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Hank
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E-book397 pagine5 ore

Hank

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Info su questo ebook

Hank Walker é un quarantenne americano come tanti. A Chicago vive una normale routine, dividendosi tra il lavoro sui treni della metropolitana e l'amicizia con il corpulento infermiere e vicino di casa Reggie.
I ricordi di Hank, però, si limitano agli ultimi dieci anni trascorsi nella Città del Vento, dopo una lunga degenza ospedaliera dovuta ad un tremendo incidente d'auto che lo ha privato della memoria.
Senza nemmeno rendersene conto, Hank Walker si troverà al cospetto di quel passato sconosciuto e dimenticato che racchiude segreti sconvolgenti e pericolosi.
L'amicizia, l'amore e il grande coraggio, lo aiuteranno nella disperata ricerca di se stesso e nella lotta contro chi lo vuole morto ad ogni costo.
LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2020
ISBN9788835846109
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    Anteprima del libro

    Hank - Luca De Feo

    Luca De Feo

    HANK

    UUID: ba358679-33de-44cd-baf5-fa31a91541e1

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    Ringraziamenti

    Dedicato a nonna Norma

    Per arrivare all'alba, non c'è altra via che la notte (Khalil Gibran)

    CAPITOLO 1

    Il Cloud Gate era immerso in un silenzio insolito e surreale. Solo la notte poteva dargli un po’ di tregua dalla folla di turisti che lo circondavano per ammirarlo e fotografarlo in qualsiasi modo e da qualsiasi posizione, affascinati dalle sue lucide rotondità.

    Nemmeno Hank riusciva a resistere a quel richiamo. Il Fagiolo (così era soprannominata la scultura dell'artista britannico di origini indiane Anish Kapoor) era una calamita e lui il suo metallo. Era un rifugio sicuro per i pensieri, un amico silenzioso dal quale recarsi quando, come spesso accadeva, non c’era verso di prendere sonno. Quella sera di fine agosto la temperatura era calata parecchio dopo il breve temporale che aveva colpito la città del vento. Le torri in mattoni di vetro della Crown Fountain non avevano smesso di fare il loro dovere e i getti d’acqua si erano mischiati alla pioggia intensa, formando un’enorme pozzanghera sulla grafite nera della pavimentazione. L’erba del Millennium Park era fradicia e nonostante il cielo fosse ormai sereno, le coppiette che solitamente la occupavano per ammirare le stelle avevano deciso di rinunciare.

    A Hank il prato non interessava. Era sdraiato sotto il Fagiolo, esattamente al centro, con le mani dietro la testa, i piedi sovrapposti e lo sguardo fisso sulla parte superiore. Gli occhi erano rapiti dalle curve della camera concava, che moltiplicava il riflesso del suo volto. Poteva stare lì fermo per ore, perlomeno fino a quando il duro pavimento sotto la schiena si fosse deciso a presentargli il conto. Quello era a sua detta il modo migliore per riposarsi dopo un’altra giornata piena, provando a rendere meno fastidiosa l’ennesima notte insonne. Erano già parecchi giorni che non riusciva a dormire decentemente e quando succedeva, la sua mente non lo abbandonava mai completamente, tra sogni e incubi ricorrenti. La storia si ripeteva ormai da anni e sempre verso la fine dell’estate. Notti in bianco, vissute in preda al turbamento e uno strano stato di irrequietezza erano una costante e la cosa andava avanti per settimane.

    Ciò che più odiava, quando aveva la fortuna di dormire qualche ora e magari fare un sogno particolarmente nitido, era non riuscire a ricordare nulla al suo risveglio. Questo creava in lui una fastidiosa angoscia che lo perseguitava per buona parte della giornata, una volta aperti gli occhi e riconquistata la lucidità.

    Non era l’unico crudele scherzo che la mente gli aveva riservato. Hank aveva pochi e confusi ricordi della sua vita e i più significativi risalivano a dieci anni prima quando, abbandonato il Chicago Memorial Hospital dopo un lungo ricovero, si era trovato a ricominciare una vita da zero, con accanto degli emeriti sconosciuti. Ecco perché quei sogni erano così maledettamente importanti per lui: in essi c’era, con molta probabilità, buona parte del suo passato, c’erano i fatti che precedevano il ricovero, c’erano tutte le risposte che gli servivano.

