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Blackout (eLit): eLit
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E-book253 pagine3 ore

Blackout (eLit): eLit

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Info su questo ebook

FUORI DALLA RETE 1
E se il mondo si spegnesse? Così, all'improvviso, mentre con il tuo migliore amico stai gustando una tazza di zabaione caldo davanti al telegiornale della sera... è ciò che scoprono dolorosamente Arden e John quando la loro città è rimasta senza elettricità, con radio e smartphone spenti e tutte le sicurezze cui le persone sono abituate azzerate precipita in pochi giorni nella violenza e nell'anarchia. Appena comprendono sgomenti che non si tratta di un blackout temporaneo e che l'acqua e il cibo sono destinati a esaurirsi in breve tempo, così come l'umanità e la compassione della gente intorno a loro, i due decidono di affrontare un pericoloso viaggio per raggiungere la baita della famiglia di John vicino al confine canadese. Lì, accolti dai fratelli Gabriel e Maggie, trovano rifugio, calore e scorte alimentari, ma anche una relativa quiete che offre spazio alla paura per l'ignoto e alla preoccupazione per il futuro. E mentre l'iniziale ostilità tra la battagliera Arden e lo scontroso e sexy Gabriel si trasforma in forte attrazione, i quattro ragazzi scoprono che nessun posto, nemmeno il più isolato, è ormai sicuro...
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2016
ISBN9788858949061
Blackout (eLit): eLit
Autore

Alyssa Cole

Alyssa Cole è un’autrice bestseller del New York Times e USA Today. Quando non scrive, ama guardare anime giapponesi e strapazzare i suoi animali domestici.

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    Anteprima del libro

    Blackout (eLit) - Alyssa Cole

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Radio Silence

    Carina Press

    © 2015 Alyssa Cole

    Traduzione di Patrizia Pulcina

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5894-906-1

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    1

    Oddio, quanto sangue.

    Qualcuno mi aveva appena strappato la mazza da baseball Louisville Slugger dalle mani e lo zaino dalle spalle, e mi torceva le braccia dietro la schiena, ma il mio sguardo rimaneva fisso su John, steso immobile sul terreno gelato.

    Intrisa del sangue che fuoriusciva dalla ferita a una velocità impressionante, la neve gli formava una specie di corona di fanghiglia rosa intorno alla testa. I capelli, folti e neri, gli erano finiti davanti al viso, e in quella luce fioca del tramonto, invece che sporchi di sangue, sembravano quasi impomatati con un macabro gel.

    Nonostante la temperatura molto al di sotto dello zero e il freddo pungente che entrava nelle ossa, cominciai a sudare. Dopo mi venne la nausea, poi le vertigini. Accecata dal biancore della neve mi sembrava quasi che le conifere, che fino a poco prima mi avevano offerto riparo, ora stessero per crollarmi addosso.

    Quando la corrente era saltata, seguita dal riscaldamento e dall’acqua, avevo cominciato a preoccuparmi. Quando la nostra scorta di cibo aveva iniziato a scarseggiare e avevamo deciso di farci a piedi un centinaio di miglia per raggiungere la baita dei genitori di John, vicino al confine con il Canada, me l’ero letteralmente fatta addosso. Ma ciò che provai nel trovarmi davanti il mio migliore amico che si dissanguava fu vero e proprio terrore.

    Scrollai la testa e ingoiai qualche boccata d’aria fredda. Non dovevo svenire, anche se quella pozza di sangue si allargava a vista d’occhio e le gambe e le braccia di John avevano assunto una posizione del tutto innaturale.

    Vederlo così inerme era una cosa insopportabile. John era come uno di quei giochini con la carica a molla che non stanno mai fermi, sempre in movimento. A qualcuno dava fastidio, a me invece piaceva; mi era piaciuto fin dal primo momento, quando sulla porta di casa mi aveva squadrata dalla testa ai piedi come se fossi io a dover andare a vivere nel suo appartamento, e non viceversa. Mi aveva sorriso e stretto la mano con molta più forza di quanto suggerissero quelle spalle da uccellino, e mi aveva avvertito: «Sono un maniaco del controllo, perciò molto probabilmente vorrò occuparmi delle bollette e scegliere le scarpe che ti metterai, se mi gira. Ma questo non ha niente a che vedere con il fatto che sono asiatico e gay».

    «Be’, io a volte mi arrabbio senza motivo e adoro il pollo fritto» avevo ribattuto. «E non perché sono nera, ma perché la gente è fastidiosa e il pollo è troppo buono.»

    «Bene, Arden, saremo i migliori coinquilini della storia» aveva concluso elettrizzato, abbagliandomi con il suo sorriso da Stregatto. «Le nostre memorie si intitoleranno Pollo fritto e Kimchi: una storia d’amore. Già me lo immagino!»

    «Sembra che tu e il tuo amico vi siate persi» disse l’uomo che aveva steso John, riportando la mia mente all’orrenda scena di cui, senza volerlo, facevamo parte.

