La pelle dal mare
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La società dopotutto è attraversata da sentimenti di odio che solleticano la pancia della gente. Gruppi come i Cleaners! vanno in giro indisturbati per le città assaltando campi rom e negozi di stranieri. Si sentono i veri giustizieri della società. Ma anche nelle alte sfere del potere c’è chi lavora per un progetto politico incentrato sulla lotta totale all’immigrazione. TPE (The Perfect Europe) è un partito ambizioso che deve a tutti i costi accrescere il suo consenso.
Eppure di fronte a programmi così folli ed estremisti c’è chi combatte, voci fuori dal coro, come Bartolomeo Isola, medico che non perde un momento pur di operare e salvare vite umane nell’ospedale di Napoli. Anche Dacia Chevalier, sua amica da quando erano al liceo, fa la sua parte come insegnante, cercando di far riflettere i suoi studenti sulle tragedie del mare, come quella capitata a Dilal, arrivato sulla penisola italiana senza moglie e senza la sua amata figlia Amali. Giacomo Giugni è l’altro protagonista del trio di amici che non vuole sentir parlare di Europa razzista e intollerante. Dopo essersi separati e aver seguito ciascuno la propria strada, Bartolomeo, Dacia e Giacomo sono pronti a una nuova sfida, in nome della loro vecchia amicizia e della solidarietà per chi merita una vita migliore.
Gino Giaculli, giornalista, vive e lavora a Napoli. È vice redattore capo del “Mattino”. Nel 1996 è stato inviato a Sarajevo per raccontare il periodo postbellico della Bosnia-Erzegovina. Nel 2013 ha pubblicato il suo primo romanzo, Il Mestiere di Carta (Homo Scrivens), nel 2016 il secondo, L’ombra e la notte (Homo Scrivens). Ha inoltre pubblicato racconti per diversi editori italiani. Ha condotto su “Il Mattino web Tv” la rubrica di interviste ExPress. Il caffè con i napoletani. Dal 2018 conduce sempre su “Il Mattino web Tv” la rubrica letteraria di incontri con gli scrittori Maddalena. Nel 2019 ha ricevuto il premio di giornalismo Giuseppe Calise.
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Anteprima del libro
La pelle dal mare - Gino Giaculli
Taupin)
PREFAZIONE
di Massimo Ranieri
Tra le onde del mare, uno dei drammi contemporanei, un naufragio di migranti, apre questa storia. Da artista, che canta e recita, non posso non restarne ancora una volta colpito. Non posso non rifletterci insieme a tutti coloro che si lasciano interrogare dalle vicende che la vita porta ogni giorno dentro le case. Sfogliando le pagine de La pelle dal mare di Gino Giaculli, ne ho seguito da vicino le tematiche che si accompagnano a sentimenti profondi come quelli contro ogni forma di razzismo.
In questo libro c’è un ruolo importante per l’arte. Il mio mondo. Nelle radici di alcuni dei protagonisti ci sono le tracce lasciate dall’ascolto di artisti, di band, di brani, di album famosi. Così canzoni e cantanti, tra i quali Gino Giaculli ha inserito anche me, creano nei personaggi emozioni forti, attraverso un carattere che la musica possiede dentro la sua natura fin da quando nasce: non avere frontiere.
Tante volte ho cantato con artisti internazionali: abbiamo cercato e voluto la contaminazione di voci e di stili persino affrontando alcuni classici della canzone napoletana. Un modo per offrire al pubblico un altro tipo di emozione, altre sonorità, delle suggestioni e dei richiami che provengono da culture, da rive e terre più lontane, da altri continenti. Ne sono nati suoni nuovi, orizzonti da esplorare e verso i quali spingere la passione e la conoscenza.
E l’autore fa incontrare spesso, nei suoi lavori, le vicende musicali e umane con cronaca e fantasia. Lui ha, peraltro, una più che autentica passione per i Pink Floyd ai quali ha affidato altre volte la missione di donare ritmo
sonoro alle sue storie.
