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Delitti al castello
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Siamo nella Maremma Toscana, durante i lavori di ristrutturazione del castello della giovane contessa Sofia Zanchi gli operai, per errore, causano il crollo di una parete, dietro la quale viene rinvenuto un cadavere. La morte risale a poco più di un mese prima. Indaga sull'omicidio uno degli investigatori più abili e geniali appena trasferito a Grosseto per comandare la nuova U.S.A.P.: l’Unità Speciale Anticrimine della Polizia di Stato. Un poliziotto eroe che ha combattuto per anni le cosche mafiose siciliane e stroncato traffici internazionali di rilevante importanza: il commissario capo Matteo Alfonsi. Nulla potrà essere dato per scontato e altre misteriose morti mineranno la logica teoria accusatoria di Alfonsi fino all'inatteso epilogo che sconvolgerà la sua intera esistenza. (II EDIZIONE 2016)
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Anteprima del libro
Delitti al castello - Carlo Santi
Tavola dei Contenuti (TOC)
Cover
PREFAZIONE
di Bruno Elpis
PROLOGO
1
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Ore diciotto, Questura di Grosseto.
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Due settimane dopo
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40
41
Qualche ora prima
42
EPILOGO
Due anni dopo
Una settimana dopo
RINGRAZIAMENTI
Francesca
Carlo
SQUADRA ANTIMAFIA - I ‘Lupi’ di Palermo
Sinossi
Un Thriller di:
CARLO SANTI
FRANCESCA PANZACCHI
al castello
Prefazione a cura di:
BRUNO ELPIS
eBook
ISBN versione digitale
978-88-6660-025-1
DELITTI AL CASTELLO
Autori: Carlo Santi e Francesca Panzacchi
II EDIZIONE
Copyright © 2012-2016 CIESSE Edizioni
info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
www.ciessedizioni.it – www.shop-ciessedizioni.it
www.blog-ciessedizioni.info
I Edizione stampata nel mese di aprile 2012
ISBN versione cartacea: 978-88-6660-024-4
Impostazione grafica e progetto copertina: © 2016 CIESSE Edizioni
Collana: Black & Yellow
Editing a cura di: Luigi Milani e Sonia Dal Cason
PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Nessun uomo sceglie il male perché è il male;
lo confonde solo con la felicità, con il bene che cerca.
Mary Wollstonecraft Shelley
PREFAZIONE
di Bruno Elpis
Ricordo esperimenti semplici, con i quali l’insegnante – ai tempi delle scuole medie - ci illustrava i concetti di soluzione
e miscela
. La soluzione è un composto ove gli elementi costitutivi si amalgamano perfettamente, la mistura è un derivato nel quale le componenti mantengono la loro individualità.
Memore di questi rudimentali precedenti di laboratorio, Vi ripropongo un esperimento traslato. Provate a immergere, in un bicchiere d’acqua, due grumi secchi di acquerello. Immaginiamo si tratti del giallo e dell’azzurro. Inizialmente, al contatto con il liquido, ciascuna crosta di colore produrrà nuance sfumate e, nella trasparenza dell’acqua, si distenderanno prima filamenti cromatici, poi chiazze multiformi e variamente screziate. Infine i colori si combineranno: inizialmente con striature, mélange e giochi d’intreccio, poi i due colori basici produrranno un nuovo colore, il verde, con tonalità sempre più uniformi in un crescendo di definizione.
Questa è l’immagine che mi ha ispirato la lettura dei Delitti al castello
, un interessante esperimento nel quale la vocazione erotico-noir di Francesca Panzacchi si è combinata con la predilezione al thriller di Carlo Santi.
I colori della mia metafora iniziale non li ho scelti a caso. Ho utilizzato le mie tinte preferite, quelle che peraltro rappresentano le gradazioni del romanzo: il giallo della tensione e dell’enigma, l’azzurro evocativo di cielo e mare, dunque di sentimento e bellezza - nel romanzo incarnata dalla contessa Sofia – e infine il verde che, per tradizione, è il colore della speranza e del buon auspicio. E che dire del contenitore nel quale avviene il miracolo della fusione cromatica? Il recipiente è un ambiente che, nell’immaginario collettivo, è simbolo di mistero, ma anche di fiaba, magia, incanto: un castello della Maremma che raffigura, nel sentire comune, il teatro ideale per intrighi, amori, sogni e verità inconfessabili. Una commistione esplosiva di elementi che rendono unica la nostra Italia: un paesaggio suggestivo, quello toscano, il fascino della storia nascosta nelle sontuose stanze di un maniero e nelle sue segrete, infine le fantasie legate al mondo fatuo e decadente della nobiltà.
