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I morti che parlano
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E-book478 pagine7 ore

I morti che parlano

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Info su questo ebook

Il suicidio del commissario Maurizio De Santis, avvenuto quarant’anni prima, nasconde qualcosa di sospetto, una verità scomoda che conosce solo la scrittrice Sofie Floren e che ha custodito gelosamente, fra le pagine del suo thriller, in rispetto di quell’amicizia. Quando una donna viene trovata senza vita nell’ossario dei frati cappuccini nella chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma, a pochi giorni dall’inizio del giubileo, Sofie Floren è costretta a rintracciare l’ispettore Oscar De Santis, il figlio del vecchio commissario, e a svelargli il mistero che si cela dietro il killer dell’Eden e al suo disegno diabolico. Tre vittime sono morte in nome della religione e, dopo l’ultimo delitto, è scomparso nel nulla facendo perdere le sue tracce. Il suo ritorno mette in pericolo i segreti nascosti dentro le mura del Vaticano che, se rivelati, potrebbero scatenare una guerra santa e costringere la Chiesa a riscrivere la storia del cristianesimo. Oscar De Santis, impegnato a salvare la sua relazione con la giornalista Patrizia Rocchi, non crede alle parole della scrittrice, fino a quando un secondo omicidio non viene scoperto nella chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, e porta la firma dello stesso assassino che suo padre ha cercato di fermare. Con l’aiuto dell’amica d’infanzia e patologa Penelope D’Alessio, si metterà dunque all’inseguimento del killer, scoprendo che ha commesso gli stessi omicidi che la scrittrice ha descritto nel suo libro e che lo sta rileggendo al contrario, riuscendo così a restare sempre un passo avanti alle indagini. Quel messaggio in latino trovato nella bocca delle vittime lo porterà a incontrare nuovamente Sofie e a farsi raccontare ciò che lei conosce, i segreti che il padre ha cercato di celare con la sua morte. Turbato da questi dubbi, Oscar decide di scavare nella vita passata del genitore affidandosi gli indizi lasciati dall’assassino che è alla ricerca di altre vittime, di cui quella che non è riuscito a uccidere quarant’anni prima, una donna che porta in grembo il figlio nato dal peccato originale.
LinguaItaliano
Data di uscita18 feb 2020
ISBN9788835374466
I morti che parlano

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    I morti che parlano - LadyKiller

    LADYKILLER

    I MORTI CHE PARLANO

    IL PRIMO CASO DELL’ISPETTORE OSCAR DE SANTIS

    Ladykiller

    I morti che parlano

    Il primo caso dell’ispettore Oscar De Santis

    Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    Tel 02.90970439

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Immagine copertina reperita da pixabay.com

    DISPONIBILE ANCHE IN FORMATO CARTACEO

    Questo libro è opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzione dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse è assolutamente casuale.

    "La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!

    Ora sii maledetto,

    lungi da quel suolo che per opera della tua mano

    ha bevuto il sangue di tuo fratello.

    Quando lavorerai il suolo,

    esso non ti darà più i suoi frutti,

    ramingo e fuggiasco sarai sulla terra."

    Genesi 4:10

    Roma 24 dicembre 1974

       Un nevischio ghiacciato cadeva senza sosta da due giorni, mentre grigie nubi compatte soffocavano la città, rendendo l’aria irrespirabile. L’alba cedeva il posto al tramonto troppo presto, quando ancora le strade erano intasate dalle automobili. Procedevano lente, imbottigliate nel traffico di punta, contrastando gli ingorghi agli incroci lungo le vie principali della Capitale, prossima ad accogliere un inverno freddo e lungo. Solo di notte la città pareva trasformarsi e cadere nel silenzio, lasciando spazio ai pedoni infreddoliti che, stretti nei cappotti pesanti, camminavano con il capo chino, le dita avvinghiate al manico di ombrelli colorati. Avanzavano a passi frettolosi, lungo i marciapiedi deserti, sfiorandosi appena, desiderosi di fare ritorno alle proprie abitazioni calde e confortevoli, dove i loro cari li stavano aspettando.

       L’uomo si strinse addosso il soprabito troppo leggero per quel periodo dell’anno, incrociando le braccia al petto e nascondendo le mani infreddolite sotto le ascelle. L’aveva acquistato due settimane prima. Era in svendita in un negozio in via Palermo e, non appena l’aveva scorto, non aveva resistito. Era entrato e l’aveva provato, nonostante fosse consapevole che non l’avrebbe riparato dal gelo invernale, ma era stato catturato dal suo colore particolare che gli aveva ricordato la spiaggia calda di un’isola deserta. La cintura con la fibbia di metallo dondolava a ogni passo, sfiorandogli la coscia.

    Per sviare il vento freddo di quelle giornate, potrei indossare un maglione più pesante, aggiungendo anche una sciarpa e un cappello, aveva pensato mentre sfilava davanti allo specchio del negozio, sotto gli occhi compiaciuti della commessa. Non gli piacevano i cappotti di panno, troppo rigidi e ingombranti, quando si sedava in auto dietro al volante.