    Il primario di neurologia, in un’ora di colloquio, gli aveva spiegato come erano andate le cose. L’incidente stradale, la perdita di conoscenza, quelle fratture e profonde ferite che aveva subito e il rischio di non farcela. Hank aveva accettato a fatica quella versione dei fatti, aveva voluto farlo perché in quel momento era convinto fosse la cosa più giusta da fare. Era svuotato, smarrito, confuso e non riusciva ad essere felice di essere ancora vivo, nonostante il professor Wysocki continuasse a ripetere la stessa tiritera: Signor Walker lei è un miracolato, deve essere felice di essere qui ad ascoltare la mie parole, in questi mesi qualcuno ha vegliato su di lei. La memoria tornerà, ci vorrà tempo e pazienza ma tornerà.

    Il tempo era passato, undici anni per la precisione ma la memoria latitava ancora. Perlomeno quella rubata ai primi ventinove anni della sua vita che, se ritrovata, avrebbe dato colore al ritratto grigio che vedeva allo specchio ogni mattina prima di uscire di casa.

    Hank viveva una vita apparentemente normale. Si alzava molto presto per raggiungere il capolinea della red line, alla 95th/Dan Ryan station, dove dava il cambio al collega che aveva fatto la notte. Quella linea della L correva sui binari 24 ore al giorno e Hank faceva sempre lo stesso orario: dalle sei del mattino alle due del pomeriggio. Aveva chiesto più volte un turno diverso ai vertici della Chicago Transit Authority, ricevendo di fatto sempre picche. Avrebbe preferito fregare la notte e gli incubi facendo il suo lavoro ma non era ancora stato possibile. Sei un ottimo elemento e sulla tratta più trafficata di Chicago, quando la città si muove per riempire gli uffici e le scuole, serve qualcuno di sveglio. Questa era la risposta che continuava a ricevere.

    Alla fine aveva deciso di risolvere il problema trovando un lavoro serale presso il Connie, uno storico pub a Damen, nello stesso quartiere in cui viveva e a due passi da casa. Quel secondo impiego l’aveva ottenuto grazie a Christopher, suo amico nonché proprietario del locale.

    Il Connie era un posto pazzesco, la sera si riempiva in occasione delle partite di baseball, basket, football e hockey ed era molto amato dai clienti affezionati, che non rinunciavano mai alla loro pinta di birra e a qualche schiamazzo in compagnia.

    La vita di Hank era apparentemente tranquilla e attrezzata per ovviare a tutti i suoi difetti. Ma era anche un puzzle senza buona parte dei pezzi e doveva essere vissuta alla giornata. Vivere il presente, senza alcuna voglia di pianificare il futuro perché ostaggi del passato. L’unica speranza era racchiusa nel desiderio di ricordare quel tempo, che comunque non sarebbe più tornato.

    CAPITOLO 2

    La sopraelevata era una delle cose che Hank amava di più a Chicago. Forse per deformazione professionale. O forse perché quella lunga banchina sospesa tra i palazzi, sulla quale correvano i lucidi vagoni d’acciaio della metropolitana, lo faceva sentire come un turista che stava visitando per la prima volta la città, fiero di poterne sbirciare le strade dall’alto verso il basso.

    Il Loop era ancora immerso nel silenzio della notte. Le auto in giro erano poche e il sibilo del vento era accompagnato dal ticchettio intermittente dei semafori lampeggianti.

    Seduto sul pavimento, vicino alla grossa trave di ferro che sosteneva la tettoia, c’era un uomo. Sulla quarantina, trasandato, con le gambe incrociate, le mani appoggiate sulle ginocchia e lo sguardo perso nel vuoto, dava l’impressione di essere assorto in una pratica meditativa. I capelli arruffati e sporchi, la barba incolta e gli abiti in pessime condizioni, facevano pensare potesse essere uno dei tanti senzatetto che popolavano i vicoli della metropoli.