Ma un altro ruolo chiave in questo libro viene affidato al cinema, a pellicole dal contenuto che fa riflettere, a momenti unici destinati ad incidere nell’avventura di tre ragazzi nati a Napoli nel loro diventare adulti, nel loro incontrare persone venute da lontano e storie del bisogno, nel provare poi tutti insieme a cambiare le cose.
Donne, uomini e bambini raccontati in questo romanzo si tengono spesso per mano, soffrono ma si abbracciano con un affetto profondo, che non conosce differenze, che viaggia al di là del mare come al centro dell’Europa, che guarda sempre verso l’orizzonte.
Storie di persone, di cuori che non lasciano da soli.
Ogni sera, quando è il momento di andare in scena, quando le luci in sala si spengono e salgo sul palco, abbraccio con la passione delle canzoni e della musica tutta le gente che è venuta.
E non la lascio più.
1
IL MIO NOME
È mattina.
È arrivata di colpo.
Alta.
Minacciosa.
Poi spietata.
Orribile.
La morte.
L’hanno vista.
L’hanno capita.
La morte ha deciso che li avrebbe presi.
Se li è presi.
Perché comanda lei.
Perché loro non dovevano stare lì.
In mezzo al mare ad ottobre.
Ma non avevano scampo.
Una sola scelta: scappare.
La politica la chiama emergenza.
O problema.
I media lo chiamano allarme.
Pochi la pensano sfida.
La Chiesa li chiama fratelli.
Per il mondo sono flussi migratori.
La criminalità li chiama euro, dollari.
I caporali
li chiamano pomodori.
O arance.
E io questo potevo pure… essere.
Mi stava bene.
A me, venuto dal Gambia.
Ci stava. Sì, che mi chiamassero anche arancia, pomodoro.
O con il mio nome.
Dilal.
Poi la morte è arrivata.
Onda del mare.
E se li è presi.
Un solo attimo, il gommone si è ribaltato.
È scoppiato.
E se li è presi.
Ora è notte.
Intorno a me non sento più nessuno.
Non vedo più nessuno.
Mi stringo a un pezzo di gomma della carena.
Tremo dal freddo e sono terrorizzato.
Ma è ora qui, nel silenzio, che sento il mio vero nome.
Niente.
2
FLÛTE
La località non è molto nota. L’attività che vi si svolge avviene in piena riservatezza. Anche perché i clienti facoltosi e miliardari di questo istituto non amano diffondere di averlo frequentato. Se hanno curato lì la propria immagine preferiscono che non si sappia in giro. Che non ce ne sia traccia. Clinica dermoestetica Pelle adesso
, secondo piano, studio del direttore generale Curd Schmaltz. È mezzogiorno.
L’euforia è al massimo.
«Un flûte di bianco freddo?».
«Sì, grazie mille. Amo il bianco».
Sorrisi larghi.
«Professor Glasser, si rende conto dell’importanza della sua scoperta?».
«Certo. Certo dottor Schmaltz».
«Adesso che la clinica potrà brevettarla…».
«Lei guadagnerà milioni signor direttore».
«Anche lei, caro professore».
Tin, i calici si sfiorano sui bordi di cristallo finissimo.
Tin, ancora.
Appena percettibile un suono di deglutizione.
Si beve di gusto, attimi di puro relax.
I due guardano dall’enorme finestra le cime delle montagne innevate.
Bianche. Bianchissime. Immacolate.
Accecanti nel loro candore.
Non sono lontani da celebri località.
Sono nel cuore dell’Europa.
«Gradisce ancora?».
