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Il caso della bambina scomparsa
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Il caso della bambina scomparsa
E-book474 pagine6 ore

Il caso della bambina scomparsa

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Info su questo ebook

Un’autrice da 4 milioni di copie

Un grande thriller

La piccola Thona è scomparsa all’età di sei anni e non è mai stata ritrovata.
L’ispettrice di polizia Marian Dahle, dopo un periodo di pausa in seguito a un terribile incidente, è ora tornata in servizio e Cato Isaksen le ha chiesto di riaprire l’inchiesta su quel caso mai risolto. Mentre la giovane ispettrice scava nel passato e cerca di trovare nuovi indizi, la polizia di Oslo ritrova i corpi di alcuni uomini rapiti e poi brutalmente torturati. All’apparenza le due indagini sembrano non essere collegate, ma pian piano emerge un quadro inquietante, in cui la stessa Marian è direttamente coinvolta. Gli assassini perseguitano anche lei e vogliono a tutti i costi impedirle di scoprire la verità. Per questo hanno deciso di farle visita proprio a casa… 

La regina del thriller norvegese è tornata

Emozionante come Jo Nesbø
Avvincente come Stieg Larsson

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Unni Lindell è una delle voci più intense e raffinate del parterre scandinavo.»
Il Sole 24 Ore

«Una combinazione di eventi eccitanti e personaggi convincenti. Un thriller ricco di suspense, in cui nulla è ciò che sembra.»
Aftonbladet
Unni Lindell
Nata nel 1957, è tra le più celebri scrittrici norvegesi. Ha riscosso un grande successo internazionale soprattutto con i suoi thriller, da cui è stata tratta anche una serie televisiva. La Newton Compton ha pubblicato La trappola, il primo libro che vede protagonisti l’ispettore Cato Isaksen e la sua giovane collega Marian Dahle, L’ultima casa a sinistra, Dolce come la morte, Il caso della donna sepolta nel bosco, La terza vittima e Il caso della bambina scomparsa.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2017
ISBN9788822709776
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    Anteprima del libro

    Il caso della bambina scomparsa - Unni Lindell

    1669

    Titolo originale: Jeg vet hvor du bor

    © 2016 H. Aschehoug & Co. (W. Nygaard) AS

    Published in agreement with Oslo Literary Agency

    Traduzione dal norvegese di Lisa Raspanti

    Prima edizione ebook: luglio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0977-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Unni Lindell

    Il caso della bambina scomparsa

    Indice

    PRIMA PARTE

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

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    SECONDA PARTE

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    69

    70

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    Nota dell’autrice

    «So che abiti dove Satana ha il suo trono».

    Nuovo Testamento, Apocalisse di Giovanni 2:13

    Mio caro, ho visto tutto. Lui era in piedi vicino al bordo, con indosso la sua uniforme; ti ha dato una spinta sulla schiena, facendoti cadere e andare a sbattere sul pavimento di cemento. Non dimenticherò mai quel suono, né il silenzio che seguì. Era insostenibile. E non avrei potuto fare niente, neppure se avessi voluto. Ma non volevo, perché lo capivo.

    *

    Aleggia un odore di marciume sugli orti. I campi sembrano una coperta fatta di pezze, ma il verde ha ormai cominciato a sbiadire verso una tonalità incolore tendente al grigio. In lontananza si odono le campane della chiesa di Sagene. Oltre la siepe scorre il traffico. La coltre di nubi è compatta, di un colore grigio perla segnato da una striscia di sole bianco che tenta di aprirsi un varco.

    La rosa canina è cresciuta velocemente quest’estate; all’inizio era carica di fiori rosa pallido, che sono appassiti lasciando il posto a sode bacche verdi, che a loro volta sono diventate rosse e poi nere, per marcire infine nella siepe. I pali dell’essiccatoio con i girasoli appassiti creano dei reticoli di ombre sull’erba ingiallita. E dietro alla piccionaia: fiori di campo, more, giorgine e ortica. Le piante però sono diventate marroni e ricurve.

    Ogni anno, prima che arrivi la neve, gli orti vengono preparati per l’inverno e l’aratro rivolta le piante nel terreno. E così le brune strisce di terra assomiglieranno a un campo dissodato fino alla prossima primavera. È in questo modo che muta continuamente il paesaggio nel corso dei secoli, in una continua serie di trasformazioni. Il gelo si incollerà come un tappeto alla terra e di notte vi risplenderanno sopra le stelle. Alcuni appezzamenti, però, sono sacri e non devono essere toccati. Tra questi quello dietro allo spaventapasseri, dove lei giace nella terra nera. Fu sepolta nuda, perché nessuno potesse riconoscerla dai vestiti. Nel caso in cui l’avessero trovata. Ma nessuno l’ha mai trovata.