       Avanzò lentamente lungo il nastro d’asfalto, camminando vicino al marciapiede, senza voltarsi indietro, guardandosi le punte delle scarpe, cercando di evitare le pozzanghere. Non aveva fretta, nessuno lo stava aspettando a casa, in quel piccolo appartamento in via Cimarra, vicino a piazza degli Zingari e che, da qualche giorno, aveva deciso di vendere, per andare alla ricerca di qualcosa di più spazioso e luminoso. C’era stato un attimo in cui aveva creduto di potercela fare. Lasciarsi tutto alle spalle, far finta che non fosse accaduto nulla e cominciare una nuova vita.

       Scosse il capo. Ormai era troppo tardi. Tardi per tornare indietro, anche solo per decidere di andarsene da Roma, e da quel monolocale che lo ospitava da anni. Quell’incubo reale lo avrebbe seguito ovunque. Da giorni era dentro di lui, nella sua testa e nei suoi pensieri. Tacere era stato un obbligo al quale aveva dovuto piegare il suo volere, ma la sua coscienza avrebbe continuato a gridare per entrambi. In quel preciso istante, lui poteva essere a caccia della sua prossima vittima, e non c’era nulla che avrebbe potuto fare per impedirglielo. Tutto ciò in cui aveva sempre creduto per anni e che aveva appreso nell’arco della sua vita era crollato, soffocato da una verità che era stato costretto ad accettare fino a rendersi conto che nulla era mai stato come aveva sempre creduto che fosse. Gli avevano sempre raccontato solo menzogne, magistralmente contraffatte con mezze verità. Erano bastati pochi giorni e tutto, alla fine, aveva avuto un senso, e ora non sapeva più a cosa e a chi credere. Era solo.

       L’uomo si fermò a riprendere fiato. Il suo giudizio demordeva, lo rodeva dentro come un tarlo. Era colpevole del reato peggiore che un uomo, nella sua posizione, avrebbe potuto commettere, ma la sua volontà e il suo lavoro erano stati sopraffatti da chi, per lui, aveva deciso, obbligandolo al silenzio. Non avrebbe potuto vivere un giorno di più conoscendo ora la cruda verità. Quel segreto doveva scomparire per sempre, insieme a lui, perché non potesse nuocere ad altri in futuro.

       Riprese a camminare. Il vento freddo gli sferzava sul viso, lasciandolo senza respiro, costringendolo a piegare il capo in avanti, affossando il collo nel bavero del soprabito.

       Era uscito dal commissariato in via di San Vitale senza salutare i colleghi, scivolando fuori dal portone e camminando, a piccoli passi, fra le autovetture parcheggiate sulla strada. Si era soffermato davanti alle vetrine dei negozi, ma non aveva prestato attenzione a ciò che mettevano in mostra. Ai portoni delle case erano state appese alcune ghirlande e l’intera città era illuminata a festa, per ricordare che il giorno dopo sarebbe stato Natale.  

       Anche lui avrebbe voluto essere con la sua famiglia, ad aspettare il sopraggiungere dell’Avvento. Avrebbe scartato i regali, sbirciato all’interno delle scatole colorate e rivestite di carta natalizia e, allo scoccare della mezzanotte, avrebbe sorseggiato un buon bicchiere di vino rosso invecchiato di decenni, scambiandosi gli auguri con gli amici invitati a cena. Tutto avrebbe dovuto essere diverso.

       All’angolo con via del Quirinale, si era arrestato davanti all’edicola chiusa. Lì, ogni mattina, per gli ultimi cinque anni, aveva acquistato il giornale e, infilandoselo sotto il braccio, aveva raggiunto il suo ufficio. Rimase a fissare la saracinesca chiusa. Il giorno dopo non avrebbe più potuto farlo. Sarebbe stato altrove. Ciò che quella notte doveva fare non poteva aspettare oltre.

       Ci aveva riflettuto tutta la giornata, seduto alla sua scrivania, in quella stanza angusta, ma luminosa, in fondo al corridoio, dove i rumori non arrivavano a disturbarlo. Aveva riletto ogni verbale, fissato le fotografie in bianco e nero recuperate da un cassetto con il doppio fondo, dove era solito nascondere ciò che non doveva essere trovato, e tutto gli era apparso così illogico e irrazionale. Avrebbe dovuto distruggere quei fogli giorni prima, cancellare dalla sua mente ogni fotogramma e trovare il modo per andare avanti, lasciando che qualcun altro se ne occupasse al posto suo. Così gli era stato ordinato, ma lui non era riuscito neppure a smettere di pensare a ciò che era successo. Come potevano chiedergli di far finta di nulla? Qualcuno doveva sapere, perché alla fine una speranza doveva esserci. Lo avevano obbligato a fare la sua scelta e ora, in cuor suo, sperava che fosse quella giusta. Nessun segreto restava mai sepolto sottoterra per l’eternità. Quando finalmente aveva deciso dove nascondere quel fascicolo, fuori dalla finestra del suo ufficio era già scesa la sera. Si era fermato a guardare oltre i vetri, con le braccia dietro la schiena, le dita delle mani saldamente incrociate fra loro e, solo in quell’istante, aveva preso la sua ultima decisione.