«Sì, sì», risponde Adon Glasser, chirurgo di fama mondiale, dando un colpo con le dita all’ampia frangia ancora bionda che cala ogni tanto a creare un velo bizzarro su quel viso peraltro perfettamente abbronzato e che evidenzia una dentatura di un bianco abbacinante. Chissà perché i professionisti famosi sono spesso anche molto belli. Affascinanti. Riposati nelle membra. I gesti misurati, eleganti, quelli giusti. E come non aggiungere, nel caso di Glasser, quel tocco di glamour di un portachiavi tempestato di diamanti con il logo inconfondibile dell’auto. E la sua vettura è l’invidia di tutta la clinica: una coupé che è una belva, parcheggiata nel grande cortile dell’istituto, grigio fiammante, con le rifiniture e il frontale cromati. Un gioiello da corsa. Muscoloso. Il simbolo della forza, del successo di questo professionista, della sua evidente affermazione, lui così sbarazzino e provocante in camicia di lino bianco aperta sul petto, con la cintura in pelle di pitone che sostiene un raffinato ed aderente jeans.
Il percorso medico di Glasser è stato segnato da una regola: Chirurgia aggressiva, massimo rischio, massimo risultato, guadagno stellare
, Adon ha improntato tutta la sua vita alla spregiudicatezza. Eppure, negli anni, le sue tecniche chirurgiche erano diventate assai discusse. Moltissimi i colleghi in camice bianco che avevano preso le distanze da lui, da quelle procedure di intervento così invasive e azzardate.
E Schmaltz non è da meno.
Orologio d’oro e brillanti al polso. Sguardo magnetico. Di chi con le sue espressioni convince. Dà sicurezza. Gli occhi azzurri, straordinariamente azzurri, meravigliosi a spaccare la silhouette di un fisico scolpito dai muscoli evidenti. Come si addice al direttore di una clinica prestigiosa. Capelli folti e nerissimi, divisi dalla riga centrale a disegnare due morbidi comparti appena abbondanti che – di fatto – sobbalzano ad ogni suo passo dandogli ancora più fascino giovanile, come se non fosse già bastato il suo oltre un metro e 90 di altezza, il suo torace ampio ed in generale una forma fisica straordinaria che dona autorevolezza di per sé, avvolta nel camice perfettamente bianco, perfettamente stirato, dal cui taschino fanno capolino quattro stilografiche con il pennino d’oro. Oro massiccio anche ai polsini della camicia celeste che spunta dalle maniche del camice, sono due monete. Oro ancora per il fermacravatta che tiene in ordine il pregiatissimo nastro di seta italiana che fascia il colletto botton down della camicia Oxford, realizzata da una esclusiva sartoria londinese. D’oro è il prestigioso accendisigari con cui il direttore gioca quasi con noncuranza, passandolo da una mano all’altra.
«Adon, vedrà. Avremo tempo per comunicare alle riviste scientifiche la sua scoperta. Ma, secondo me, si tratta di un qualcosa che travalica la scienza».
«Addirittura…».
«Certo. Il mondo sarà diverso, mi creda».
I flûte si cercano.
Di nuovo si incontrano.
In questo universo asettico.
E immacolato.
Le mani bianchissime di Schmaltz e Glasser si accostano, celebrano questo – a loro dire – nuovo successo.
«Dovremmo dare un nome appropriato al prodotto, al processo».
«Ci ho già pensato professor Glasser, anzi stavo per parlargliene perché poi questo rientra proprio nei miei compiti».
«Direttore, non mi tenga sulle spine. Ha già il nome? Come vuole chiamarlo?».
«Si potrebbe chiamare Meleucon, una specie di nero e bianco
. Le piace?».
«Meleucon. Lo adoro».
3
1973. GIACOMO
Allora, diciamocelo subito: ho tredici anni e sto vivendo un’estate musicale pazzesca. Credetemi, sarà che sono un ragazzino. Ma il rock che c’è quest’anno è favoloso. Fa-vo-lo-so! Sì lo so, a Napoli in questi giorni c’è la grande paura del colera. È vero, ma io sono al calduccio: figlio di una famiglia italiana tipo. Padre solido, democristiano, moralmente timorato. Madre lavoratrice, sì mia madre lavora, e ancora oggi nel 1973 non sono tante le donne che lo fanno, sorella che ha finito il quarto ginnasio e vive i suoi primi amorazzi. A lei piace più la disco. Mah, comunque ad essere sinceri la disco in fondo piace anche a me. Io non sono di quelli snob. Però lei va già a ballare. E io no.