    Hank sorrise, pervaso da un po’ di malinconia, ricordando Malcolm, che passava le giornate dove lui iniziava e finiva i turni di lavoro. Malcolm era un senzatetto afroamericano di ottantasei anni e non era riuscito a sopravvivere all’ultimo lungo inverno glaciale. Hank lo aveva aiutato come poteva e spesso si fermava a chiacchierare con lui prima di tornare a casa. La vita di quell’uomo era stata tutt’altro che noiosa e i suoi racconti erano talmente genuini e affascinanti da non poter essere messi in discussione in alcun modo.

    Il treno in arrivo e lo sferragliare dei binari bloccarono i ricordi nella mente di Hank, che ancora conservava quel sorriso. Si voltò di scatto per dare un ultimo sguardo e notò che lo strano uomo non c’era più. Forse il leggero rimbambimento da sonno glielo aveva fatto sognare ad occhi aperti. Poco importava. Ciò che contava in quel momento erano le poche fermate che lo separavano da casa e la manciata di ore da poter sfruttare per dormire un po’, prima di affrontare una nuova lunga giornata. L’ultima prima del fine settimana.

    Al Connie, quella stessa sera, aveva conosciuto due pompieri che prestavano servizio presso la caserma del quartiere ed avevano finito il turno da poco. I due erano fanatici della pesca e gli avevano proposto di passare un’intera giornata sul lago Michigan, a caccia di trote. Hank amava pescare, gli riusciva molto bene e come avveniva per tante cose del suo passato, non ricordava da dove arrivasse quel talento, che però aveva nel sangue. Questo era sicuro. Ciononostante aveva rifiutato subito l’invito, tenendo però in considerazione la proposta per il futuro. Quella domenica l’avrebbe passata al poligono di tiro, come del resto quasi tutti i suoi pomeriggi. La pistola era una terapia, un calmante, qualcosa che lo rilassava più di una giornata alle terme o sotto il sole di Key West. A dire il vero era convinto fosse diventata dipendenza. Tutta colpa dell’adrenalina, una droga mai iniettata che già girava da parecchio nel suo cuore. Non sapeva perché fosse così attratto dalle armi, né il motivo del suo talento nel bucherellare in modo così preciso il centro di quei bersagli. Ma così era e lo accettava come tante altre cose, senza tutte quelle domande che puntualmente non trovavano risposta. In fondo quelle ore rendevano più sensata la sua vita e davano senz’altro più soddisfazione dei sogni vuoti che lasciavano solo rabbia.

    La carrozza cominciava a riempirsi sempre più ad ogni fermata. Si vedevano le facce assonnate di chi aveva finito il turno di notte da poco. Qualche vagabondo. Un paio di adolescenti con la testa penzolante che seguiva il ritmo della musica sparata in cuffia a livelli tali da perforare i timpani.

    Mancava solo una fermata per arrivare a destinazione. Poi il solito mezzo miglio a passo sostenuto, sbirciando le vetrine ancora buie e pensando a quale disco scegliere come sottofondo a quelle poche ore a disposizione. Tenendo sempre un volume accettabile per non svegliare bruscamente Reggie, evitando così di sentirlo tirare pugni sul muro della camera da letto. Quando il tuo vicino di casa è anche il tuo migliore amico fai molta più attenzione. Questa era una delle cose che Hank non dimenticava mai.

    CAPITOLO 3

    HANK! HANK! APRI LA PORTA, SONO REGGIE!

    Si sentì bussare in modo sempre più insistente e fastidioso.

    HANK, APRI LA CAZZO DI PORTA AMICO!

    La musica ad alto volume echeggiava nell’appartamento e la voce di Kurt Cobain accompagnava graffiante le note di Come as you are dei Nirvana. Hank era sdraiato sul divano a faccia in giù, con la mano destra infilata nella fessura che divideva il cuscino dello schienale da quello della seduta. La mano sinistra, vicina al petto, stringeva una bottiglia di Budweiser vuota.

    PER L’ULTIMA VOLTA, APRI LA PORTA! OPPURE SARO’ COSTRETTO A FARE A MODO MIO E L’ULTIMA VOLTA LA COSA TI E’ COSTATA PARECCHIO! CONTERO’ FINO A DIECI! DIECI…NOVE…!