    PRIMA PARTE

    1

    Due gabbiani entrarono veleggiando nel Bunnefjorden, scivolarono sull’opera di Bjørvika e andarono a sfiorare i palazzi, per poi gettarsi in picchiata e atterrare accanto a una busta per la spesa rotta su un marciapiede. I becchi robusti stracciarono rapidamente la plastica, tirandola alle due estremità, fino a ridurla a brandelli: poteva esserci qualcosa da mangiare.

    Glenn Haug camminava svelto lungo Smedgata. Era l’ora di punta del traffico mattutino e la città era piena di rumori. A lui piaceva così: chiassosa, grigia e sporca, l’aria carica di gas di scarico. Le case si sostenevano l’un l’altra, spalla contro spalla. In quel momento aveva la sensazione di regnare su Oslo. La capitale più piccola della Scandinavia era delle dimensioni giuste, un furto non significava niente per quella città. Prima che sorgesse, c’erano boschi, alberi e piante. In quello stesso luogo. Glenn sapeva di somigliare a un marinaio, camminava con le ginocchia leggermente arcuate e il berretto blu calcato sulla fronte. Le gambe erano troppo magre e i pantaloni scendevano più del dovuto lungo i fianchi. C’era stato un tempo in cui voleva fare il marinaio, ma poi era finito per le strade di quella città.

    Era l’ultima mattina di agosto. Si passò la mano sulla guancia. Il gonfiore si stava attenuando. Il tatuaggio a forma di ragnatela lo rendeva facilmente riconoscibile. Avrebbe dovuto pensarci prima di farselo fare, ma ormai era troppo tardi.

    L’incursione nella clinica per anziani di Lille Tøyen era stata un’impresa di cui andava fiero, benché quello che sognava fosse altro, starsene immobile in una strada qualsiasi, poggiato contro un muro a godersi il sole. Restare lì, fino ad arrivare al punto in cui ogni traccia di stress si dissolveva. Ma non succedeva mai.

    Entrare nella clinica era stato un gioco da ragazzi. Lui era un asso quando si trattava di introdursi negli edifici. Aveva aspettato dietro a un cassonetto e poi, mentre la notte sfumava nel giorno, la porta di servizio era stata aperta dal personale della cucina e lui era riuscito a entrare, infilando un piede nello stipite della porta prima che questa si richiudesse. Era già stato altre volte in quel posto. Aveva aspettato qualche minuto nella tromba delle scale, lasciando scivolare le dita sul muro ruvido, come se quei piccoli rilievi fossero scritte per non vendenti. Il vetro della porta era macchiato di aloni grigi lasciati dalle gocce di pioggia. Aveva aspettato finché non aveva sentito l’odore del caffè dalla ventola.

    Quel posto era pieno di vecchiette rimbambite, creature ricurve, bianche e dai capelli grigi. Gli veniva da sorridere: quando era pronta la colazione, quelle donne diventavano come i corvi che si avventano sugli animali investiti. Le stanze erano rimaste vuote. Non aveva che da servirsi. Aveva proceduto in automatico. In una stanza aveva trovato un orologio d’oro e qualche banconota. Ma pensa un po’, delle banconote su un tavolino da notte! Si meritavano davvero che gliele rubassero. Su un letto, però, c’era ancora una donna, magra come uno stecco, affondata tra le lenzuola. L’aveva fissata e le aveva afferrato il polso. Lei sembrava felice di vederlo. Gli aveva offerto il proprio braccialetto e lui l’aveva ringraziata.

    Glenn Haug attraversò la strada. Il sole del mattino gli baluginò negli occhi, inondandoli di luce. Aveva lineamenti troppo netti per passare inosservato, ma presto sarebbe arrivato l’autunno e l’oscurità avrebbe appiattito tutto. I neon avrebbero invaso le strade con i loro caratteri giganti e la neve avrebbe ricoperto l’asfalto sporco. Imboccò Åkebergveien diretto a Grønland, si infilò una sigaretta tra le labbra e la accese. Gli angoli della bocca si erano ritirati e il mento sporgeva come quello di un vecchio. Fece un lungo tiro, mentre cercava messaggi nascosti tra le scritte sui muri. La refurtiva l’aveva nelle tasche della giacca, tasche che custodivano molti segreti, tra cui il coltello.