       Da quella posizione, aveva scorto la piazza acciottolata, fermandosi poi a rimirare i tetti delle case di una città muta. Ogni giorno, da qualche tempo, cercava con lo sguardo gli edifici più antichi di Roma. Li elencava, a uno a uno, nella sua mente, come se avesse timore che, durante la notte, qualcuno potesse trafugarli, facendoli scomparire nel nulla. Aveva allungato lo sguardo oltre piazza Navona, al di là del Tevere e, alla fine, era riuscito a vederla. La Città nella Città, la dimora del Re sopra ogni Re. O forse era stata solo un’illusione. Probabilmente, da quella finestra, la Città del Vaticano, piazza San Pietro e la basilica, con i musei e la cappella Sistina, non si riuscivano a scorgere. Forse ciò che aveva visto e ammirato, per interminabili minuti, era stato solo il profilo di ciò che sapeva essere lì da secoli.

       L’uomo si fermò a pochi passi dal ponte. Liberò le mani e sbirciò furtivamente l’orologio. Il Natale, quell’anno, avrebbe portato un altro evento importante. Di lì a poche ore avrebbe avuto inizio il giubileo. Da giorni Roma era assediata dai turisti, più che in qualunque altro periodo dell’anno, e così sarebbe stato per i mesi successivi.

       Alzò gli occhi, guardò in direzione di Castel Sant’Angelo e, come sempre, ne rimase ammaliato. Si era innamorato di quella città dal primo giorno in cui vi aveva messo piede. Conosceva ogni via, ogni passaggio, ogni edificio e ogni cripta sotterranea che aveva visitato più volte. Sapeva esattamente chi l’aveva costruita e quando, conosceva la sua storia fin nei minimi particolari, e questo non a causa del suo lavoro. Riusciva sempre a ritagliarsi un’ora al giorno, subito dopo il pranzo o di sera facendo ritorno a casa, per vagare per le strade deserte, per visitare i musei o anche solo per fermarsi in una piazza e leggerne la storia su qualche opuscolo destinato ai turisti. Ma di tutti i luoghi incantati di Roma, il vecchio ponte Sant’ Angelo sul lungotevere, noto anche come ponte Elio, ponte Adriano o di castello, era il monumento che aveva catturato di più la sua attenzione e la sua meraviglia.

       Fra quelle mura, nel 1527, durante il sacco di Roma, papa Clemente VII, attraversando il Passetto di Borgo, era riuscito a mettendosi in salvo, mentre i mercenari, comandati da Carlo di Bordone, appiccavano il fuoco a case, chiese e conventi, lanciandosi in saccheggi e violenze, devastando l’intera città per sette giorni e sette notti. Lì Beatrice Cenci, accusata di parricidio nel 1599, era stata decapitata, insieme alla matrigna e al fratello maggiore. L’esecuzione si era svolta davanti agli occhi della folla accorsa e del Caravaggio, divenendo così un’eroina popolare, non solo per la forza di carattere e per la tenacia nell’affrontare gli abusi paterni, gli interrogatori e le torture della Santa Inquisizione, ma soprattutto come figura esemplare del femminismo e immagine dell’opposizione al conformismo. Quasi 300 anni dopo, Victorien Sardou, drammaturgo francese, aveva inscenato il suo dramma storico in cinque atti, ambientato nella Roma ottocentesca, che aveva successivamente ispirato, nel 1900, Giacomo Puccini con l’opera Tosca.

       L’uomo lasciò scivolare il suo sguardo lungo il ponte acciottolato, illuminato da numerosi fari dalla luce gialla e calda e si concesse un sorriso. Le ombre delle statue degli angeli, posti su alti piedistalli, si allungavano sul selciato lastricato, regalando la sensazione, a chi lo percorreva, di non essere mai del tutto solo.

       Restare lì lo faceva sentire in pace con se stesso, regalandogli istanti di serenità. In qualche modo, facendolo avvicinare di più a Dio. Forse era vera la leggenda che gli aveva raccontato quel vecchio ambulante, quando, due giorni dopo aver accettato il trasferimento per Roma, si era imbattuto, per la prima volta, mentre camminava per quella strada. Veramente il ponte simboleggiava la comunicazione fra l’uomo e Dio, come un nuovo ingresso alla città sacra, lungo un percorso di espiazione. Gli aveva spiegato che le iscrizioni alle basi delle prime due statue, che raffiguravano San Paolo e San Pietro, ricordavano un antico detto romano e cioè che lì si accoglievano i superbi pentiti e penitenti. E lui vi aveva creduto, perché quella era sempre stata la sua religione, il suo credo e la sua ispirazione. Ora, davanti a quelle statue immobili, si rese conto che era giunto il momento di essere giudicato per i suoi peccati ed errori.

       Scosse il capo. Ultimamente, anche quel credo era andato sfumando. Si voltò a guardare la strada. Il chiosco del vecchio ambulante aveva la saracinesca abbassata. Si era illuso di poterlo salutare, anche se forse lui non si sarebbe neppure ricordato di averlo mai incontrato. Gli sarebbe piaciuto trascorrere ancora del tempo in sua compagnia e ascoltare i suoi aneddoti che narravano di una città antica. S’ incamminò lungo il pavimento di pietre abrase, scrutando, a una a una, le enormi statue angeliche che si innalzavano maestose e fiere alla sua destra e alla sua sinistra, con i piedi affondati in nuvole marmoree, ora più e ora meno voluminose, fino a che non trovò quella che stava cercando, l’angelo con il sudario, anche soprannominato angelo con il Volto Santo. Era stato realizzato nel 1670 dallo scultore Cosimo Fancelli e insieme agli altri nove reggeva l’Arma Christi. La statua era l’unica del gruppo che però non mostrava all’osservatore l’impronta della facies Christi, bensì era lui stesso che si rispecchiava nell’immagine del Volto di Cristo. L’uomo si fermò davanti e lesse ad alta voce, per l’ultima volta, la scritta impressa nel marmo.

