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Clessidre senza sabbia
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E-book333 pagine4 ore

Clessidre senza sabbia

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Info su questo ebook

Un uomo entra in un ristorante giapponese. Quando termina la cena, esce e decide di suicidarsi senza un apparente motivo. Non lascia nessun messaggio, nessun addio. Niente se non il suo sangue che si mescola alla pioggia di quella notte di dolore.

Oliver è un ragazzo intrappolato tra un passato segnato da un evento tragico in cui hanno perso la vita i suoi genitori e un presente dai contorni incerti. Vive a Barcellona, città dove svolge la sua attività di stampa di fotografie sulle Ramblas, viale reso magico dai suoi artisti di strada. Mentre il mondo è in fibrillazione per l’ imminente entrata nel nuovo secolo, Oliver inizia a comprendere molte cose sul suo passato e su quello dei suoi genitori grazie allo scambio di oscuri messaggi con un misterioso interlocutore che presto diventerà per lui una minaccia. Il riemergere di verità nascoste stravolge il senso della sua intera vita e tutto ciò in cui crede viene rimesso in dubbio. Cosa saresti disposto a fare per trovare il senso di ogni cosa?
LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2015
ISBN9786050402308
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    Anteprima del libro

    Clessidre senza sabbia - Leonardo Seren Rosso

    ROMANZO:

    PRIMA PARTE

    1

    L’uomo in piedi sul marciapiede aveva difficoltà a capire se l’incessante brusio che lo stava assordando era quello dello scrosciare della pioggia o quello che sentiva nella sua testa. Molte cose nella sua vita non avevano più senso, come essere in quel luogo senza un ombrello. Come non capire più la ragione delle sue lacrime.

    Si trovava però forse vicino alla verità, a quella verità che aveva inseguito da quando si era insinuato il dubbio; da quando aveva ricevuto quella telefonata. Tutto poteva avere un senso diverso. Aveva bisogno di sapere. E dopo aver capito non sarebbe più stato lo stesso, ancora un volta.

    Sentiva di essere a un passo dal traguardo finale. Un ultimo sforzo prima di capire se aveva raggiunto la verità che da anni agognava, che gli era stata nascosta, ma che da tempo lo tormentava con la sua presenza, da quel lontano giorno in cui aveva ricevuto quella lettera e il dubbio si era insinuato nella sua mente. Aveva bisogno di sapere, anche a costo di scoprire la peggiore delle verità. Ripensò a lei, agli anni passati insieme, all’amore che gli aveva dato e che lui non aveva mai saputo ricambiare. Ripercorse la loro storia nata sui banchi all’università, in Italia, prima che si trasferissero in Spagna per lavoro. Rivide i suoi occhi azzurri e il suo sorriso mentre parlavano dei grandi temi della vita in piazza del Duomo a Firenze o di sciocchezze sotto i portici di Piazza del Campo in quello scrigno di cittadina chiamata Siena. Gli vennero alla mente le immagini più felici e la spensierata giovinezza persa. Poi, come una scossa elettrica, l’incidente, l’isola, la disperazione, la sua scomparsa. Una lacrima si staccò dall’occhio destro e, lenta, si buttò verso la mascella per spegnersi poco dopo. Pioveva, e molto forte ora; ma vide il posto dove avrebbe trovato quel che cercava. L’insegna del ristorante era incomprensibile, ma i caratteri giapponesi erano ugualmente visibili. Il luogo delle risposte lo attendeva, era di fronte a lui, dall’altra parte della strada. Attraversò ed entrò.

    Si sedette e ordinò. I camerieri gli chiesero se volesse qualcos’altro, ma a lui bastava quello. Quando si alzò dal suo tavolo e pagò la consumazione, fuori ancora pioveva. Il rumore ovattato giungeva fino al bancone, confuso tra gli altri mille rumori del ristorante. La gente che parlava ad alta voce ai tavoli, i camerieri che comunicavano una lingua sconosciuta ai loro clienti, i rumori della cucina che uscivano incontrollati da dietro le porte a soffietto.

    Aspettò ancora qualche secondo e poi uscì. Sembrava che le gocce fossero dei chiodi e volessero distruggere la terra, tale era la violenza. Incessante, colpiva la testa dell’uomo senza ombrello. In mano la pistola, nel cuore la verità svelata, nella testa le immagini come spilli. Una fitta allo stomaco lo trafisse per lo sgomento. E alle sue spalle il luogo che gli aveva rivelato la realtà agghiacciante.