    Una ragazzina lo guardò con enormi occhi verdi. Sapeva di non piacere a tutti, ma c’era ben poco da fare, bisognava solo rassegnarsi e stare in guardia. Quando arrivò nei pressi della stazione centrale, la sensazione di dominare sulla città di Oslo era ormai svanita. Guardò le rotaie parallele del tram nel selciato e attraversò la strada proprio davanti a un autobus, che si lasciò dietro le esalazioni del tubo di scarico. Glenn Haug inalò la nicotina del mozzicone di sigaretta, lo gettò a terra e batté la mano sul taschino, constatando la presenza del cellulare. Uno dei due cellulari. Davanti alla stazione centrale di Oslo c’era un gran brulichio di gente che veniva in città per lavorare. Sentiva che quel giorno avrebbe avuto bisogno di aggiungere qualche caramella alla solita lista della spesa. Dopo l’ultimo soggiorno in carcere, era stato costretto a partecipare a un programma di reinserimento. Lo avevano definito più pericoloso per se stesso che per gli altri. Succedeva qualcosa quando gli si oscurava la vista, nell’arco di tempo in cui passava da una catastrofica rabbia cronica a una specie di nitida sensazione di pace. Era come se il corpo venisse irrorato di veleno. E lui era pronto a difendersi.

    La sala degli arrivi era affollata, c’era gente che si affrettava in tutte le direzioni e lui venne risucchiato nel vortice. I rumori lo trapassavano da parte a parte. Era per via dei muri. Una donna, un essere brutto e sciupato con il rossetto rosso, gli andò a sbattere contro. Una banda di ragazzi immigrati non aveva niente da vendergli. «Vattene via, lurido schifoso!», gli sibilò uno di loro. Riuscì a comprare da un altro, dietro a una colonna. Le videocamere di sorveglianza non riuscivano a filmare dietro agli elementi circolari e lui pensava alle colonne come a cerchi. Tirò fuori i contanti e l’oro, come se volesse dar da mangiare a un cavallo. Fece alla svelta a scambiarli con il suo nutrimento, le anfetamine. E aveva anche bisogno di pillole per dormire. Doveva riuscire a mantenersi bene all’erta.

    La guardia somala accanto ai bagni era impegnata con una persona. Glenn Haug entrò subito dietro a uno che aveva infilato una monetina da dieci nella macchinetta, facendo alzare la sbarra. Una volta dentro, si infilò in uno dei gabinetti.

    Puzzava di piscio, come al solito. In ogni vano c’era una luce bluastra, ma non sarebbe stato certo questo a fermarlo. Aveva la torcia del cellulare. Si sentì subito pervadere da un dolce calore allo stomaco. Uscì. Ogni tensione si era annullata, era di nuovo il re. Ma eccoli ancora una volta, fuori dall’entrata principale della stazione, accanto alla grossa statua della tigre: erano loro, i due motociclisti con le tute in pelle e il casco integrale. Ebbe un sussulto e si voltò, con il sistema nervoso su di giri. Tornò dentro di corsa, risalì la scala mobile, attraversò la sala e si precipitò giù per le scale che conducevano al binario 19, urtando sul tappeto mobile una ragazza con una borsa gialla a tracolla, che gli imprecò dietro. Le giunture del pavimento metallico furono scosse da un fremito e lui cadde da una dimensione all’altra; non si poteva riportare in vita il passato scavando nella terra, lui non era mica un archeologo. Non esisteva una verità, solo diverse finzioni e versioni della verità.

    Un treno, bruno e lucido, sarebbe partito a breve dalla stazione, come il soffio di un respiro, lungo la banchina in cemento, con ruote di metallo. Riuscì a salire nell’ultima carrozza proprio mentre le porte si chiudevano. Il rumore del ferro strideva negli orecchi. Poggiando le mani sugli schienali dei sedili ai due lati opposti del corridoio, arretrò, chinò la nuca e guardò fuori dai finestrini. Con il respiro pesante, rivalutò quegli eventi sulla base del passato; più indietro di tanto non riusciva ad arrivare, se le linee si fossero incrociate, sarebbe stata la fine di tutto. Non c’era traccia degli uomini vestiti in pelle sul binario. I grattacieli a forma di codice a barre ondeggiavano come torri contro il cielo azzurro. Sarebbe dovuto scendere alla fermata successiva. Una settimana prima i motociclisti lo avevano aspettato fuori dalla pensione dove abitava. Li aveva visti dalla propria stanza al primo piano. Pioveva ed era tardi. Era sceso al piano terra, sgattaiolando fuori attraverso una finestra sul retro ed era andato da sua madre. Con la pioggia gli orti si erano trasformati in un vasto mondo color del bronzo. Si era accomodato sulla poltrona, nel capanno con la mezza parete, tirando il sacco a pelo più su che poteva. Fuori era tutto bagnato e l’erba era ricoperta da una fanghiglia marrone. Poi, però, le nuvole della notte si erano dileguate e oltre a essere umido, aveva anche cominciato a fare freddo. Gli piaceva quel buco nel muro: da lì poteva vedere quando arrivava sua madre. Sempre che arrivasse; di solito andava a portargli qualcosa da mangiare. Spuntò la luna. Nelle pozze vedeva la falce in varie versioni, mentre l’originale gettava una luce bianca sullo spaventapasseri, dietro al quale i cardi crescevano come posseduti dal demonio. Era il suo altare, quello spaventapasseri.