      "Respicie faciem Christi tui socchiuse gli occhi stanchi, lasciando che una lacrima scivolasse lenta, lungo la sua guancia. Ricordati il volto del tuo consacrato" tradusse a memoria.

    La frase era stata tratta dal salmo 84, e possedeva anche una seconda traduzione, cioè ‘Guarda o Dio, nostro protettore, il volto del tuo consacrato’. L’interpretazione cristiana aveva spigato il significato rifacendosi all’ecclesiologia, la dottrina circa l’esistenza, la costituzione e le caratteristiche individuali della Chiesa. A differenza di tutte le epigrafi lasciate ai piedi delle altre statue, in questa cambiava il soggetto della frase. La Chiesa orante, con la parola ‘guarda …’ voleva lasciare intendere di pregare Dio di ricordarsi del Suo Cristo, cioè di rammentarsi del Suo Figlio Gesù. La Chiesa voleva ricordare a Dio l’azione di salvezza di Suo Figlio.

       L’uomo rabbrividì, quando si sfilò il soprabito nuovo. Lo piegò con cura, legandovi attorno la cintura e allacciando la fibbia. Lo depose con attenzione sul cornicione, perché non cadesse di sotto. Sollevò il capo restando a fissare il cielo scuro sopra di sé. Non avrebbe più visto le stelle brillare nelle notti estive di Roma, quando, scivolato fuori dal suo ufficio e lasciata la vecchia utilitaria parcheggiata nella piazza, si incamminava a piedi diretto verso casa.

       In lontananza si udì il grido di una sirena squarciare il silenzio della notte.

       Si aggrappò al cornicione e con un balzo vi saltò sopra. Rimase in equilibrio, allargando le braccia di lato, come fossero ali, pronte a sbattere per sollevarlo in aria. Fissò l’abisso sotto di sé. L’acqua gorgogliava copiosa dopo l’ultima piena, frangendosi sulle sponde di sterpaglie raggrinzite e soffocate da una poltiglia di neve e ghiaccio. Inspirò ed espirò profondamente con la bocca aperta. Sentiva il cuore battere in gola, ma non per la paura. Era arrivato il momento propizio. Ora non avrebbe più potuto tornare indietro, e fingere che non fosse accaduto nulla. Il suo gesto avrebbe lasciato in sospeso troppe domande, ma avrebbe messo la parola fine a quel macabro gioco. Se non lo avrebbe sconfitto, almeno sperava di poterlo fermare in tempo, prima che il peggio si scatenasse, distruggendo come una furia ciò che era stato e ciò che avrebbe dovuto continuare a essere. Si concesse un ultimo lungo sospiro, come se volesse liberare dal corpo la sua anima. Nudo del suo soprabito, avrebbe sentito freddo, ma l’acqua lo avrebbe inghiottito all’istante, senza lasciargli neppure il tempo di rendersene conto. Tutto avrebbe avuto una fine.

       Allungò un piede nel vuoto, mantenendosi in equilibrio. Sorrise divertito dall’idea che qualcuno, scorgendolo, avrebbe potuto pensare che volesse sostituirsi a uno degli angeli posti ai suoi lati.

       Trattenne il respiro, chiuse gli occhi e, abbandonandosi, si gettò nel Tevere.

    Capitolo 1

    I passi frettolosi risuonarono sul pavimento di pietra levigata fino a che non si fermarono, come inghiottiti dal silenzio del sotterraneo.

       Frate Santo sbadigliò, incurante di portarsi la mano davanti alla bocca. Alzò gli occhi e bisbigliò il memento mori posto sopra l’ingresso della cripta.

      Quello che voi siete noi eravamo tentennò, poi aggiunse: Quello che noi siamo voi sarete si segnò il petto con la croce e procedette infilandosi nel lungo corridoio dove risiedevano le cinque cappelle dell’ossario.

       Era stata una lunga giornata. Numerosi visitatori avevano raggiunto le cripte dell’ossario e, a stento, era riuscito a contenere il flusso di persone che, come ogni mattina, aveva scorto davanti al portone, in attesa che il museo aprisse. Le ossa dei suoi fratelli risiedevano lì sotto da centinaia di anni, eppure pareva quasi che solo in quel periodo dell’anno i turisti che arrivavano nella Capitale si ricordassero di visitare il museo di Santa Maria della Concezione, intrufolandosi sottoterra. Del resto, a parte la lastra di marmo davanti all’altare maggiore con lo scabro epitaffio in latino, fatto incidere dal cardinale Antonio Barberini nel 1646, che ricordava che in quel luogo risiedevano solo polvere, cenere e niente altro, e alcuni capolavori pittorici fra i quali spiccava il San Francesco orante del Caravaggio, la chiesa in sé non attirava l’attenzione dei curiosi quanto ciò che risiedeva nei suoi sotterranei. Santa Maria della Concezione dei Cappuccini, o Nostra Signora della Concezione dei Cappuccini, era stata costruita nei pressi di Palazzo Barberini da papa Urbano VIII, in onore del fratello Antonio che faceva parte di quell’ordine, la cui tomba si era conservata all'interno della chiesa, insieme alla pietra tombale del cardinale Agapito Mosca e la tomba di Padre Mariano da Torino. Alcuni turisti erano temerari e sfidavano la paura riuscendo ad arrivare fino all’ultima cripta, ascoltando le sue parole e bisbigliando fra loro. Altri aspettavano sopra, al museo dei cimeli, impauriti dal fatto che oltre quella scala avrebbero incontrato la morte e, per la prima e unica volta nella loro vita, avrebbero anche potuto ammirare la sua bellezza e semplicità. Di lì a dieci giorni, l’inizio del giubileo avrebbe riempito ulteriormente le sue giornate, appresso a un afflusso maggiore di turisti giunti da differenti città, ma frate Umberto gli aveva assicurato che avrebbe provveduto a chiamare altri fratelli per aiutarlo. Sarebbe stato un lungo e faticoso pellegrinaggio, ma come aveva annunciato il Papa nel corso dell’omelia della Liturgia Penitenziale dello scorso marzo, con quell’evento la Chiesa avrebbe reso più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia, perché i fedeli tornassero a credere senza pregiudizi nella grandezza e nella bontà di Gesù Cristo, Re dell’universo.