    Era finalmente tutto chiaro. La rabbia gli urlò che avrebbe dovuto uccidere. Ma si trattava del primordiale istinto di Caino. La ragione, con un sussurro arrendevole, gli mostrò che era troppo tardi per fare giustizia. Chi doveva pagare l’aveva fatta franca. Il tempo, come negli ultimi granelli di sabbia di una clessidra, stava terminando. La morte dei suoi traditori non avrebbe portato alcuna consolazione. Fu in quel preciso momento che capì che in un unico modo avrebbe trovato la pace. Avvicinò alla tempia la pistola e, chiedendo perdono a Dio, premette il grilletto.

    Nel sentire uno sparo, il cameriere orientale uscì dal ristorante e vide il corpo dell’uomo riverso sul marciapiede: una chiazza di sangue lo stava circondando. Spaventato, rientrò e chiamò la polizia mentre la gente, nonostante la pioggia scendesse intensa, iniziava ad essere calamitata dal macabro ritrovamento. Alcuni uscirono dal ristorante, alcuni anche senza giacca. Il corpo privo di vita era lì, crudele spettacolo inaspettato in una giornata che sembrava uguale a tutte le altre. Dopo poco si iniziarono a sentire le sirene, sempre più vicine. Due ambulanze seguite da altrettante auto della polizia.

    Il cameriere con gli occhi a mandorla era stato affiancato da cinque suoi colleghi. Compresero che da lì a poco avrebbero dovuto rispondere a molte domande: il cadavere a terra era stato un loro cliente soltanto pochi istanti prima che tutti sentissero lo sparo.

    Da una delle due auto della polizia scese un uomo sulla sessantina con un impermeabile grigio. Aveva un paio di baffi e l’aria assonnata. Senza proteggersi dalla pioggia battente, si fece spazio tra la folla. Si aprì un varco mostrando il distintivo e si avvicinò al corpo; con lui, un ragazzo molto più giovane con una giacchetta e capelli scompigliati. I due fermarono di colpo il loro passo. La scena era chiarissima, si trattava di un suicidio. Ad un metro dalla mano destra dell’uomo c’era ancora la pistola. Nonostante la pioggia che batteva da diversi minuti sul metallo, la canna era ancora calda.

    Una cosa era certa: il colpo era partito da lì e da poco tempo. Misero i guanti in lattice ed iniziarono ad analizzare ogni cosa cercando di non spostare nulla. Il viso era tutto coperto di sangue. Dalla tasca dei pantaloni recuperarono i documenti e memorizzarono il nome. Per il momento non avevano bisogno d’altro, più avanti avrebbero potuto avere libero accesso a ogni suo indumento o reperto. La vittima era un uomo spagnolo di 41 anni; il suo nome era stato Ricardo Campos Blanco, fino a poco prima. Rimettendo i documenti a posto videro uno scontrino. Era di un ristorante giapponese e risaliva a mezz’ora prima; fu in quel momento che l’ispettore Enrique Marquez e il suo assistente Martin Torino alzarono gli occhi e videro, schierati come samurai, sei giapponesi o presunti tali: cinque vestiti da camerieri e uno da manager. 

    2

    Alcuni anni dopo.

    Oliver svolgeva la sua attività di fotografo da ormai nove anni; più che un lavoro era una passione vera e propria che coltivava fin dalla sua adolescenza, quando ancora viveva a Madrid. Gli capitava di ripensare alla sua difficile infanzia, caratterizzata dall’assenza della madre, morta in un incidente, e dal ricorrente conflitto con il padre, mai tornato se stesso dopo il lutto che li aveva travolti. Si era trasferito a Barcellona e aveva provato a ricominciare da lì. La fotografia era divenuta una via di fuga da tutto quello che era stato il passato, e il laboratorio fotografico una stanza in cui lui solo poteva entrare e dove, chiuso nella sua solitudine, trovava la piccola e intima felicità.

    Oggi finalmente aveva uno studio di sviluppo rullini e stampe sulla via principale della capitale catalana. Le Ramblas erano da sempre un luogo di fascino e arte, moltissima gente passava quotidianamente, chi a passo veloce e chi con la calma del turista. Oliver sviluppava rullini da 12, 24 e 36 pose in solo un’ora e per questa caratteristica molte persone, turisti e non, andavano da lui. Amava quel lavoro come nient’altro nella vita, nonostante girassero voci che da lì a dieci anni il mondo della fotografia sarebbe cambiato radicalmente con l’avvento della digitalizzazione delle immagini. Era una delle grandi aspettative che portava il nuovo millennio ormai alle porte.