    Il frastuono dei pugni, accompagnato dal conto alla rovescia, fece svegliare lentamente Hank. Aprì prima un occhio e poi l’altro, mentre tornava alla realtà accompagnato dalle ultime note della canzone che stava andando in dissolvenza. I raggi che filtravano dalla persiana chiusa malamente gli illuminavano il viso e la luce stringeva le pupille, rendendo gli occhi doloranti. La mano sinistra mollò la presa sul collo della bottiglia, facendola cadere e rotolare al centro della stanza.

    Il posacenere ai piedi del divano era stracolmo di cicche e da una, non del tutto spenta, usciva una sottile striscia di fumo.

    Realizzò che il countdown era quasi finito e con uno scatto goffo si precipitò verso la porta d’ingresso. Rifilò un calcio al posacenere e si trascinò dietro il cuscino del divano, sotto il quale era ancora incastrata la mano destra. Il pavimento diventò un misto di cicche e cenere puzzolente.

    ARRIVO, ARRIVO! NON SFONDARE LA PORTA! urlò come farebbe chi non ha ancora completamente ripreso conoscenza. In men che non si dica tolse il paletto e girò due volte la chiave, prima di spalancare la porta.

    Davanti a lui c’era il vicino di casa, Reggie, con le braccia conserte e uno sguardo tutt’altro che rassicurante. L’uomo fece un passo avanti e ringhiò:

    E’ successo ancora, è la terza volta negli ultimi quindici giorni! Rincasi a notte fonda, hai a malapena due ore per dormire e invece che fare come tutti gli essere umani dotati di un cervello sano, ti scoli una birra, perdi la cognizione del tempo e fai come se fossi da solo in questa cavolo di palazzina! Ti avevo pregato di smetterla con la musica, o perlomeno di stare attento al volume! Le persone la notte solitamente amano dormire, per evitare di farlo mentre lavorano! Ma come devo fare con te amico!

    Hank sbadigliò e passando una mano tra i capelli arruffati, con gli occhi ancora socchiusi, rispose: Hai ragione, non posso dire altro. E’ che…lo sai…da parecchio tempo non riesco a dormire come voi fortunate persone normali! Ogni fottuto anno è la stessa storia! L’alcol mi aiuta, la musica pure…te l’ho detto. Starò più attento, te lo prometto, vedrò di darmi una regolata, che ti devo dire…

    Reggie mise una mano sulla spalla dell’assonnato vicino, chiuse la porta blindata e iniziò a camminare per la stanza guardandosi intorno.

    Hank, questo appartamento è un casino, fai un po’ di ordine, ti assicuro che sistemando ti verrà sonno!

    Fissando il malandato orologio appoggiato sul vecchio mobile di legno, continuò: "Guarda che ore sono, le cinque! Tra mezz’ora devi essere sulla novantaquattresima! Oltretutto sei fortunato che ho il primo turno in ospedale, altrimenti col cazzo che ti svegliavo con le buone! Ti va anche bene che ci sono solo io su questo pianerottolo, che il vecchio Cotton al piano di sotto è mezzo sordo e che gli altri appartamenti sono sfitti!

    Un altro avrebbe già chiamato gli sbirri, anzi l’esercito!" Scoppiò a ridere, coinvolgendo anche l’amico. La sua risata ricordava quella inconfondibile di Eddie Murphy e ogni volta che Hank la sentiva, gli sembrava di rivivere uno di quei film degli anni Ottanta che aveva visto di recente come fosse la prima volta.

    Hai ragione ancora una volta amico! ribatté Hank con il sorriso sulle labbra. Ora mi lavo, mi vesto e vado a lavorare. Buona giornata e grazie ancora, prometto che farò il bravo!

    Guarda che ci conto! Ci vediamo oggi pomeriggio, andiamo al poligono?

    Va bene ma se sarò troppo stanco per venire ti manderò un messaggio, tieni gli occhi sul telefono!