       Frate Santo soffiò sullo stoppino del cero posto dinanzi alla cappella denominata ‘teschi’, per la presenza di centinaia di crani sistemati l’uno accanto all’altro in file ordinate, e la fiamma si spense, rendendo l’atmosfera ancora più lugubre e opprimente.

       Risiedeva da così tanti anni in quel convento che conosceva i nomi di tutti gli scheletri esposti, coperti dal loro saio che ancora portava la cintura con i tre nodi legata al fianco. Li sapeva perché era stato lui a nominarli a uno a uno. Erano diventati i suoi fratelli, carne della sua carne, e un giorno avrebbe desiderato risiedere vicino a loro, in quelle cripte silenziose e desolate, dove il riposo eterno gli avrebbe permesso di fare pace con la sua anima, e trovare finalmente una casa al suo corpo stanco.

       Fece un passo in direzione della seconda cappella, ma il suo occhio fu catturato da un luccichio che lo costrinse a tornare davanti all’ingresso della cripta appena superata. Guardò all’interno, ma non scorse nulla. Aguzzò lo sguardo, alla ricerca dell’accendino che solitamente lasciava vicino al cero. Lo fece scattare e accese nuovamente lo stoppino. La fiamma alzò la sua testa regalando ombre sinistre che iniziarono a danzare lungo il corridoio in penombra.

       Frate Santo si sporse in avanti. Nell’aria si percepiva uno strano odore dolciastro e nauseante, molto differente da quello della morte che avvertiva ogni mattina, non appena scendeva la scala per raggiungere i sotterranei.

       Avanzò di un passo. Sgranò gli occhi boccheggiando, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, facendo inconsapevolmente un passo indietro.

      Dio del cielo! esclamò, portandosi la mano alla bocca.

       Alle sue spalle, risuonarono i passi trascinati di frate Umberto che, prima di rinchiudersi nella sua cella, scendeva nella cripta per salutare i fratelli defunti, concedendosi l’ultima preghiera della giornata in loro compagnia.

      Frate Santo chiamò il fratello, scorgendolo fermo davanti alla cripta. Cosa fai ancora qui? Non dovevi…

      Frate Umberto, venga a vedere! C’è una donna qui… balbettò l’altro.

      Una donna? Ma il museo ha chiuso un’ora fa rispose sbigottito il religioso, affrettando gli ultimi passi e avvicinandosi all’entrata della cripta. Poggiò una mano sulla sua spalla, scansandolo di lato. Signore mio! esclamò una volta sbirciato all’interno. Congiunse le mani come se fosse in preghiera e le avvicinò alle labbra rimaste socchiuse.

      È morta bisbigliò frate Santo. Sfilò il cero dal candelabro, in modo da fare più luce. Avanzando di un passo, si accucciò vicino al corpo.

      Come può essere accaduto? chiese padre Umberto, restando alle sue spalle.

       La fiamma rivelò i lineamenti del cadavere. Frate Santo scattò in piedi, e balzando indietro andò a sbattere contro il fratello che si aggrappò al muro per non cadere. Il cero cadde a terra, ma la fiamma non si spense. Puntò il dito a terra e urlò, distruggendo in un attimo il silenzio tombale della cappella:

      È lei! È lei!

       Frate Umberto spinse il religioso di lato, per vedere meglio. Si sporse in avanti.

      Non può essere! Morì più di quarant’anni fa!

      Guarda con i tuoi stessi occhi! Indossa i suoi vestiti. Anche la collana che porta al collo... balbettò frate Santo, scompigliandosi i pochi capelli rimasti sul capo.

      Gesù benedetto bisbigliò l’altro annuendo e fendendo l’aria con la mano, per disegnare una croce.

      Il sangue… Il suo ventre è coperto di sangue farfugliò ancora il primo religioso terrorizzato. Si volse a guardare lungo il corridoio. Un brivido gli percorse la schiena strisciando fino alla nuca. Lui è tornato sussurrò.

      Non lasciamo che la paura abbia la meglio su di noi ritrovò la calma frate Umberto. Nessuno torna dal mondo dei morti. Questi sotterranei ne è di esempio tutti i giorni.