    Oliver riteneva la fotografia un’invenzione straordinaria, forse la più grande di tutte: pensava spesso alla sua forza di racchiudere emozioni che altrimenti sarebbero andate scomparendo piano piano; la foto sviluppata era nient’altro che un disegno lucido fermato in un attimo: in esso era contenuto ciò che il tempo avrebbe portato velocemente via. Oliver si considerava quasi un mago nel manipolare i momenti di persone che nemmeno conosceva e forse non avrebbe mai conosciuto. Ma sapeva che quelle persone, ogni volta che gli consegnavano un rullino, aspettavano poi con emozione che passasse la mezz’ora successiva e non vedevano l’ora che lui consegnasse loro la busta con gli sviluppi. I clienti vedevano in lui la meta finale del loro viaggio, della loro vacanza, della festa o lo consideravano fautore di un prolungamento di un speciale istante nel ricordo. Eppure non faceva nulla di particolare e lo faceva da anni. Ma tutti, ad ogni modo, lo apprezzavano per quello che faceva. Lui dava la possibilità di rivedersi a fatto accaduto sulla fotografia; rivedersi e riviversi. All’interno del suo negozio, Oliver sapeva di avere un ruolo, che al di fuori, nel mondo esterno, non riusciva ancora ad avere. Era come se soltanto in quel posto fosse racchiuso il suo carattere più forte.

    Quel giorno entrò nel negozio un uomo alto e abbronzato con gli occhiali da sole e scarpe da tennis. Era Pablo. Di tanto in tanto passava da lì per uno sviluppo e scambiava qualche parola con lui: parlavano spesso di calcio, soprattutto da quando avevano scoperto che tifavano entrambi per l’Espanyol, la seconda squadra di Barcellona, quella meno blasonata. Poi se ne andava e ritornava per la riconsegna. Oliver aveva così il tempo di sbirciare un po’ nella sua vita, con discrezione, guardando le foto sviluppate. Lo faceva solo con alcune persone, con quelle che lo toccavano in qualche modo. Oliver guardò gli scatti felici di Pablo con al suo fianco una bella donna mediterranea: erano seduti a bordo di una gondola in una calda giornata di sole italiana; in un’altra erano abbracciati e lei faceva una linguaccia verso la macchina fotografica. Il resto delle foto erano o solo con lui o solo con lei; guardandone un’ultima, Oliver sorrise: era il solito gabbiano che milioni di turisti fotografavano perché, in quel momento, sembrava un’immagine unica ed irripetibile. Oliver pensava che quell’uomo sulla cinquantina avesse sposato una donna davvero bella e probabilmente anche simpatica e passionale.

    Poco dopo Pablo tornò, sempre raggiante. Scambiarono due parole, diede una prima scorsa alle foto, pagò e si congedò. Mentre stava uscendo Oliver disse: – Salutami tua moglie. Nel dirglielo si accorse che l’uomo ebbe un breve sussulto – Ok, sarà fatto! – replicò con un velato imbarazzo.

    Oliver, che di mestiere e passione viveva di particolari, si accorse anche di quello, di quell’istante di incertezza; il suo cliente sembrava cascato dalle nuvole, improvvisamente, sembrava quasi a disagio. Eppure era sposato, lo sapeva. Gli aveva parlato molte volte di sua moglie e quella che portava all’anulare era una fede. Forse si era semplicemente dimenticato che chi sviluppa le fotografie ha anche modo di vederle e nel farlo in qualche modo conosce la vita che sta attorno al suo cliente.

    Era sera e Pablo guidando abbandonò la caotica Barcellona per ritornare a casa. Aveva sempre pensato che Calella sarebbe stata una migliore soluzione per vivere con la famiglia. Parcheggiò l’auto in garage ed entrò in casa; lasciò cadere la borsa di lavoro per terra e raggiunse la cucina, dove Beatriz stava tagliando a rotelle una carota per il sugo della cena. Lui le diede un bacio sfuggente mentre si stava sciogliendo il nodo della cravatta. Pablo si sedette al tavolo ad ascoltare le parole di sua moglie. Erano parole che fluttuavano nell’aria a vuoto, ma che per lui non avevano alcun significato. Le sentiva a malapena, a tal punto che dopo pochi minuti si alzò e andò a cambiarsi; Beatriz rimase da sola in cucina e riprese, con stanca nausea, a tagliare le carote.