    Reggie scosse la testa e guadagnando l’uscita precisò:

    Io lo guardo eccome il telefono, sei tu quello che non lo fa mai! Prima di demolirti la porta di solito ti faccio uno squillo e anche stavolta è stato inutile! Dai, ci vediamo più tardi!

    Si tirò dietro la porta blindata, che si chiuse con un fastidioso cigolio.

    Reginald Ervin Wallace, per tutti Reggie, era un robusto omone di colore sui quarantacinque anni, con un matrimonio naufragato alle spalle, una bellissima figlia di nove anni di nome Shayla e un lavoro come infermiere presso il Chicago Memorial Hospital, lo stesso ospedale dove il suo goffo vicino di casa, nonché migliore amico, aveva ripreso in mano la vita dopo non poca sofferenza. I due si conobbero per caso. Hank, dopo aver passato il peggio, si era trovato a condividere la stanza con un uomo anziano e un po’ scorbutico proveniente dall’Indiana, un certo Oliver Rendall, che era stato assegnato alle cure del robusto infermiere. Reggie faceva la spola tra un letto e l’altro e se da una parte doveva sopportare gli insulti del vecchio Rendall, dall’altra poteva contare sulla complicità di Hank.

    La moglie Lisa non gli aveva perdonato la scappatella di tre anni prima, che lui non era riuscito a nascondere, essendosene pentito ancora prima di cadere in tentazione. I due ex coniugi si erano conosciuti nella primavera del 2005, sempre in quell’ospedale. Lisa fu ricoverata d’urgenza in seguito a gravi percosse da parte dell’allora fidanzato, un portoricano di ventinove anni con più muscoli che cervello. Reggie fece molto per lei e oltre alla normale assistenza le diede l’aiuto necessario a risollevarsi, soprattutto moralmente, una volta terminata la degenza.

    La ragazza, allora ventiquattrenne, decise di denunciare il colpevole di quell’ennesimo episodio di violenza. Con l’appoggio e l’aiuto dell’infermiere speciale, divenuto in breve tempo un amico, si fece coraggio e intraprese la sua battaglia. Carlos, il violento portoricano, fu arrestato per reiterata violenza e condannato a scontare cinque anni nel carcere di Cook County.

    Lisa ci mise parecchio tempo a cancellare quel brutto episodio e a ridare fiducia a un uomo ma con Reggie al suo fianco, la cosa fu indubbiamente più semplice. L’amore tra i due nacque spontaneamente. Lui sentiva già da tempo qualcosa dentro ma non aveva avuto il coraggio di dichiararsi, per rispetto di lei.

    Convolarono a nozze due anni dopo e sotto il vestito bianco si intravedevano già le rotondità di una gravidanza in avanzamento.

    Shayla nacque il 17 ottobre 2007 e Hank, ormai già da parecchio tempo lontano dal letto di ospedale, le fece da padrino. I successivi cinque anni passarono in totale serenità per la famiglia Wallace, fino a quando lo spettro del tradimento non stravolse gli equilibri. La bella Denise Gilmore, primo storico amore di Reggie, tornò nella sua vita per pura casualità: un piccolo intervento in ospedale per l’asportazione di un tumore benigno. Nessuno dei due aveva forzato il destino, era successo e basta. Per una fatalità, una scintilla fatta scoccare da un passato armato di splendidi ricordi. " Ricordare ciò che è stato può essere pericoloso!" Questa era la frase che Hank si sentiva ripetere spesso dall’amico, tormentato quotidianamente da quel maledetto episodio.

    Ora l’infermiere di Chicago passava le sue giornate tra l’amato lavoro in ospedale, l’amicizia con il suo rumoroso vicino di casa e i tre pomeriggi a settimana con la piccola Shayla, fissati dal giudice su richiesta dall’avvocato di Lisa.