    2

    L’ispettore Marian Dahle gettò la giacca sulla sedia, afferrò il guinzaglio del boxer nero maculato e si fermò per un attimo davanti al vecchio mobile con il lungo specchio incorniciato nell’atrio oscuro. Erano le pareti di tronchi in legno a inghiottire la luce. Raccolse i capelli neri in una coda di cavallo. Il volto era così inespressivo e poco affabile che preferiva evitare il suo stesso sguardo. Aveva compiuto trentasette anni una settimana prima, ma non conosceva il giorno esatto del suo compleanno, perché era originaria della Corea ed era stata adottata e portata in Norvegia all’età di tre anni. Uno degli occhi era diventato ancora più sbieco a causa delle ferite dell’incidente.

    Adesso vivevano lì, lei e il cane, in un’antica casa in legno di Sophus Lies gate, a Frogner. La gente si fermava sul marciapiede ad ammirare quella villa che sorgeva in mezzo a palazzi in stile classico di cinque o sei piani. La casa era monumentale, la facciata asimmetrica e le porzioni dell’edificio si sovrapponevano le une alle altre. Era dominata da due assi laterali, uno con una torre e l’altro con una veranda sormontata da un frontone con travi intrecciate. La torre era sua.

    Birka, che aveva ormai tredici anni, ansimava stesa sul pavimento, intenta a leccarsi. I boxer erano cani affettuosi, ma ormai si rifiutava di uscire dal cancello. La casa si trovava in un giardino di arbusti incolti di circa mille metri quadri che sorgeva in mezzo ai palazzi. Sul davanti sopravvivevano un paio di alberi da frutto mezzo morti e qualche vecchio cespuglio di frutti di bosco, mentre vicino all’ingresso, accanto allo stendi panni arrugginito, c’erano grosse querce e cinquefoglie. Dei bassi muretti di sassi suddividevano lo spazio in diversi riquadri e sotto l’albero più grande sorgeva un tavolo in pietra coperto di foglie rosse e gialle. Il cane si accontentava di giocherellare in giardino, sotto le piante di lillà i cui grappoli di fiori erano ormai avvizziti. Birka si stava avvicinando alla fine, il muso era diventato interamente grigio, in alcuni punti quasi bianco. Il pensiero che il suo cane presto l’avrebbe lasciata era insostenibile per Marian. Ogni giorno che passava Birka perdeva qualcosa della propria natura di cane. E Marian perdeva qualcosa della propria natura di essere umano.

    L’argentatura dello specchio ormai vecchia era chiazzata di scuro, perciò Marian non riusciva a vedersi in maniera nitida: bocca sottile, naso piccolo e zigomi alti. Indossava un paio di pantaloni di una tuta e un maglione verde scuro. Era diventata schiva, dopo l’incidente. Le piccole rughe che si formavano intorno agli occhi quando sorrideva sarebbero rimaste per sempre coperte dalla cicatrice; l’ustione sembrava un impasto per biscotti intrecciato su un lato del viso. Si stendeva fino alla guancia e al collo, continuando sotto i vestiti, sul braccio sinistro e lungo la clavicola, per andare infine ad arrestarsi sul piccolo seno.

    Cato Isaksen le aveva telefonato svegliandola quella mattina all’alba, per proporle «un piccolo incarico per un cold case», così si era espresso. Si trattava di un vecchio caso di sparizione di cui avrebbe voluto che si occupasse, il caso Thona, uno di quelli più famosi e più seguiti dalla stampa. Per un attimo Marian aveva sentito accelerare il proprio battito: il fatto che glielo avesse chiesto era una vera e propria dichiarazione di fiducia. Ma lei aveva rifiutato. Si trattava di una bambina scomparsa in una zona verde al centro della città quindici anni prima. La Kripos¹ aveva creato una nuova unità per i vecchi casi irrisolti e la Sezione Omicidi aveva ricevuto l’ordine di mettere a disposizione alcuni dei propri investigatori. Ovviamente Cato non aveva alcuna voglia di lasciar andare dei collaboratori attivi e per questo aveva contattato lei. Erano sei mesi che Marian non lo sentiva. Non glielo aveva proposto per mostrarsi gentile, cosa che tra l’altro l’avrebbe infastidita. Marian avrebbe preferito tornare a lavorare nel pieno delle proprie funzioni, ma sapevano entrambi che non era possibile.

    Un anno prima era stata spinta nel forno crematorio di un ospedale psichiatrico dismesso da una squilibrata che stava cercando di arrestare. Era stato come ritrovarsi dentro la scena d’azione di un orrendo film poliziesco. Cato l’aveva salvata in extremis. Da allora era stata in malattia, lontana da omicidi, suicidi, cadaveri deturpati e letture di innumerevoli documenti.