Questi sono gli ingredienti della storia. Il detonatore è rappresentato dal vissuto dei personaggi: un commissario reduce da una tragedia familiare, una contessa che – sotto la scorza della superficialità mondana e dietro agli istinti di caccia – nasconde un passato di solitudine sentimentale e di abusi. Personaggi scaturiti dall’esperienza letteraria dei due autori: Carlo ha già creato un super-eroe con il Tommaso Santini de Il quinto Vangelo
e de La Bibbia oscura
, Francesca si è già affermata con l’erotismo vissuto in condizioni estreme ne La casa di Sveva
e con l’amore aristocratico e contrastato ne Il normanno
.
Naturale che da questo connubio nasca una vicenda che della tensione fa il proprio motivo conduttore, in disequilibrio dinamico tra due pulsioni che movimentano inconscio ed esistenza: eros e thanatos, morte e amore…
PROLOGO
Il borgo delle Asturie era arroccato in una posizione dominante su un colle della Maremma, in Toscana. Nel punto più alto, a circa quattrocentocinquanta metri, fu eretta, dai Conti delle Asturie, un’unica grande costruzione con compiti di difesa dei nobili signori che vi abitavano e che, dal XIII al XVI secolo, governarono la zona. Il castello dei Conti delle Asturie divenne visitabile dal pubblico, naturalmente a pagamento, attività che rendeva appena il denaro sufficiente per la normale manutenzione. Un’area del castello era stata chiusa a causa di lavori di ristrutturazione. L’attuale proprietà intendeva ampliare alcune stanze nel seminterrato, al momento inservibili, per creare un vero e proprio salone delle feste. Gli operai, intenti a demolire parte di un muro, per errore ne fecero crollare uno adiacente, tra l’altro portante, che mise a rischio la stabilità del soffitto a volta. Il crollo non fece molti danni, gli addetti si prodigarono subito per rimediare a tale disattenzione in modo da non pregiudicare la stabilità del soffitto. Demolita completamente la parete portante, al fine di ricostruirla approfittando delle nuove tecniche architettoniche, gli operai fecero una strana scoperta: dietro quel tramezzo ne era stato costruito recentemente un altro di minor spessore che creava un’intercapedine. Il divisorio aggiuntivo sembrava non avere senso per la struttura se non per il fatto di apparire subito macabro e terrificante.
Al suo interno giaceva un cadavere.
1
La storia del castello delle Asturie era avvolta dal mistero. Si diceva, infatti, che non fosse mai stato un borgo abitato da uomini, donne e bambini, come solitamente avveniva per altri siti in zone vicine. Forse per questo era rimasto un edificio isolato, con prevalente destinazione militare. Una struttura antica, ed estremamente importante per la sicurezza della popolazione dell’epoca che, in caso di attacco, trovava rifugio fra quelle mura possenti e impenetrabili. Il castello visse momenti di grande sfarzo, ma anche di grandi polemiche e timori; girava voce, fra le genti comuni, che all’interno del borgo succedessero cose strane: scomparivano persone senza apparente motivo. Seppur richiesta a gran voce dal popolo, nessuna spiegazione venne mai fornita dal Conte Ugolino Zanchi, ultimo signore delle Asturie, che morì agli inizi del XVI secolo. Da quel momento il castello rimase trascurato, i Conti Zanchi caddero in disgrazia finanziaria e nemmeno gli eredi riuscirono a vendere il prestigioso maniero a causa delle insistenti dicerie che circondarono la struttura di un alone di ambiguità. L’immobile era considerato maledetto e abitato dal Diavolo; le leggende furono alimentate nel tempo, fino al punto da far pensare che il Diavolo stesse tenendo prigioniere proprio lì le anime delle innumerevoli persone che risultavano scomparse dopo essere