    Hank era molto legato a Reggie, che spesso chiamava fratello nero in modo affettuoso e divertito. Si sfogava con lui e grazie a lui era riuscito a rimanere a galla nei dieci anni seguenti l’abbandono del letto d’ospedale. La pazienza del bravo infermiere era infinita, come la sua forza d’animo, che non gli faceva mai perdere il buonumore nonostante ci fosse più di un motivo plausibile per giustificare la rabbia e la tristezza. Sua figlia viveva a West Englewood, nel South Side, in un quartiere poco raccomandabile e questo non gli faceva dormire sonni tranquilli. Lisa aveva deciso di rimanere a Chicago dopo la separazione, rifiutando la proposta della madre di raggiungerla a Cleveland. Nonostante la rabbia che covava fosse ancora tanta, non se l’era sentita di strappare Shayla a suo padre. Ma il lavoro part-time da Pizza Hut non le dava certo il guadagno necessario per vivere in una suite all’Hilton, quindi aveva dovuto ripiegare su una soluzione economica.

    Reggie aveva provato a trovare un compromesso ma non ci era ancora riuscito e questo non faceva altro che logorarlo. L’unico modo per non pensare ai problemi era dedicare anima e corpo al lavoro e quando il cartellino era timbrato, sfogarsi portando la sua Kimber calibro .9 al poligono di tiro.

    Al contrario di Hank, lui riusciva a dormire quando non c’era il frastuono a svegliarlo e i suoi incubi ricorrenti li ricordava sempre alla perfezione.

    CAPITOLO 4

    Il modo migliore per guarire dai postumi di una sbronza è fare una doccia gelata. Hank lo sapeva bene, dato che molto spesso i suoi risvegli estivi seguivano questo tipo di rituale.

    Quella mattina era rimasto a fissare lo specchio, come a voler tirare le somme e fare un’analisi delle ultime ore, nonostante il tempo a disposizione fosse molto poco. La birra che si era scolato non era certo tosta quanto la bottiglia di vodka alla quale aveva dato fondo la sera prima, quindi la testa aveva già recuperato la totale lucidità, schiarendo i ricordi.

    Le poche ore passate al Millennium Park erano state particolarmente rilassanti quella notte, complici l’aria profumata e fresca dopo il temporale e il totale silenzio.

    Ora in quegli attimi da solo in casa stava ripensando a tutto, come era successo già tante volte. Gli occhi osservavano nello specchio il viso ancora umido mentre il pollice della mano sinistra scorreva sulla cicatrice che ricopriva la parte superiore del petto, nel tentativo di evocare qualcosa che sapeva già bene non potesse essere ricordato. Quello non era l’unico segno permanente sul suo corpo, che era pieno di profonde ferite rimarginate, alcune poco visibili, altre talmente pronunciate da dover essere nascoste. Non era stato possibile farlo con tutte però. Una sottile cicatrice attraversava il collo, partendo dalla spalla destra e arrivando fino all’orecchio, un’altra tagliava da parte a parte il sopracciglio sinistro, cosa che a Hank non dispiaceva affatto, dato che riteneva rendesse più aggressivo il suo viso. Altre, più piccole ma comunque evidenti, avevano parzialmente compromesso il grande tatuaggio che ricopriva la spalla sinistra e parte della scapola, rendendolo indecifrabile nel contenuto.

    Accarezzare quelle irregolarità della pelle trasmetteva al suo tatto una sensazione molto piacevole e gli capitava di farlo molto spesso in momenti come quello.

    Hank aveva compiuto da poco quarant’anni ma sentiva in sé l’entusiasmo e la grinta dei ventenni. Nato sotto il segno dei Gemelli, per una beffa del destino era venuto alla luce la mezzanotte del 22 maggio 1976, ingannando così lo zodiaco che lo avrebbe voluto sotto il segno del Toro.

    Non era propriamente un gigante e a chi scherzosamente glielo faceva notare, rispondeva sempre allo stesso modo: Non è importante essere alti ma essere all’altezza! Il suo fisico conservava ancora parecchi muscoli, nonostante avesse abbandonato da qualche tempo la palestra per lasciare spazio al fanatismo da poligono di tiro. I capelli corti e ricci color corvino da qualche tempo avevano ceduto a un color sale e pepe e il viso aveva qualche ruga ma in generale non tradiva l’aspetto molto giovanile. Niente barba o baffi; aveva provato a farsi crescere due baffoni neri ma in troppi lo avevano paragonato a un mafioso d’altri tempi e la cosa era bastata a convincerlo a rinunciare. Era un uomo affascinante e non era un mistero che la sua bellezza ruvida e tenebrosa facesse impazzire le donne, che al primo sguardo venivano stregate dall’eterocromia dei suoi occhi. Durante l’incidente rischiò di perdere la vista e solo la pazienza e le cure meticolose dei medici riuscirono a salvarla. Gli furono somministrate gocce medicinali per mesi e una volta tolte le bende dovette accettare il fatto che il colore dell’iride dell’occhio sinistro fosse passato da marrone scuro a un vistoso blu cobalto. Quegli occhi così diversi ma intensi rendevano il suo sguardo unico e magnetico.

