui nel futuro un tuo messaggio, cosa vuoi che gli dica?

    Costanza da Hauteville guardò verso il suo letto e vide il drappo che fino a qualche ora prima stava ricamando per fare onore al suo imperiale consorte. Un’Aquila Nera su sfondo dorato.

    – Lo completerò e lo nasconderò in seno a questa nicchia.

    La donna indicò un pannello intarsiato che, una volta rimosso, svelò un piccolo incavo sul muro.

    – Questo è lo stemma imperiale che lui adotterà. Sancisce il legame tra la Roma Antica e quella Moderna, di cui lui sarà erede. Digli che sua madre lo ama.

    Lo spettro scosse la testa in senso affermativo.

    – Ti ringrazio Mia Signora.

    – Di cosa?

    – Di non aver avuto paura di me. E… delle preghiere che dirai per la mia povera anima quando uno dei cieli lassù – e indicò il manto stellato con il dito scarnificato della sua mano destra – quando uno dei cieli lassù ti accoglierà.

    Scomparve e in un attimo la tempesta riprese. Forte e vigorosa, come se non si fosse mai spenta. La Regina rimase per un attimo in piedi, poi cadde in ginocchio e si abbatté di fianco, piangendo. Era sola con il suo presagio e stringeva tra le mani l’Aquila Nera sullo sfondo dorato che aveva designato come unica eredità per un figlio che avrebbe conosciuto appena.

    Illustrazione

    Capitolo 1

    Dicembre 1201. Assalto al Castello

    I gabbiani volavano alti in cielo e le loro strida si perdevano nell’aria. Il sole, giallo e intenso come un limone, riscaldava una frizzante mattina di dicembre e illuminava giocosamente le alte e robuste mura di un castello, che sorgeva su un promontorio battuto dalle onde del vasto lago che si estendeva sotto di esso.

    I volatili si insinuavano tra le rocce del maniero, probabilmente per nutrire i loro piccoli che in quel luogo trovavano valido rifugio. Tra le feritoie si muovevano altri esseri animati e altre voci si mescolavano a quelle degli uccelli. Le tortuose scale a chiocciola che si attorcigliavano su, verso le torri, risuonavano di pesanti armature, di frenetici comandi, di sussurri e silenzi, e di paura.

    Un piccolo drappello di armigeri stava sbarrando l’immensa porta d’ingresso con un pesante passante di legno. Altri si posizionavano tra i merli guardando in lontananza, come ad aspettare qualcuno. Alcuni ufficiali, distinguibili per i folti mantelli colorati che indossavano, sguainavano lunghe spade di ferro nero e, trovata una posizione, aspettavano coraggiosi il loro destino.

    Nonostante il forte trambusto, i gabbiani volavano ancora. Forse un banco di piccoli pesci transitava nelle vicinanze del castello, rendendo frenetica l’attività di quei gracchianti volatili; oppure, la loro natura li portava a una spasmodica ricerca di cibo; in ogni caso, lo svolazzare e starnazzare non aveva tregua, anche se tra gli abitanti del maniero qualcosa di importante stava per accadere. D’altro canto, quando mai le guerre degli uomini hanno interessato gli animali?

    – Potessimo volare, scapperemmo via senza indugio da questa prigione.

    – Volare? Cosa dice Vostra Maestà, se l’uomo fosse destinato al volo il buon Dio gli avrebbe fatto le ali.

    – Mio caro amico, all’uomo Dio ha dato il cervello, l’intelligenza e la favella: non ti pare sufficiente per poter progettare di volare?

    La stanza era appena illuminata da un raggio di sole che si faceva strada a forza tra le feritoie strette e lunghe del castello. A parlare erano un giovane e un adulto. L’uomo, alto e robusto come una quercia, portava una pesante armatura con la disinvoltura di Ercole. Alla sua sinistra, una lunga e robusta spada pendeva pronta per essere usata; alla sua destra, un piccolo stiletto riluceva se toccato dalla flebile luce. Le sue mani, grandi e nodose, stringevano convulsamente le armi e i suoi occhi, fieri e neri come le ali di un corvo, progettavano chi sa quali eroiche azioni.

    – Orsù, basta con queste divagazioni, i vostri nemici sono alle porte e voi non siete ancora pronto per riceverli! – disse l’uomo rivolto al giovane.

    – Pensate che mi uccideranno, mio buon Ruggero?

    – Voi sapete fin troppo bene, Maestà, che è impossibile uccidere un inviato di Dio. Neanche gli spettri che abitano questo castello hanno osato toccarvi.

    – Credete, dunque, che io sia nato per volere divino?