state viste all’interno del perimetro. La superstizione e la paura della gente fecero sì che il borgo fosse eluso e, nei secoli successivi, la struttura andò in rovina. Durante la seconda guerra mondiale e la successiva invasione dei nazisti nell’Italia del ‘43, la fortezza fu messa a disposizione della Gestapo, la polizia militare tedesca, per farne la propria sede in centro Italia. Il Conte Arquino Zanchi delle Asturie, proprietario dell’immobile e fervente seguace fascista, nonché amico intimo del Duce, non ebbe nulla da obiettare a tale riguardo, considerando soprattutto le ingenti somme di denaro investite dai nazisti per la completa ristrutturazione dell’intero edificio. Il Conte nella sua lungimiranza comprese di poter sfruttare la situazione: senza spendere una sola lira, il borgo avrebbe ripreso in pieno l’antico splendore. Era convinto, altresì, che la Gestapo avrebbe esorcizzato
la maledizione che gravava sull’immobile. Se vi è il Diavolo per davvero, pensava il Conte, solo i nazisti possono conviverci. Passò anche il periodo funesto della guerra e, per i decenni a seguire, la famiglia dei Conti delle Asturie rimase l’unica proprietaria del castello. Il possesso dell’antica dimora fu ereditato dalla contessa Sofia Andrea Zanchi Montini Delle Asturie. I titoli nobiliari erano però ormai decaduti, utilizzati da tutti coloro che avevano origini signorili e che, da sempre, chiedevano ufficialità e riconoscimento allo Stato, seppur non fosse più vigente la monarchia. Sofia era molto giovane, una venticinquenne dai lunghi capelli di un bel castano ramato. Aveva sempre vissuto in una sorta di mondo a sé stante fatto di agiatezza e di privilegi. Un mondo che amava, ma del quale era in qualche modo prigioniera. Viveva circondandosi di cose belle, di oggetti preziosi e ricercati. Quadri, argenti e cristalli e poi mobili antichi e gioielli creati appositamente per lei da abili maestri orafi. Sofia era una donna bella e colta che non aveva mai dovuto lavorare per vivere. Aveva un carattere capriccioso e instabile e il suo umore poteva cambiare repentinamente da un momento all’altro, senza alcun preavviso. Educata e impeccabile nei modi, trattava la maggior parte delle persone con distacco e fredda cortesia.
2
Il Commissario Capo Matteo Alfonsi si aggirava, con fare distratto, nei corridoi vuoti della Questura di Grosseto. Lui era uomo d’azione, non riusciva a trovare il suo nuovo ufficio e, questo, iniziava a renderlo nervoso. L’agente di piantone all’ingresso, controllate le sue generalità con sufficienza, lo aveva indirizzato al terzo piano del palazzo, ma Alfonsi non immaginava che fosse così difficile orientarsi in quel nugolo di corridoi infiniti e senza senso. Aveva compreso, però, che alle sei di mattina la Questura era deserta, infatti non incontrò anima viva e il palazzo appariva vuoto. Regnava uno strano silenzio, niente telefoni, niente rumori, niente persone in giro, niente di niente. Prese coraggio e aprì la prima porta che gli capitò a tiro, entrò e vide due donne poliziotto in borghese intente a chiacchierare del più e del meno. Che fossero poliziotte lo comprese dalle Beretta ben inserite nelle loro custodie e agganciate saldamente al fianco delle cinture.
Si presentò. «Sono il Commissario Capo Matteo Alfonsi. Potete indicarmi dov’è l’ufficio della sezione anticrimine?».
Le due donne si fissarono per un attimo, poi la bionda gli si avvicinò offrendogli la mano.
«È questo l’ufficio dell’anticrimine, dottor Alfonsi, io sono l’Ispettore Lucia Apolloni e lei», disse indicando la collega mora, «è l’Ispettore Gianna Di Giacomo. È un piacere fare la sua conoscenza, siamo onorate di poter lavorare con lei, la sua fama l’ha preceduta».