Va bene. Papà e mamma ci hanno portato fuori Napoli, a Rivello in Lucania, «là stanno sicuri», dicono. Montagna, aria buona, insomma nessun rischio, neanche col cannocchiale, di prendere il colera. I miei genitori hanno sempre questa fobia un po’ strana, prevenire, fare le scorte. Per esempio loro pensano sempre prima, sempre in anticipo. E, spesso, al peggio. Temono che ci sia un’altra guerra e che possa arrivare anche qui, in Italia, oltre il Medio Oriente e il Vietnam che impazzano su tutti i giornali. E i miei così riempiono il frigo di scatolette di tonno, lo stipo di freselle, marmellata, minestroni Knorr, riso, confezioni di fagioli, di lenticchie, bottiglie di olio…
I telegiornali mi fanno una rabbia. Guerre. Parlano sempre delle guerre. I notiziari non parlano mai di musica. Eh figurati! Meno male che almeno parlano della luna. Quattro anni fa sono stato tutta la notte inchiodato alla tv con papà, mamma e mia sorella. La luna, anche l’anno scorso a dicembre gli americani ci sono andati. Chissà se ci tornano ancora. Papà e mamma questa primavera sono stati in America. Sì, New York. Papà è intervenuto all’ONU, all’Onuuuu. Ha conosciuto il vicepresidente degli Stati Uniti. Ci ha parlato. E io non mi stanco mai di ascoltare i suoi racconti. È un altro mondo. Che mondo quello che racconta papà. Lui e mamma descrivono l’America come il Paradiso… Dove tutto è possibile. Tutto è grande. Più grande. Tutto è facile. Più facile.
E così sta passando questa estate. Calcisticamente siamo stati… insomma. Il Napoli del mister Chiappella con Bruscolotti, Juliano e Canè, con Carmignani e Pogliana, con Improta e Vavassori ha chiuso al nono posto. Però… però a leggere i giornali per la prossima stagione 1973-1974 stiamo allestendo uno squadrone, abbiamo comprato un altro brasiliano: Sergio Clerici, abbiamo preso Braglia. Sarà un gran campionato. E brasiliano è anche l’allenatore: Luis Vinicio. Nel Napoli è già stato un grande da calciatore, ma io non c’ero allora. Comunque con Vinicio sarà un’altra musica. Vedrete.
«Giacomuzzo, Giacomoooo. Hai preso il giacchettino?».
Ecco, è mamma. Mia madre. Ha una fissa con questo benedetto golfino. Si deve portare dietro anche ad agosto.
Va bene dai, mamma ha scoperto le carte.
È il momento di presentarci.
Ciao a tutti. Io sono Giacomo, Giacomo Giugni.
Ho appena terminato le medie.
Per me, questo è stato un anno chiave.
E anche l’educazione che sto ricevendo è destinata a restare in me.
Nei telegiornali seguo sempre Arrigo Levi e Tito Stagno.
La loro conduzione televisiva lascia senza fiato.
Le notizie che stanno dando non solo le leggono.
Le sentono
dentro.
Se uno di loro parla di Egitto e Israele tu sei con loro in Egitto e Israele. Tu vedi
Egitto e Israele nelle loro parole.
Se Stagno parla della Luna la Luna te la fa toccare
. Stagno ti porta dentro lo schermo.
Adesso nelle radio va fortissimo Claudio Baglioni: Gira che ti rigira amore bello. Sì, certo l’album della Camilla, la Citroën 2 Cavalli. Del successo sterminato di Amore bello, ma è troppo romantica per me. Oh, io sono piccolo. Preferisco, e che ve lo dico a fare, il retro del suo 45 giri W l’Inghilterra: Claudio tenta l’approccio con una autostoppista che lo manda affa… E saggiamente lui dirà «ma non era la regina Elisabetta». Basta, mi devo decidere con questi italiani.
A proposito. C’è un napoletano di