    Negli ultimi mesi aveva avuto donne bellissime, almeno a quanto diceva Reggie, che spesso gliele aveva invidiate senza nasconderlo. Ma Hank non era portato per l’amore o perlomeno non aveva voglia di impegnarsi in qualcosa che non fosse il lavoro o la risoluzione dei suoi problemi. Ormai non si contavano le partner di una notte, che ogni volta rimaneva ad osservare mentre dormivano dopo un amplesso. Non era chiaro cosa gli passasse per la testa in quei momenti ma sapeva bene di vivere di sensi di colpa, a causa della poca voglia di fare le cose sul serio. Una di quelle donne gli era sembrata speciale rispetto alle altre. L’aveva portata fuori a cena ben due volte e poi al Millennium Park, per mostrarle il cielo d’inverno pieno di stelle. Lei aveva palesato il desiderio di renderlo felice ed aveva i requisiti per farlo in modo serio ma alla fine l’epilogo era stato sempre lo stesso, come la risposta propinata alla povera malcapitata: Non mi sento pronto e non voglio prendermi gioco di te perché sei una persona per bene…

    Quella donna alla fine era sparita come tutte le altre e a Hank, a distanza di giorni, era rimasto solo un po’ di amaro in bocca e la voglia di passare alla prossima.

    Le lancette del cronografo Sector appoggiato sul coperchio del water facevano le cinque e venticinque.

    Infilò i jeans, la t-shirt blu dei Chicago Cubs e le All Star nere, stringendo i lunghi lacci con un doppio giro intorno alle caviglie. Si guardò intorno e ripeté fra sé e sé che l’indomani non ci sarebbe più stato quel disordine nel piccolo appartamento al secondo piano della palazzina di Damen. Aprì la porta e si diede uno schiaffo sulla fronte, come farebbe chi è molto sbadato e dimentica le solite cose. Prese la valigetta dal ripostiglio e la mise vicino alla porta d’ingresso, per guadagnare tempo una volta rientrato a casa per recuperarla. Lì dentro c’era la sua amata semiautomatica: una P-38 Mauser, lucidata meticolosamente come fosse preziosa argenteria.

    Armato di un mezzo sorriso chiuse la porta dando quattro mandate secche e abbassando più volte la maniglia per controllare, in modo un po’ paranoico, di aver fatto le cose per bene.

    Una cosa alla fine l’aveva dimenticata: il lettore cd, ancora acceso, iniziò a leggere la ghost track del disco che girava nel piatto. La voce di Cobain echeggiava solitaria e riprendeva parte del testo della canzone che aveva accompagnato Hank prima del risveglio: Come as you are, as you were, as I want you to be…As a friend, as a friend, as an old enemy…

    CAPITOLO 5

    La Camaro procedeva spedita lungo la novantaquattresima, che iniziava ad animarsi alle prime luci dell’alba. Hank aveva deciso di prendere l’auto, dato che era in palese ritardo e il cielo scuro e rumoroso minacciava pioggia.

    Adorava guidare la sua Chevrolet Camaro SS del ’69, alla quale teneva come fosse una figlia. La carrozzeria nero lucido brillava trafitta dalla fioca luce del sole e il rombo dei cavalli accompagnava la voce del notiziario radio. Ancora morti a Englewood, nessuna novità purtroppo. Spazientito da quella notizia spinse la musicassetta nel lettore e fece partire Down on the Upside dei Soundgarden.