Matteo Alfonsi era appena stato promosso al grado di Commissario Capo. Dopo aver brillantemente comandato la Sezione Investigativa Antimafia di Palermo per oltre un decennio, si era convinto che fosse giunto il momento di cambiare aria, troppo pericoloso per lui restare a Palermo ancora a lungo. A causa della sua notorietà, per essere stato protagonista di indagini di alto profilo contro famiglie mafiose molto influenti, la Cupola aveva emanato una bella condanna a morte nei suoi confronti. Quindi, delle due l’una: o se ne andava da Palermo, oppure era destino che fosse considerato, come si diceva in gergo, un morto che cammina. Scelse la prima opzione non certo per paura, bensì perché non voleva far correre rischi alla sua scorta che, proprio perché la minaccia era assodata e reale, gli venne concessa numerosa. Richiesto e ottenuto il trasferimento, Alfonsi fu incaricato di prendere le redini dell’Anticrimine di Grosseto con la probabile e facilitata scalata ai massimi vertici della Questura del luogo, forse anche alla carica di Questore in un prossimo futuro. Nel frattempo, era necessario che Alfonsi conoscesse il territorio alla perfezione, prima di ipotizzare il suo probabile nuovo e importante ruolo di Questore.
«La squadra è tutta qui?», chiese subito. «Mi avevano informato della presenza di otto elementi, non li vedo».
Fu Lucia a rispondere. «Sono le sei, di solito prendiamo servizio alle otto, gli altri arriveranno a quell’ora. Noi siamo del turno di notte».
«Non esiste turno di notte con me», Alfonsi non era un diplomatico e, men che meno, paziente, «come non esistono orari. La prima cosa da tenere a mente è che, quando ci sono io, dovrete esserci anche voi, io lavoro con la squadra al completo e non a turni sfasati. Chiamate gli altri, ora!».
Le due donne scattarono sugli attenti e, seppur confuse dal trattamento a loro riservato dal nuovo venuto, si misero a cercare i cellulari, trovati i quali iniziarono a convocare i colleghi. Alcuni di loro non gradirono affatto di essere svegliati a quell’ora inconsueta, ma Alfonsi non lesinò di urlare il suo disappunto così forte che lo sentirono chiaramente anche gli interlocutori al telefono.
«Che scattino in piedi, li voglio qui al massimo fra mezzora», precisò, «chi ritarda è fuori dalla squadra».
Mentre le due donne completavano il giro di telefonate, Alfonsi si fece indicare il suo ufficio, che si trovava in una stanza separata, seppur all’interno di quel grande ambiente. Avrebbe avuto uno spazio per conto suo mentre il resto della squadra era sistemata nell’ampio ufficio principale, ognuno con la propria scrivania. Nell’ufficio di Alfonsi vi era un comodo salottino e un enorme tavolo riunioni. Diede ordine di portare via la scrivania, lui avrebbe lavorato proprio su quel tavolo.
Passata la mezzora esatta, gli otto membri della squadra anticrimine della Questura di Grosseto erano sull’attenti davanti al loro nuovo capo. Due donne e sei uomini, otto superpoliziotti. Alfonsi lo sapeva bene, erano il meglio che si poteva sperare, ma doveva imporre loro il suo sistema, la sua autorità. Per questo mise subito in chiaro il suo metodo di lavoro.
«Prima cosa: non sono abituato a chiedere, quindi, non mettetemi nelle condizioni di doverlo fare. Seconda cosa: voi dormirete quando io dormirò, starete svegli quando io sarò sveglio, mangerete quando io mangerò. In pratica, signori, voi siete la mia ombra come io sarò la vostra. Da questo momento le nostre vite si appartengono, nessuno dirà a nessuno cosa faremo, che indagini seguiremo, dove saremo. Nessuno, dico e ripeto nessuno, dovrà sapere nulla di noi, nemmeno i vostri coniugi, fidanzati, parenti e amici che siano. Nessuno, chiaro?».
Attese la risposta che arrivò timidamente con segni poco chiari o, almeno, non troppo evidenti, almeno per Alfonsi.
«Chiaro?» gridò con autorità.
Tutti annuirono, ma nessuno riuscì ad aprire bocca. Erano stati informati che quell’uomo, oltre a essere un mito nel suo campo investigativo, sarebbe forse diventato il futuro Questore. Non era certo una bella prospettiva averlo contro, l’unica perplessità degli otto era di non comprendere un simile atteggiamento ostile. Di fatto sapevano che a Palermo Alfonsi era un capo adorato, rispettato e riverito da tutti e aveva la fama di essere uno che non
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