    3

    Chi è stato a Barcellona ha un impulso inspiegabile che lo riporta in quella città per una seconda, terza, quarta volta e forse anche di più. Una volta sola non basta. Forse perché lì trova scorci di vita unici nelle persone che la popolano; o forse perché proprio la città è vita che non si è ancora vissuta. La sua via principale è talmente importante e famosa che è diventata sinonimo stesso della capitale catalana. A Barcellona si respira ciò di cui essa è fatta: il calore del mare, il colore della sua arte fatta di mille sfumature su palazzi fuori da ogni razionalità architettonica; l’odore dei piatti di pesce e gli schiamazzi tra i vicoli. La gente ride e canta, solcando lo stereotipo per cui gli spagnoli sono sempre allegri. La via principale della città è l’emblema dello spirito catalano e dei suoi abitanti, ma anche dei turisti che la riempiono. Viene chiamata Rambla, termine castigliano che spesso muta in plurale, Las Ramblas, per ricordare che il viale pedonale è composto da più parti che si snodano da piazza Catalogna fino al porto antico.

    Ad ogni modo in cui la si vuole chiamare, l’origine del suo appellativo deriva dal termine raml ovvero sabbia, a ricordare che, al pari di altre città ispaniche, fu una strada ricavata da un vecchio fiume prosciugato. La gente più matta si trova sulle Ramblas.

    – Bea… stasera non torno per cena, sarò a casa tardi. Resto in ufficio a terminare un lavoro… scusami… non stare ad aspettarmi alzata, che poi domani non riesci a svegliarti che sei troppo stanca. Ciao.

    Pablo chiuse la chiamata e dallo stesso cellulare chiamò subito un altro numero. Francisca rispose dopo il secondo squillo. Insieme scelsero il posto dove si sarebbero visti in segreto.

    A qualche chilometro di distanza, qualche ora dopo, Beatriz diede un’occhiata all’orologio e notò che era ancora troppo presto per essere già così stanca. Fuori c’era ancora un pallido sole che cedeva il passo alla notte. Era stata una giornata stancante a scuola, con troppi studenti a cui ripetere formule e definizioni. Avrebbe voluto raccontare tutto all’uomo che una decina di anni prima aveva sposato, ma ora lui era troppo impegnato con il lavoro per ascoltarla e quel giorno, come molti altri in precedenza, le aveva lasciato per consolazione un breve messaggio in segreteria; pochi secondi in cui però le assicurava che sarebbe tornato. Almeno quello.

    Beatriz, in pigiama, puntò la sveglia per il giorno successivo, alle 6.30. Poi, spense la luce del comodino, si girò dall’altra parte e cercò di trovare il sonno, come ogni sera. Era il cervello la cosa più difficile da spegnere. Sapeva che doveva trovare un pensiero felice che la rilassasse. Anni fa era quello di una vita con Pablo. Da un po’ di tempo non lo era più. Allora cercò di ricordare il periodo in cui viveva per la sua più grande passione: il volo. Era stato suo padre a trasmettergliela. All’età di vent’anni aveva anche conseguito un brevetto che le permetteva, di tanto in tanto, di fare delle escursioni tra le nuvole. Sapeva guidare aerei di piccola dimensione e qualche volta aveva avuto la fortuna di pilotare un idrovolante. Si concentrò su quel ricordo: lasciò che il suo corpo si lasciasse andare tenendo gli occhi chiusi. Immaginò di staccarsi da terra a bordo di un biplano. Passarono alcuni minuti, poi il sonno arrivò per avvolgerla.

    Nel dehors di un ristorante italiano affacciato in una via laterale delle Ramblas, Pablo e Francisca aspettavano il loro piatto di tagliatelle al ragù che per ora li aveva rapiti dal profumo che arrivava dalla cucina. Nell’aria risuonava una canzone popolare italiana famosa in tutto il mondo, ed era abilmente suonata da un buffo personaggio grassoccio con i baffi che arpeggiava un mandolino. Tra una sonata e l’altra ringraziava con un inchino, mostrando il suo sorriso migliore.