    Reggie lo prendeva sempre in giro per quella vecchia autoradio Clarion con mangianastri ma a lui non interessava. Adorava quei nastri e il fruscio che gli altoparlanti emettevano all’inizio e alla fine di ogni canzone. Era affascinato dagli oggetti di quel passato silenzioso, nonostante il presente offrisse ben altro.

    Una timida pioggia, spinta dal vento, iniziò a bagnare il parabrezza. I tergicristalli, con il loro movimento, la spostavano tramite il fastidioso e intermittente rumore provocato dallo sfregamento della gomma sul vetro.

    Mise la freccia a destra e uscì dalla superstrada. Parcheggiò, come era solito fare, all’incrocio con State Street, vicino al piccolo parco giochi ancora deserto a quell’ora. Chiuse lo sportello e tirò un paio di volte la maniglia per fare il solito controllo. Si mise il cappuccio in testa, tirò su la zip della felpa e si accese una Marlboro, sfregando l’estremità del fiammifero sulla parte ruvida della scatola. Non sapeva se da adolescente avesse il vizio del fumo ma si ricordava bene di aver iniziato dopo l’incidente. Non si poteva dire che fosse dipendente da quelle sigarette, amava definirsi un fumatore saltuario. Il suo vizio, se così si poteva chiamare, era circoscritto al periodo nero che si trovava ad attraversare ogni anno a fine estate, in compagnia di alcol, musica spacca timpani e insonnia molesta. Era un fumatore da dieci o dodici sigarette al giorno e forse sarebbero state almeno il doppio, se il suo lavoro e i suoi impegni non lo avessero limitato.

    Percorse rapidamente il quarto di miglio che portava alla stazione, fece le ultime boccate di fumo e guardando le lancette dell’orologio si rese conto stupito di essere in anticipo di qualche minuto.

    La banchina era già affollata e non era certo una novità. Il capolinea della red line era noto per essere il più battuto dai pendolari e dagli abitanti del South Side e dei sobborghi adiacenti. Inoltre su quella tratta confluivano diciotto linee di superficie e ciò portava il tutto ai massimi livelli di caos.

    Hank sapeva che quando si trovava a gestire il treno al capolinea doveva armarsi di pazienza e avere gli occhi anche dietro la testa, per evitare di chiudere qualcuno tra le porte e trascinarlo lungo i binari. Gli era capitato di assistere a scene di ogni tipo e il più delle volte tutt’altro che divertenti. Per lui era consuetudine mettersi con mezzo busto fuori dal finestrino ad ammonire qualche imbecille, come si farebbe durante una rissa verbale tra automobilisti in un ingorgo stradale.

    Nonostante tutto gli piaceva quel lavoro, che spesso lo faceva sentire in un’altra dimensione, quando entrava nei tunnel semibui o percorreva l’amata sopraelevata. Le gallerie gli sembravano una metafora della vita, della sua in particolare. Vedeva in quel lungo tunnel un percorso da affrontare in prima persona, che al termine sfociava in una realtà più ampia. Una realtà che conosceva bene, dove incontrava decine di volti che lo osservavano al suo arrivo, come lo aspettassero da sempre. Si sentiva ridicolo quando si perdeva in stupide riflessioni ma stare da solo in quella cabina faceva anche questo effetto. Potevi essere importante per gli altri e nonostante fossi in mezzo a tanta gente riuscivi a sentirti la persona più sola al mondo.

    Improvvisamente sentì una mano sulla spalla destra e un uomo che lo chiamava: Ehi Hank! Sveglia! Ti sei incantato? Il mio turno è finito, ora facciamo la solita pausa di cinque minuti poi potrai ripartire. Buon lavoro e buona giornata!

    Hank si destò dai suoi pensieri e in modo imbarazzato iniziò a balbettare: Oh…Tom! Scusa…sono un po’ assonnato e mi ero imbambolato. Buona giornata anche a te!

    Tom Borrelli era prossimo alla pensione dopo quarantun anni di lavoro, trenta dei quali passati portando in giro per Chicago i treni della metropolitana. I primi undici non si sapeva dove li avesse trascorsi, si diceva in Italia, suo paese di origine ma lui evitava sempre di

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