    Il giubileo… tartagliò frate Santo, e aggiunse: È tornato per ottenere la redenzione dei suoi peccati.

       Frate Umberto cercò nell’oscurità il volto del fratello e, afferrato con entrambe le mani, sibilò a denti stretti:

      L’ho visto morire con i miei occhi! Dio punì la sua arroganza!  

       Frate Santo annuì, abbassando lo sguardo al pavimento. Scorse qualcosa vicino al cadavere.

      Cos’è quello? chiese con voce tremante.

      Cosa? si scosse frate Umberto ricomponendosi e seguendo la direzione del suo sguardo.  

      indicò a terra l’altro, puntando il dito indice. È un foglio accartocciato.

       Frate Umberto si chinò a raccoglierlo.

      Non dobbiamo toccare nulla gli ricordò frate Santo.

       Il religioso più anziano, incurante del suo consiglio, aprì il foglio, concentrandosi sulla lettura. Lo ripiegò, celando un leggero tremore delle mani.

      Cartaccia rivelò, sospingendo frate Santo fuori dalla cripta.

      Cosa c’è scritto? incalzò lui, restando a fissare le mani del fratello. Le sue mani… si sono macchiate con il sangue di quella donna balbettò.

      Non perdiamo tempo in chiacchiere, frate Santo lo ammonì il fratello. Dobbiamo chiamare la polizia.

      Ma chiuderanno il museo! Ci sono già più di cinquanta gruppi che…

      Corri! lo esortò frate Umberto spingendolo lungo il corridoio. Va a chiamare aiuto!

       Il monaco sollevò il saio, trattenendolo con entrambe le mani e corse fin verso la scala, poi al piano superiore.

       Frate Umberto si guardò attorno. Nascose il foglio nella tasca della tunica ruvida e tornò all’interno della cripta. Si inginocchiò davanti al corpo. Scosse il capo e si segnò la fronte prima e il petto poi con la croce. Non poteva essere. Era certo che non sarebbe più tornato, l’esilio doveva durare tutta la vita. Era la condizione che lui stesso gli aveva imposto, per permettergli di restare in vita, e il castigo inflittogli per la sua disubbidienza non era nulla a confronto di ciò che gli sarebbe accaduto se avesse deciso di fare ritorno. Eppure, quelle parole scritte su quel pezzetto di carta dicevano il contrario.

       Socchiuse gli occhi, congiungendo le mani. Le punte delle sue dita erano imbrattate dal sangue del peccato. Nella tasca della veste il foglio crepitò, come se volesse uscire e urlare la verità, mentre il frate alzava le braccia portando le mani davanti al viso, in segno di preghiera.

        Il Signore ti faccia infracidir il tuo ventre e gonfi e crepi il tuo utero tacque, restando in ascolto, ma attorno a lui il silenzio della cripta gli era complice. Continuò: Entrino le acque di maledizione nel tuo ventre ed enfiato il tuo utero s’infracidisca il tuo fianco.

       La fiamma della candela si spense e la cripta cadde nel buio pesto delle tenebre.

    Capitolo 2

       Nell’ufficio regnava un silenzio assoluto. Se si fosse teso l’orecchio, si sarebbe potuto percepire il sibilare lento e continuo del termoconvettore, che sputava aria calda. Per l’ispettore Oscar De Santis era la pace che precedeva il momento più atteso dell’intero anno. Gli ultimi sessanta minuti prima di spegnere il computer, alzarsi dalla poltrona sistemata dietro la scrivania, infilarsi il cappotto di panno nero, raggiungere la porta e considerarsi ufficialmente in ferie. Dopo aver gettato un ultimo e rapido sguardo alla stanza, sarebbe uscito nel corridoio, concludendo così la sua giornata di lavoro, per iniziare un periodo di ventiquattro giorni di assoluto riposo meritato. Ogni anno sceglieva il mese di dicembre per le sue vacanze, e quell’anno aveva deciso di posticiparle di almeno una settimana, in modo da non essere nelle vicinanze di Roma, e tanto meno prossimo al suo ufficio, quando la porta santa della basilica di San Pietro fosse stata aperta, e avrebbe avuto inizio il giubileo. Non si considerava un uomo religioso, non seguiva alcuna fede in particolare, e per lui quell’avvenimento avrebbe voluto dire solo più lavoro e più problemi. Tanto valeva svignarsela alla chetichella e lasciare il compito più sporco ai colleghi. Al suo ritorno, a cose fatte, tutto sarebbe stato più semplice. Quel periodo di ferie se le era meritate e sudate per un intero anno solare.

       Non sapeva se definirle estive, visto che nei mesi più caldi aveva lavorato ogni giorno, o prenatalizie, mancando ancora un mese a Natale. Detestava partire nel mese di agosto, quando era scontato che tutti lo facessero. Gli piaceva lavorare quando i suoi colleghi erano assenti. Roma si riempiva di turisti, ma lui aveva il tempo di godersi la città. Allo stesso tempo, disdegnava il periodo vicino alla festa di Natale e al Capodanno per intraprendere un viaggio di riposo. Preferiva trascorrere quei giorni in famiglia o con le persone che conosceva da anni, concedendosi poco tempo per i regali, ma molto per restare disteso sul divano davanti al camino, e pensare a come sarebbe stato l’anno nuovo, cosa avrebbe portato e cosa gli avrebbe rubato. 