    Seguivano timidi applausi e visi sorridenti, quasi come se quel simpatico stereotipo d’uomo possedesse una magia in grado di donare il buonumore a chiunque avesse il tempo o la fortuna di ascoltarlo. Mentre la scenetta si ripeteva come ogni sera, Pablo, con occhi sognanti, stava ascoltando la donna mentre gli raccontava di come era passata lentamente quella calda giornata di fine primavera. La osservava in ogni suo movimento e ne veniva rapito: anche solo vedere la sua mano che accarezzava i lunghi capelli neri rendeva Francisca un essere fatato. Bastavano pochi attimi in sua compagnia perché si perdesse nel suo sguardo, in quegli occhi neri come il caffè che emanavano una luce immensa.

    – E tu che cosa mi racconti? – chiese la donna.

    – In ufficio è sempre la solita noia e in questi giorni il caldo è insopportabile. Domani per fortuna aggiusteranno il condizionatore e forse si starà meglio – rispose.

    – E Beatriz? Cosa le hai detto di stasera?

    – Le ho raccontato che dovevo rimanere in ufficio, che dovevo finire un lavoro.

    – Come la settimana scorsa… e come tre mercoledì fa, quando non potevi dirle nuovamente che andavi a vedere la partita di calcio con Felipe perché non sarebbe stato credibile.

    – La stai compatendo o stai cercando di farmi venire i sensi di colpa? È semplice per te che hai un marito che vive a dieci ore di volo da qui e che vuole più bene al suo cane che a te.

    – Ok, finiamola qui, non ha senso discutere. E poi stanno arrivando le tagliatelle.

    Due ore dopo uscirono dal ristorante e attraversarono le Ramblas dirigendosi verso il porto. Lungo il viale c’era ancora qualche artista che, immobile, sembrava non volere andarsene da quel luogo che anche quel giorno l’aveva fatto sentire vivo. L’artista voleva restare ancora un po’ nella finzione prima di tornare nel mondo reale; assaporare la vita per quello che non è. Qualcun altro stava andando via ancora vestito dal suo personaggio; un altro ancora si stava struccando di un trucco da clown mentre scherzava con un amico che fumava una sigaretta. La notte non aveva ancora coperto del tutto il giorno; Pablo e Francisca camminavano sfiorandosi la mano mentre attorno li avvolgeva un mondo fatato, di persone mascherate, nascoste da un trucco o un travestimento che li rendeva protagonisti sul loro piccolo quotidiano palcoscenico chiamato marciapiede; e non importava se nella cassetta di legno o nel cappellino sgualcito si erano raccolte tante o poche monete o qualche banconota; l’importante era esserci e sentirsi unici.

    I passi dei due amanti proseguivano lenti, quasi volessero fermare il tempo e passarci attraverso con la calma del mare che li attendeva in lontananza, oltre la statua di Cristoforo Colombo che, con superbia e fermezza, indicava l’orizzonte.

    In quella penultima settimana di maggio, Barcellona viveva gli ultimi respiri di tranquillità prima dell’invasione dei turisti nei mesi successivi. Pablo e Francisca assaporavano la brezza che giungeva dal mare, quel sottile spiffero d’aria che ti fa mettere il maglioncino che tenevi legato in vita. Raggiunsero una panchina, si sedettero e, dopo un breve imbarazzato silenzio, si baciarono dimenticando le loro identità.

    Tutto era iniziato un giorno di tre mesi prima; un casuale incontro nel bar sulle Ramblas, uno scambio di battute, di numeri di telefono e lo sguardo che valeva mille parole e desiderava un nuovo incontro. La sera di quel giorno, Pablo era tornato a casa e si era accorto che sua moglie, Beatriz, era meno bella di quando l’aveva lasciata al mattino. E continuò ad essere così, da quel momento in poi. Entrambi sposati, Pablo e Francisca ebbero molte difficoltà a manifestare i propri sentimenti, ma l’infatuazione reciproca che li aveva sorpresi, li aveva uniti in un grappolo di incontri galeotti. Come in quella serata di maggio su quella panchina, che pareva un guscio che proteggeva da una realtà che non volevano.

    Verso mezzanotte sentirono il richiamo del ritorno a casa. Lui accompagnò lei alla sua macchina sportiva; nel salutarla le diede un biglietto aereo per Venezia.