    Aveva sperato di trovare un po’ di serenità in quella casa antica. I soffitti erano alti, con travi sia in orizzontale che in verticale. Quel legno vecchio ormai di un centinaio di anni emanava un aroma intenso, esaltato dal freddo. E quella era una serata fredda. Nell’appartamento accanto viveva un artista, un uomo sulla quarantina con i capelli scarmigliati e dei bicipiti muscolosi sotto la maglietta. Lo aveva visto dalla finestra. E al piano terra abitava una signora anziana. Marian viveva lì da quattro mesi, ma non aveva ancora parlato con nessuno dei due, benché avessero bussato alla porta un paio di volte. Immaginava fosse l’artista, ma non aveva aperto.

    ¹ Si tratta della polizia criminale (N.d.T.).

    3

    Andreas Lindeberg pensò all’espressione nero come la pece, quando uscì dal portone. Era così adesso, come se un velo di pece nera si stesse stendendo sulle facciate in pietra dei palazzi. Ogni cosa risultava ovattata, le crepe e lo sporco svanivano. Il portone si richiuse con fragore alle sue spalle. Le sere d’autunno avevano un sapore unico. A lui l’autunno piaceva più dell’estate e il giorno seguente sarebbe stato il primo settembre. L’estate era troppo luminosa, troppo calda, troppo trasparente, non aveva ombre, ma solo aria sottile e cielo incolore. Andreas stava leggendo le notizie sull’iPhone, ma notò comunque il motociclista sulla strada. Vestito in pelle con casco integrale, stava giusto in quel momento parcheggiando tra due macchine. Andreas lanciò uno sguardo che era più di una semplice occhiata a quell’uomo leggermente sovrappeso; certi vestiti attillati non erano necessariamente adatti a tutte le corporature. L’uomo aveva un marsupio allacciato sui fianchi e la moto era una BMW R nera. Lì a Ruseløkka la lotta per un posteggio gratuito era ardua, la gente veniva da tutto il circondario per parcheggiare in Gustav Bloms gate. Si udì un piccolo scatto quando l’uomo inserì il cavalletto. Andreas ebbe un presentimento: aveva già visto quella motocicletta, ma dove?

    Guardò l’orologio e spense lo schermo del cellulare. Sei minuti alle dieci. Il supermercato dietro l’angolo avrebbe chiuso entro pochi minuti. In quel momento gli cadde lo sguardo sulla propria immagine, che si rifletteva, grazie alla luce dei lampioni, su una finestra degli uffici dell’istituto finanziario al lato opposto della strada. Scrutò il proprio corpo snello, con la giacca a vento leggera. I jeans stretti mettevano in risalto i fianchi. Ai piedi aveva scarpe da ginnastica nuove. Aveva deciso di lasciar crescere i capelli chiari. Era un bel ragazzo e poteva permettersi di indossare più o meno quello che voleva. Era sempre stato così. Da bambino era magro e non parlava mai con gli sconosciuti. Era difficile spiegare quello che era successo, appariva tutto come una serie di immagini a brandelli. Dopo quei fatti, lui era diventato un altro. Portava un segreto dentro di sé, ma adesso aveva avuto una nuova possibilità, e un nuovo lavoro, nel negozio di articoli sportivi di Grensen. Aveva chiuso per sempre con quella rompiscatole di sua madre, che lo assillava di continuo coi compiti.

    *

    Il motociclista aveva ritirato su il cavalletto, era uscito dal posteggio e ora se ne stava dritto sulla moto con i piedi poggiati sull’asfalto pieno di buche misto a un fondo di sampietrini. Il ragazzo stava andando al supermercato, com’era sua abitudine a quell’ora. Le dita strinsero forte il manubrio. Il giorno prima era uscito con degli amici. L’adrenalina aveva un odore piuttosto intenso, per lo meno quando si mischiava al cuoio. Avevano osservato Andreas Lindeberg e Glenn Haug per un paio di settimane, facevano parte del piano. Il fratello aveva detto che quella sera sarebbe dovuto succedere qualcosa, non potevano continuare con quei pedinamenti. Capitava sempre più di frequente che uscisse incollerito a portare fuori il cane.

    *

    Nel supermercato la luce era bianca, forte, come quella dei neon in una sala operatoria. Andreas prese un carrello, anche se non doveva comprare granché. Le strisce delle réclame erano troppo intense, di un verde quasi psichedelico. Lui odiava la pubblicità, come la voce dell’uomo che su TV3 gridava che nessun idiota poteva fare a meno degli elettrodomestici Lefdal. Prese una Pepsi Max dal frigorifero, una mela nel reparto frutta e verdura, e si mise in coda alla cassa. Aveva fame, ma quando si trattava di fare la spesa proprio non ce la faceva: per lui l’aspetto fisico contava così tanto che aveva paura di ingrassare. E poi era meticoloso, nell’appartamento regnava un ordine maniacale e c’era odore di vernice fresca.