    – Mio Signore, nessun uomo nasce se non per volontà divina! Io penso, più che altro, che voi siete nato per fare la volontà di Dio. Basta con questi discorsi, io ho giurato alla vostra santa madre, prima che lei morisse, che avrei avuto cura di voi, e questo è quanto.

    – Mio caro amico, sì amico, se mai ho avuto bisogno di un aiuto questo è il momento.

    – Bene, facciamo vedere a questi sporchi mercenari senza onore come si comporta un erede degli Hohenstaufen, figlio della casata degli Hauteville, sovrano legittimo di Sicilia.

    – E ragazzino di appena sette anni – intervenne una voce sibillina.

    – Guglielmo… – salutò Ruggero infastidito da quella osservazione.

    Da dietro una tenda era apparso un uomo sulla cinquantina, magro e smunto come un morto, coperto da una strana veste interamente nera che lasciava intravedere a mala pena le mani nodose. Il volto, anch’esso triste e lugubre, sembrava uscito da uno di quegli affreschi sul Trionfo della Morte che tanto diffusamente ornavano le chiese in quel periodo.

    – Maestro Guglielmo – lo apostrofò il giovane Re – possibile che non abbiate ancora sviluppato un briciolo di fiducia nel mio regale destino?

    – No, Maestà, non è come pensate, non ho ancora sviluppato un briciolo di fiducia nell’uomo, è diverso.

    – Cosa volete dire, Guglielmo? – lo incalzò Ruggero in tono nervoso.

    – Voglio dire che nessuno conosceva il rifugio di Sua Maestà, eppure, qualcuno lo ha scoperto… o Markwald il traditore è dotato di una grande fortuna, o qualcuno ha tradito nostro signore Federico.

    – Infami, li passerò tutti per le armi! – gridò il guerriero normanno brandendo la spada.

    – Non siate così spavaldo mio buon normanno, che per la vendetta e per la morte vi è sempre tempo.

    – Orsù, basta con le chiacchiere e aiutatemi a vestire – ordinò il giovane sovrano.

    Federico di Hohenstaufen era un ragazzino di appena sette anni e in verità li dimostrava tutti. Poco più alto di quattro palmi, sembrava più imponente perché non reclinava mai il capo, che teneva sempre elevato e impettito; i suoi occhi, di un intenso color grigio-azzurro, erano micidiali come due lame di coltello e chiunque fosse riuscito a reggere il suo sguardo, dopo qualche istante sarebbe fuggito a gambe levate; la capigliatura folta e vaporosa era color del grano, valido cuscino per le numerose corone di cui la sua testa era dotata.

    Il giovane re si lasciò vestire con la solennità che il momento richiedeva, senza tralasciare neppure un particolare che potesse inficiare la sua figura: dall’ampio mantello azzurro allo stiletto con fondina dorata che sistemò alla sua sinistra; dalla tunica rossa, stretta in vita da una pesante cintura, ad anelli e bracciali di pregio.

    – Al mio nemico dovrò apparire come un re, perché questo sono.

    – Sì, Mio Signore – disse Ruggero reclinando il capo.

    – E se dovrò affrontare la morte, che essa venga con la spavalderia e la velocità del falco – affermò il giovane sovrano compiendo alcuni passi verso l’imponente porta borchiata che lo separava dal resto del mondo.

    Fu proprio da dietro quell’uscio che si udirono i primi rumori della sconfitta. Sordi e pesanti colpi di mazza, frammisti a rumorosi e stridenti colpi di spada, poi le urla e le richieste d’aiuto, quindi un affrettarsi sulle scale di roccia e un chiamare confuso: ora Dio, ora la Santa Vergine, alla richiesta di una fine veloce e pietosa che stentava a giungere.

    – Li stanno massacrando, decine e decine dei miei uomini massacrati per me – sobbalzò Federico rigando il suo viso con una lacrima solitaria.

    – Di sicuro non rimpiangeranno la vita se per voi sono morti, Maestà – lo confortò Ruggero con un filo di voce.

    – Oppure, la rimpiangeranno perché volevano continuare a servirvi – commentò tagliente Guglielmo.

    – Sentite, eccoli che arrivano, teniamoci pronti. Ora è certo che se gli spettri del castello volessero intervenire ci sarebbero di grande aiuto! – esclamò il giovane re con un riso sarcastico colmo di fiero coraggio.

    Dalla porta si sentivano frasi concitate e uno strano sferragliamento. L’uscio si schiuse e quattro armigeri entrarono nella stanza armati di tutto punto, con le lame delle loro spade ancora grondanti del sangue appena versato. Alla vista di Federico di Hohenstaufen, così giovane e nello stesso tempo così fiero, per un istante rimasero incerti sul da farsi; videro Ruggero porre mano alla spada e Guglielmo afferrare il pugnale e li guardarono dalla testa ai piedi con fare minaccioso.