    – Io ne ho uno uguale – disse – e ce lo strapperanno sabato mattina… – sorrise sornione.

    Francisca faceva fatica a contenere la felicità ed esplose in un lungo abbraccio. Poi lo baciò sulla bocca con la stessa energia di un giorno d’estate. La favola continuava e con essa la ritrovata gioia di vivere. Dopo quel momento magico, si dissero buonanotte e ritornarono a essere chi erano.

    4

    Concluse la lettera con un post scriptum che ricordava di dare un bacio al suo gatto Bernie e alle due caprette. Dopodiché, posò la penna stilografica, piegò il foglio e con cura lo infilò nella busta su cui era stato precedentemente scritto l’indirizzo del destinatario. Heike mandava sue notizie alla famiglia ogni mese. Aveva modo di sentirli anche telefonicamente, però soltanto scrivendo quelle lettere trasmetteva le emozioni che provava in quella città che ormai la ospitava da due anni. Con un velo di malinconia, ricordò quando aveva lasciato il suo piccolo paese ai piedi delle Alpi svizzere. Giunta all’età di vent’anni, aveva deciso di mollare tutto: la vita in mezzo ai monti, lontana da ogni tipo di stress, era andata in conflitto con il suo carattere vulcanico. Heike da tempo aveva avuto l’impressione di essere come una ballerina che girava sul solito giro di note in un lento carillon. Nonostante l’amore per i suoi genitori, i suoi amici, Bernie, Lella e Lalla, aveva compreso e che ciò che voleva si trovava al di fuori della sua vallata, al di là di quelle montagne che le avevano dato prima la sensazione di protezione e poi di prigionia. Aveva scelto di trasferirsi a Barcellona per il semplice motivo che poteva essere ospitata i primi mesi da alcuni amici che aveva conosciuto durante una gita scolastica.

    In quel momento stava uscendo di casa. Adorava la città catalana in quel periodo. Era una città ricca di fascino e mistero che non si faceva mancare il divertimento. Per una ragazza vissuta in una sperduta vallata, in un villaggio in cui tutti si conoscevano, era il paradiso. Non era stato facile abituarsi alla mentalità, ma ora si sentiva felice. Fece mente locale e ricordò che quel giorno aveva un appuntamento in un bar sulla Rambla, con un’ amica doveva rivedere un testo per l’università. Prima, però, doveva passare dal fotografo per lasciare il rullino con le foto del weekend appena trascorso con gli amici. A passo spedito si diresse verso il negozio. Spinse la porta e il suono di un campanellino avvertì della sua entrata. Oliver alzò lo sguardo e salutò la ragazza che ricambiò con un sorriso. Prese in consegna un rullino da 36 pose, sarebbe ripassata per il ritiro soltanto verso sera.

    Oliver si mise subito all’opera. Vide scatto dopo scatto luoghi, sorrisi, facce buffe e serie. Cercò suoni che non c’erano e odori che la foto non poteva catturare. Heike era un ciclone di energia e quelle foto lo confermavano.

    L’aveva conosciuta pochi giorni dopo il suo arrivo, due anni prima, quando gli portò da sviluppare una foto dei suoi genitori; comprò anche una cornice particolare. Da allora, saltuariamente si vedevano ogni volta che Heike doveva sviluppare delle foto. Oliver provava affetto per Heike, anche lei fuggita dal suo luogo natale, come aveva fatto anche lui quando se ne andò da Madrid. A volte pensava che il motivo per cui provava una particolare simpatia nei suoi confronti poteva essere dovuto al fatto che il biondo dei suoi capelli e l’azzurro dei suoi occhi gli ricordavano in qualche modo sua madre. Era come se la immaginava quando lui era piccolo. Era un pensiero strano, ma alle volte ci aveva creduto e se ne era convinto.

    – Allora, è sempre bella la Francia? – chiese Oliver consegnandole la busta con gli scatti che aveva fatto nel paese dei Lumière.

    – Sì, io e i miei compagni di università ci siamo divertiti un sacco, come avrai notato. Ora forse siamo pronti per concentrarci sugli esami – rispose lei.

    – Mah, vedremo – disse ironicamente il fotografo – Magari avete lasciato la testa là! Come stanno i tuoi genitori? – Oliver aveva a cuore la famiglia della ragazza, forse perché in realtà lui non ne aveva mai avuta una.

    – Stanno bene, grazie. Ieri li ho sentiti per

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