    La donna in fila davanti a lui aveva con sé un bambino rompiscatole che le stava aggrappato all’impermeabile e che avrebbe dovuto essere a letto da un pezzo. Ad Andreas i mocciosi urlanti non piacevano. Attraverso la vetrina vide un furgone scuro costeggiare il marciapiede e fermarsi, mentre il motociclista di poco prima gli si accostava. La portiera si aprì e gli uomini scambiarono qualche parola.

    I giornali erano in mostra sull’espositore. Il quotidiano finanziario «Dagens Næringsliv» aveva schiaffato in prima pagina la notizia che le ricchezze petrolifere della Norvegia stavano finendo dritte nel cesso. L’«Aftenposten» riportava il titolo Il museo di Munch rischia il crollo, ma dava anche risalto a un grosso articolo sull’Isis e l’ondata di profughi che si stava riversando sull’Europa. Il «VG» aveva argomenti ben più importanti da mettere in primo piano: Ecco perché ho scelto il silicone e Come migliorare la vostra vita sessuale.

    La ragazza alla cassa sollevò lo sguardo su di lui, rivolgendogli un fugace sorriso. Lui le chiese le sigarette e in cambio ricevette una tesserina.

    Suo padre era passato dall’appartamento quel pomeriggio. Gli piaceva vedere che suo figlio teneva tutto in ordine, queste erano le cose che contavano per i genitori. Era un appartamento piccolo ma grazioso, tutto bianco, con tanti bicchieri su una mensola sopra la cucina. Il fatto che avesse lasciato la scuola era stato uno shock per i suoi genitori. Andreas capiva la madre e la sua delusione. Non è perché è una signora snob. Una nauseante sensazione di vergogna lo assalì. I suoi genitori si erano insospettiti quando aveva lasciato il secondo lavoro, ma non ne sapevano il motivo. Aveva diciotto anni, era maggiorenne, perché mai aveva ancora tanta paura dei genitori? Non era mica un robot programmabile a piacimento.

    Prese il pacchetto di sigarette dal distributore vicino alla porta, poi uscì. Rimase per un istante nel quadrato di luce della vetrina del supermercato. Il furgone era sparito.

    Passò un tram e Andreas attraversò la strada; in pochi, grossi morsi mangiò la mela e gettò il torsolo nel vaso di una pianta di plastica collocata di fronte a un centro commerciale. Poi svitò il tappo della Pepsi Max e ne bevve qualche sorso. Quel giorno al lavoro si era sentito stanco e aveva avuto la nausea, perché la sera prima era uscito con degli amici. Erano andati al locale gay London Pub, ma alla fine erano stati scoperti e buttati fuori, mentre ridacchiando e urlando inserivano le monete nel juke-box per la quinta volta. Avevano messo Gimme! Gimme! Gimme! A Man After Midnight degli Abba. E non erano omosessuali. Sentì il trillo di un SMS in arrivo ed estrasse il telefono dalla tasca. Era uno degli amici del giorno prima, che voleva che uscisse con loro anche quella sera, ma questa volta Andreas declinò l’invito. Il mattino dopo doveva lavorare.

    4

    Andreas si incamminò verso il portone d’ingresso con la grata di volute in ferro battuto davanti al vetro. Notò che il motociclista era di nuovo parcheggiato dietro una macchina. Forse stava aspettando qualcuno? La visiera era ancora abbassata. Estrasse la chiave dalla tasca dei pantaloni, aprì il portone ed entrò come se niente fosse, ma la sensazione di poco prima, di qualcosa che non ricordava, era riaffiorata. Ovviamente Andreas non fumava mai in casa e ora sentiva il bisogno di una sigaretta prima di salire di sopra. Il portone stava per richiudersi, quando il motociclista lo riaprì con forza, spingendolo con entrambe le mani. Più tardi Andreas si sarebbe ricordato di quell’istante: il portone che si era quasi chiuso, prima che l’uomo lo riaprisse come un cowboy che entra in un saloon. Restò per un attimo sulla soglia e l’attimo dopo era dentro. Il colpo del portone che si richiudeva e della serratura che si bloccava creò un’eco nell’atrio, nel cortile e oltre, come una biglia che rimbalza contro un muro. I palazzi con la loro mole si innalzavano a formare una specie di pozzo nel cortile con l’asfalto bucherellato. Alcune finestre si illuminarono.

    L’uomo gli si parò davanti. Andreas sorrise istintivamente, ma l’atmosfera non era quella giusta. Posò la bottiglia a terra, poggiò la schiena ai pannelli grigio-azzurri che rivestivano il muro fino a metà altezza e si infilò svelto la sigaretta in bocca. Poi porse all’altro il pacchetto. Erano le dieci e cinque.