       Spingendo la schiena all’indietro e allungando le braccia sopra la testa si stiracchiò sbadigliando, annoiato. Rimase in quella posizione per un lungo istante, con gli occhi chiusi e le labbra tirate in un sogghigno beato. La fine di novembre era perfetta per sparire dalla Capitale, e restare a godersi il sole.

      Poteva considerarsi già in vacanza. Avrebbe anche potuto andarsene in quel preciso momento. I suoi colleghi neppure se ne sarebbero accorti. Erano occupati a mangiare ciambelle alla marmellata e a bere caffè amaro in fondo al corridoio, mentre spulciavano le ultime scartoffie, trovando il modo di lasciare trascorrere la serata il più velocemente possibile e senza troppo impegno. Ma aveva preferito chiudersi nel suo ufficio e godersi quegli ultimi istanti di servizio attivo, durante i quali non aveva fatto altro che scorrere le immagini sul monitor del suo portatile di una spiaggia assolata e circondata solo da acqua calma, cristallina e salata. La sua valigia lo aspettava già in macchina, chiusa nel bagagliaio da sei ore, e il suo cellulare non emetteva alcun suono da quella mattina.

       Piegò il braccio e diede un’occhiata furtiva al quadrante dell’orologio stretto al polso. Ventisette minuti erano già volati via. Girò la testa di lato e guardò oltre i vetri dell’unica finestra presente nella stanza.

       Aveva ripreso a piovere e lo squarcio di cielo, che poteva scorgere da quella posizione, era coperto da nubi compatte e cariche di acqua. Stava calando la sera, e anche il frastuono del traffico pareva essere diminuito di intensità.

       L’ispettore Oscar De Santis sbadigliò. Sentì i muscoli del viso tirarsi per lo sforzo. Poggiò le mani sul capo rasato e si massaggiò la cute. Sua madre si sarebbe messa a ridere quando avrebbe visto il suo nuovo taglio, ma era stato necessario affrontare l’evidenza. I suoi capelli si stavano diradando a vista d’occhio, lasciando visibile, in alcuni punti, la forma del suo cranio. A quarantasette anni, era arrivato il momento di abbandonare l’idea di sperare in una ricrescita improvvisa, soprattutto se non poteva comunque evitare che i pochi capelli rimasti si sbiadissero fino a ingrigirsi.

       Quando la mattina prima era uscito dal barbiere, senza neppure guardarsi allo specchio per l’ultima volta, aveva avvertito subito il vento gelido sfiorargli la pelle, ma si era ripromesso di farci l’abitudine, detestando qualsiasi tipo di berretto di lana o cappello di panno. Non era mai riuscito a sopportarli neppure da bambino, quando sua madre lo costringeva a schiacciarselo sulle orecchie e lui lo sfilava, nascondendolo nello zainetto, una volta girato l’angolo della strada.

       Il cellulare sulla scrivania emise un sordo trillo attirando la sua attenzione.

       Oscar aprì un occhio e sbirciò il display. Aveva impostato la sveglia a trenta minuti prima della fine del suo turno, per evitare, nel caso si fosse protratto più a lungo in ufficio, di dimenticarsi qualcosa. Sullo schermo del Samsung Note 3 lampeggiava la scritta ‘biglietti aereo’.

       Oscar si rimise in posizione eretta, allontanò la poltrona dalla scrivania lasciando scivolare le rotelle indietro, e aprì il primo cassetto.

       Erano ancora lì. Tre biglietti della compagnia Alitalia, acquistati un mese prima e pagati con parte del suo stipendio. Li raccolse e, per qualche secondo, rimase a fissarli come fossero carte da gioco vincenti. Ne sfilò uno, tornando a sistemarlo al suo posto. Chiuse il cassetto, trattenendo la mano sul pomolo di acciaio. Lo riaprì e sbirciò, ancora una volta, il documento di viaggio. Cercò con lo sguardo alcuni fogli abbandonati sulla scrivania e, con fare deciso, ve li sistemò sopra, nascondendolo. Chiuse e fece un giro di chiave. Infilò gli altri due sotto il cellulare, avvicinando anche le chiavi della macchina, in modo che fosse tutto a porta di mano nel momento in cui le lancette avessero scoccato gli ultimi minuti. Tornò a guardare il monitor del computer. L’immagine della sabbia dorata era ancora lì, e lo fissava.

       Capo Verde era l’ultimo posto che avrebbe scelto per trascorrere i suoi ventiquattro giorni di ferie. Non tanto perché non amava allontanarsi dall’Italia, ma perché non sapeva come sarebbe riuscito a reggere un volo di quasi sei ore, in compagnia di sua madre. Non aveva viaggiato spesso nella sua vita e, se ne era stato costretto, aveva optato sempre per la sua macchina, confortevole come mezzo di trasporto. Prediligeva i viaggi brevi e veloci, che in tre ore al massimo lo portavano alla destinazione prescelta. Ma, del resto, anche sua madre non aveva avuto tutti i torti quando si era rifiutata di trascorrere quell’unico periodo di vacanza con suo figlio in un luogo dove il clima non sarebbe stato differente da quello che avrebbe lasciato partendo. Tanto valeva che se ne restasse nella sua villa, a Spoleto, e lui la raggiungesse.