    – Calmate la vostra esuberanza miei fieri maestri, calmatela. Vediamo cosa vogliono questi eroici soldati dalla nostra volontà – disse il giovane sovrano facendo un eloquente segno con la mano.

    – Ragazzo, sei tu quello che chiamano Federico? – chiese uno dei militi.

    – Quello è il mio nome d’oggi, ma sono nato appellandomi Costantino, come volere di mia madre. Chi lo vuole sapere?

    – Mi chiamo Franz Auffmeier, capitano delle guardie al servizio di Markwald di Anweiler, signore legittimo di Sicilia, e sono qui per uccidervi.

    – Capisco, e vi aspettate che io reclini il mio regale capo come l’agnello fa sull’altare? Come Nostro Signore Gesù Cristo ha fatto sulla Croce? Non sono degno di una morte sì gloriosa e non vi darò la possibilità di infliggermela!

    – Senti come parla bene il ragazzino – lo schernì uno dei soldati facendosi avanti. I suoi denti, neri e cadenti, esalavano un alito pestilenziale e la sua armatura, sporca di sangue e di resti di corpi umani, ne era il giusto completamento. – Chi ti credi di essere, piccolo essere infame – concluse colpendo con un dito la spalla del giovane Federico.

    – Io sono quello che sono – rispose il giovane guardando di sbieco il punto esatto ove il nemico aveva osato colpirlo. Con un rapido gesto, gettò indietro il mantello e impugnò la sua lama.

    Era il segnale convenuto, Ruggero sguainò l’arma lunga e lo stiletto, altrettanto fece Guglielmo. Ciò che sorprese maggiormente i soldati, tuttavia, fu la facilità con cui anche il giovane Hohenstaufen afferrò la spada e si mise in posizione d’attacco. Il valoroso guerriero che la morente Costanza aveva messo a guardia del figlio era senz’altro all’altezza del suo difficile compito. Discendente da razza normanna, cresciuto nella terra di Puglia, era un uomo indomabile e senza paura, capace di resistere ai dolori più forti e alle fatiche più tremende, ma anche in grado di atterrare con un sol colpo un nemico e di spaventarlo ancor prima di combattere, semplicemente guardandolo negli occhi. Ruggero incalzò il capitano Auffmeier e suoi soldati con tale vigoria che in men che non si dica l’ufficiale era a terra in fin di vita e la mano che aveva osato toccare il giovane sovrano era volata, recisa in una pozza di sangue, ai piedi di Federico. Questi, dal canto suo, aveva finito il nemico con un rapido fendente al ventre e subito si era messo a incalzare un terzo soldato che, fin troppo sorpreso da quella reazione, stava retrocedendo verso le scale chiamando aiuto. La richiesta gli si spense presto in gola, perché l’abile mano di Guglielmo pose velocemente fine alla sua vita. Restava un quarto armigero con cui fare i conti, ma l’uomo si era messo subito in ginocchio a chieder pietà.

    – Pietà? Per cosa, per il tradimento? – lo zittì Ruggero minacciandolo alla gola con il coltello.

    – Quanti siete? – chiese il giovane Federico.

    – Trenta cavalieri, gli altri son di sotto a saccheggiare provviste e tesori… noi siamo saliti su per uccidervi, pensavamo che quattro uomini d’armi sarebbero bastati per far fuori un ragazzo.

    – Maledetti – mormorò Guglielmo.

    – Noi non abbiamo colpa, abbiamo solo ubbidito agli ordini – cercò di scusarsi il traditore.

    – Ora tu ci farai uscire di qui! – ordinò lo Hohenstaufen. – Ruggero, Guglielmo, indossate le armature di questi uomini, visto che siamo ancora in tempo, e tu verrai con noi. Tutti e tre mi porterete in braccio come se fossi morto. Prendete del sangue che costoro hanno così copiosamente versato e sporcatemi i vestiti. Da finto morto traverserò le mura di questo maniero. Se qualcuno ci fermerà, direte lui che state conducendomi dall’Anweiler per ricevere la ricompensa per il mio omicidio. Presumo vi siano disponibili i cavalli di questi miserabili?

    – Sì, certo, sono legati sul lato a ovest del castello, vicino all’entrata secondaria – spiegò il prigioniero.

    – Tutto chiaro? – domandò il giovane re ai suoi amici che stavano già indossando le armature nemiche.

    – Chiarissimo, Maestà – rispose Ruggero.

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