    L’uomo aprì un piccolo spiraglio nella visiera. Non voleva fumare.

    «Potresti darmi una mano giù in cantina? Ci sono stati i ladri». La voce era fredda e attutita.

    «Lo stai chiedendo a me?», disse Andreas.

    «Ho bisogno d’aiuto». La voce aveva un tono stridulo, come nei ragazzi che hanno appena passato la pubertà. Tradiva un certo nervosismo. La placca di lamiera ondulata avvitata dietro alla rimessa per le biciclette emise uno schianto secco. Il sole l’aveva riscaldata e fatta espandere nel corso della giornata, ma ora c’era solo la luce artificiale dei lampioni e l’aria era rinfrescata. Doveva esserci una finestra aperta, perché tra i palazzi risuonò la risatina isterica di una bambina.

    «Mi sono appena trasferito. Abito in un monolocale e non ho una cantina». Andreas era stato nello scantinato una sola volta, giusto per vederlo, e così sapeva che c’era un passaggio che conduceva al palazzo accanto. Nel corridoio tra le cantine c’erano delle scatole lucide di veleno per topi. La porta d’accesso era nel cortile sul retro. Schiacciò la sigaretta sotto la scarpa e si voltò per salire le scale. Quella era casa sua. Fu allora che gli arrivò un pugno sulla schiena.

    *

    Sbatte lo zigomo contro la parete in muratura e le ginocchia cedono di colpo. Si accascia e cerca di proteggersi come può, mentre il ritmo delle pulsazioni cambia. Gli cade il pacchetto delle sigarette e la bottiglia si rovescia. Il motociclista lo afferra per il braccio e lo tira su, poi con l’altra mano apre il marsupio e ne estrae un coltellino. Andreas lo intravede di scorcio, ha una lama ricurva ben affilata. Un braccio gli cinge la gola e con uno strattone lo trascina all’indietro. Il manico in legno del coltello è freddo sulla pelle del collo. La paura è un nodo che gli si stringe nel petto. Sente l’odore della tuta di pelle, un aroma acre di cuoio e olio. Il motociclista gli intima sibilando di tenere la bocca chiusa e gli flette il braccio dietro la schiena, tanto che Andreas si solleva sulle dita dei piedi per il dolore. L’uomo indirizza la punta del coltello alla nuca e lo spinge verso il cortile sul retro, tra le piante in vaso e il salice.

    Andreas alza lo sguardo verso la finestra aperta, ma non c’è nessuna ragazzina in vista. Sente l’eco del proprio urlo tra i muri del cortile, ma è fiacco, privo di forza. «Tieni il becco chiuso», gli intima l’uomo con una voce in falsetto. Viene sospinto verso la porta della cantina, incapace di pensare. Sul muro ci sono dei graffiti, scritte arancioni, viola e nere. L’uomo spalanca la porta e lo spinge giù per la ripida scala con i gradini di legno marcio, dove lui per poco non inciampa. Un maniaco, un pazzo furioso. Il panico scorre come elettricità nel corpo. C’è odore di terra, muffa e polvere di intonaco; le luci al neon del soffitto scrostato si accendono in automatico con un clic, una dopo l’altra, mentre loro si addentrano nel corridoio sporco, dove il sale ha disegnato strisce bianche sui muri. Ci sono file di trappole per topi: nelle fognature di Oslo i ratti sono centinaia di migliaia. Andreas cerca il cellulare in tasca. Con le braccia ben aderenti al corpo, prova a digitare un numero, uno qualsiasi, il primo della rubrica. O il centesimo, non fa differenza. In alcuni punti il soffitto è così basso che sono costretti a chinarsi. Dei tubi di ventilazione rotondi corrono lungo le pareti. In tutto il corridoio ci sono rimesse delimitate da reti, piene di scatoloni, lampade, sci e biciclette.

    Andreas sta sudando freddo, ha le mani umide e il cellulare gli scivola, finendo per terra. Il motociclista gli pianta una gamba nei reni, lo spinge in avanti e dà un calcio al cellulare, che scivola sotto una delle recinzioni, dentro una rimessa. Nel telefono non ci sono app superflue, niente Twitter, applicazioni per lo shopping, né GPS, le ha dovute togliere tutte. Arrivano a una porta in ferro dipinta di grigio con una maniglia a leva. L’uomo la abbassa e lentamente la porta si apre, con i cardini che cigolano. Poi spinge Andreas nell’oscurità. Una zaffata di aria putrida da sotterraneo li avvolge, prima che la porta si richiuda con un rombo pesante.