       Oscar afferrò il mouse e fece scorrere il cursore sul video, in basso a sinistra. Cliccò e si aprì una tendina. Fra le varie opzioni scelse la prima, arresta il sistema e, in pochi istanti, lo schermo divenne nero. Richiuse il coperchio del portatile e scollegò la presa elettrica. L’orologio segnava le 19:33. Giusto il tempo per un ultimo caffè e qualche convenevole con i colleghi, per assicurarsi che non avrebbero avuto bisogno di lui nei prossimi giorni, prima di uscire dalla questura in via San Vitale, e ritenersi ufficialmente fuori servizio.

       Il leggero colpo alla porta lo immobilizzò. Trattenne il fiato, sperando che l’intruso decidesse di cambiare idea, andandosene. Un altro colpo, questa volta più forte, e il battente si aprì cigolando. Il viso dalla carnagione pallida dell’agente Lombardo, punteggiato da numerose lentiggini marroncine, che gli conferivano quasi un aspetto più giovane dei suoi trentacinque anni, fece capolino.

       L’ispettore Oscar De Santis tirò le labbra in un sorriso forzato e indispettito, ma mantenne il suo mutismo. Rimase a fissare il collega, puntando gli occhi scuri, stretti in una fessura, nei suoi.

      Hanno trovato un cadavere nella cripta dell’ossario dei frati cappuccini, ispettore disse il sottoposto restando sulla soglia e trattenendo la porta, socchiusa per metà, con una mano.

      Mmm… bofonchiò Oscar. Quale sarebbe la novità? In quella tomba risiedono le ossa di quattromila frati, deposte fino alla fine del XIX secolo. Uno in più non farà la differenza.

      Il corpo… indugiò, poi aggiunse tutto d’un fiato: Il cadavere non è uno scheletro. Neppure uno di quei monaci.

      Grazie per avermi informato cercò di liquidarlo Oscar. L’ispettore Rapuzzi arriverà fra… sbirciò il quadrante dell’orologio …circa dieci minuti. Aggiornalo. Nel frattempo…

      Ha chiamato ora il commissario Mancini lo interruppe l’agente Lombardo. È già sul posto, e vuole che lei lo raggiunga subito.

       Oscar sgranò gli occhi. Tirò le labbra in una smorfia e si appoggiò allo schienale della poltrona.

      Sono ufficialmente in vacanza. Forse… tentò di tergiversare.

      Ha precisato che il suo turno termina alle venti, e che, fino a quel momento, è ancora in servizio borbottò l’agente Lombardo, abbassando gli occhi al pavimento.

      Il commissario Mancini crede che possegga il dono del teletrasporto per arrivare dal commissariato fino in via Veneto, in meno di venti minuti, prima che il mio turno finisca? si irritò Oscar. Si mosse sulla poltroncina, divenuta scomoda all’improvviso.

      Stando ai suoi calcoli, senza traffico, dovrebbe impiegarcene tre riferì l’altro, azzardando un sorriso divertito che cercò di nascondere in malo modo, storcendo la bocca e tenendo lo sguardo puntato altrove.

       L’ispettore Oscar De Santis inspirò dal naso. I suoi muscoli erano tesi. Trattenne il respiro per qualche secondo, prima di buttare fuori l’aria dalla bocca semi aperta, cercando di non lasciarsi sopraffare dalla rabbia, una cosa quella che ultimamente gli veniva difficile.

      Posso riferire al commissario Mancini di non averla trovata, ispettore continuò l’agente Lombardo.

      No, sarebbe peggio. Me la vedo io sibilò l’ispettore Oscar De Santis, congedando il sottoposto con un cenno del capo.

       Quando la porta si richiuse alle sue spalle, non riuscì a trattenersi, e batté con forza il pugno sulla scrivania. Mordendosi il labbro inferiore, si impose di non urlare. Si alzò di scatto dalla poltroncina e afferrò il cappotto abbandonato su un bracciolo.

       Venti minuti. Avrebbe concesso al commissario Mancini Salvatore solo gli ultimi venti minuti di quella giornata. Poi avrebbe fatto ritorno nel suo appartamento in via Appia, al numero civico 6. Si sarebbe concesso una doccia calda, liberandosi dagli abiti indossati quella mattina, e sarebbe partito per Spoleto. Il giorno dopo, a quella stessa ora, sarebbe stato su un aereo, seduto vicino a sua madre, in prima classe, qualunque cosa gli avesse ordinato, detto o anche solo accennato, il suo superiore.

    Capitolo 3

       Quando la vettura grigio metallizzata imboccò via Vittorio Veneto, l’orologio digitale sul cruscotto segnava le 19:54, e la pioggia leggera, ma fastidiosa, si era intensificata. Le previsioni avevano annunciato la prima nevicata di quell’inverno, ma le temperature restavano ferme a qualche grado sopra lo zero. Roma avrebbe dovuto attendere ancora per scorgere i primi fiocchi volteggiare fino a toccare l’asfalto e ricoprire con un manto bianco le vie intasate dal traffico. 

       Oscar stinse forte le mani al volante quando la macchina davanti a lui azionò l’indicatore di direzione di destra per poi continuare lungo la carreggiata, costringendolo a frenare bruscamente. All’altezza di via San Basilio scorse un parcheggio libero e, dopo aver lasciato attraversare due pedoni sulle strisce bianche, svoltò, fermando la sua corsa. Spense il motore e, incurante della pioggia e del vento gelido che

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