    *

    Alla ricerca febbrile di un interruttore, Andreas si graffiò le nocche delle mani sulla parete ruvida. La testa gli ronzava come una centrale elettrica. Per poco non cadde su qualcosa, ma riuscì a restare in piedi. Poi trovò l’interruttore e lo sollevò. Era un rifugio antiaereo, ed era vuoto, fatta eccezione per due scatole vicino alla porta. La stanza era all’incirca di quindici metri quadri. Sapeva che il palazzo era del 1887, ma il rifugio sembrava nuovo. Sentì il telefono che squillava nel corridoio, un suono lontano, oltre la porta in ferro. Il suo sguardo fu catturato per un attimo dalle cifre digitali dell’orologio. Segnavano le 22:30:09.

    In un attimo ricordò tutto: quella notte era sopraggiunto un furgone, in Rosenkrantz’ gate, mentre tornava a casa dal London Pub. I fari anteriori lo avevano accecato, dentro sedevano due uomini con il casco. Si era guardato più volte alle spalle, con la sensazione che stesse arrivando qualcuno che voleva aggredirlo. La memoria era collegata all’ippocampo, una regione del lobo temporale, era l’ultima cosa che aveva studiato a scienze prima di lasciare la scuola.

    Quel ricordo era come una macchia nera nella coscienza. Si trattava dello stesso furgone che era fuori dal supermercato poco prima. Provò a gridare, ma non uscì neanche un suono. Benché ogni parte del suo corpo urlasse, quel grido restava muto. Gli piacevano le scienze. Da bambino voleva fare l’astronauta, volare lontano dalla Terra, vedere i paesaggi e il mare a strisce bianche e blu. Fluttuare nello spazio, a una distanza infinita. E ora, invece, era .

    Sentì un risucchio in un tubo che scendeva dal soffitto verso il pavimento. Fu l’unico rumore. Sopra la porta dei ragni morti color sabbia pendevano da una ragnatela. Le porte come quella era fatte apposta per non avere serrature. Forse il motociclista era lì fuori? Andreas posò la mano sulla pesante leva metallica e la spinse lentamente verso il basso.

    5

    Marian mise la legna nella stufa e la accese. Parlare con Cato l’aveva scombussolata. Aveva preparato il fuoco nella stufa rotonda addossata alla parete, accanto alla scala in acciaio che portava al piano di sopra, alla camera da letto dentro la torre. Era una stufa alta, dentellata sulla cima, come se fosse nientemeno che la regina lì dentro. La sensibilità e il senso dell’olfatto si erano acuiti dopo l’incidente nel forno crematorio. Non le piacevano le fiamme vive, non accendeva più neppure le candele. Tutto considerato avrebbe dovuto vivere in una casa in muratura e non in una delle più vecchie case in legno di Oslo, ma aveva comprato quell’appartamento per sfuggire al passato e lì aveva ricominciato la propria vita da zero.

    Della bambina di sei anni scomparsa nel 2001 avevano sentito parlare tutti, ovviamente. Le sembrava quasi di vedersela davanti, con i capelli chiarissimi e gli occhi azzurri. La sua foto era circolata su tutti i media negli anni successivi alla sparizione, tanto che aveva quasi l’impressione di conoscerla. Se non ricordava male, giocava con una bambina della sua stessa età in un grande giardino.

    Il calore delle fiamme le dava la sensazione di punture sulla mano. In un baleno le tornarono alla mente tutti i dettagli dell’incidente nella fornace: il ronzio della ventola, il calore che le copriva il viso come un tappeto soffocante, le volute di fumo nerastro che si avvolgevano in spirali sopra di lei; il senso dell’udito annientato e i polmoni che si riempivano di fumo rovente, prima che tutto scomparisse in una luce bianca.

    Richiuse lo sportello della stufa e sollevò lo sguardo verso la camera da letto, verso il tetto alto di quella torre che sembrava quasi il campanile di una chiesa. I ripidi gradini in acciaio che portavano di sopra sembravano più una scala a pioli che non una vera e propria scalinata.

    L’appartamento era quasi del tutto privo di pareti divisorie interne, c’erano solo una grande stanza con un delizioso angolo cottura in quercia, un bagno rimodernato e l’ingresso. Il grosso tavolo da pranzo sbilenco l’aveva seguita nel trasloco, ma il divano era nuovo, beige e soffice. Ai muri erano appesi un paio di poster dai colori chiari.

    Prese una confezione di uova dal frigorifero piuttosto spoglio. Avrebbe dovuto optare per un’alimentazione più varia. E le uova in realtà non sarebbero dovute stare in frigo.

    Guardò fuori dalla finestra all’estremità del bancone della cucina, nel giardino buio. Le assi del pavimento erano fredde sulle piante dei piedi. Dall’appartamento vicino giungevano della musica e delle voci: l’artista aveva di nuovo delle visite. Era una persona socievole, qualche volta se ne stava sulla veranda a fischiettare. Marian non voleva conoscerlo

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