    Sudici capelli biondi e sfibrati gli uscivano da sotto il berretto di lana blu e, sebbene fosse di corporatura robusta, indossava un cappotto di almeno una taglia più grande. Si slacciò una fionda pieghevole dal braccio e se la infilò in tasca. Sembrava impossibile che quell’aggeggio così fragile avesse potuto causare una ferita così grave, ma la pietra che aveva colpito il cranio di John doveva essere bella grossa.

    Con un piede, Berretto Blu lo girò su un fianco: aveva le labbra cianotiche e la neve gli incrostava i quattro peli radi che si ritrovava al posto della barba. Pochi minuti prima aveva le guance rosse per lo sforzo e ora sembrava un cadavere congelato.

    Mi prese il panico. Cercai di divincolarmi dalla presa dell’altro uomo che mi teneva per le braccia, ma lui con un calcio dietro le ginocchia mi fece quasi cadere a terra, la schiena che si inarcava dolorosamente. Non ne voleva sapere di mollarmi. Mi dibattei ancora, nonostante il male, ma senza successo, e alla fine parlai.

    «Il senso di orientamento va a farsi fottere se stai morendo di fame e di freddo.» Era passato qualche secondo tra la considerazione di Berretto Blu e la mia risposta. Ragionavo a fatica e riuscivo solo a pensare che dovevo raggiungere John a qualunque costo.

    Berretto Blu mi concesse l’onore di un’occhiata penetrante. Avevo catturato la sua attenzione, ma non per il motivo che speravo. Sentivo il suo sguardo scivolarmi addosso e capii che la mia voce aveva rivelato ciò che il piumino e l’ampio cappuccio avevano tenuto nascosto fino a quel momento.

    «Entrambi conosciamo bene la fame e il freddo, dolcezza. Abbiamo fatto a meno di un sacco di cose da quando è mancata la luce» rispose con un tono viscido e insinuante, che prima la sua voce non aveva.

    «Non abbiamo nessun oggetto di valore» dissi riprendendomi lentamente dallo stato confusionale in cui ero caduta. «Abbiamo solo un po’ di noccioline. Lasciateci andare, ognuno prosegue per la sua strada e facciamo finta di non esserci mai incontrati.»

    Quando Berretto Blu gli afferrò lo zaino e glielo sfilò, la testa di John ciondolò da una parte all’altra, poi lui ricadde nella neve come un burattino che alla fine dello spettacolo si accartoccia su se stesso. Nel petto sentii montare chiara e forte la rabbia, alimentata dalla consapevolezza che non potevo fare altro che restare a guardare impotente quella scena. Rimasi immobile. La voglia di liberarmi e scappare era enorme, ma dimenarmi non avrebbe fatto altro che rendere la presa del mio aguzzino ancora più stretta.

    «Siamo solo due persone che cercano di sopravvivere, proprio come voi» continuai nella speranza di suscitare in loro un minimo di umanità, ma Berretto Blu non mi ascoltò neanche, intento com’era ad aprire cerniere e saccheggiare lo zaino del mio compagno.

    John e io sapevamo che le cose si erano messe male, quindi lungo il tragitto avevamo intenzionalmente evitato chiunque, eppure sembrava così assurdo che quei due ci avessero assalito con tanta disinvoltura. Erano passate soltanto tre settimane dal blackout: possibile che bastasse così poco a un uomo per perdere i principi morali e la compassione?

    «Già, proprio come noi, solo che voi avete delle provviste e noi no.» Sbucciò una nocciolina e se la lanciò in bocca, poi guardandomi con il suo solito ghigno disse: «Anzi, no, non è esatto. Adesso siamo noi che abbiamo le provviste».

    Più ci fissavamo e più sentivo una morsa allo stomaco. Vedevo quel ghigno trasformarsi lentamente nei denti aguzzi e affamati di uno squalo che ha appena fiutato l’odore del sangue, e il mio intuito femminile mi fece capire che erano altri, adesso, i suoi desideri.

    «Te lo stacco a morsi se provi anche solo a pensarci!» gli ringhiai contro. La mia voce era decisa, ma più l’uomo che mi teneva ferma mi tirava verso di sé, più lo stomaco mi si contorceva dalla paura.

    Berretto Blu se la rideva; sembrava che la sfida lo allettasse. Probabilmente era uno di quegli uomini a cui piacciono le donne che li fanno sentire importanti, quindi, anche se odiavo l’idea, tentai un altro approccio. Cambiai il tono da aggressivo a implorante, senza nemmeno dover fingere che mi tremasse la voce. «La famiglia di John vive nei paraggi. Potrebbero essere i vostri vicini, o vostri amici.»

    Mi pentii di aver pronunciato quelle parole nello stesso istante in cui mi uscirono di bocca. I genitori di John avevano un negozio di alimentari in quella zona e, data la fissa di Berretto Blu per la raccolta di viveri, sarebbe stato meglio non dargli modo di associarci ai Seong.

    «La ferita è brutta» riuscii a dire ancora con voce rotta, nonostante avessi un nodo in gola. «Per favore, prendete la roba e lasciateci andare, il mio amico ha bisogno di aiuto.»

    «Non penso proprio, dolcezza. Per come la vedo io, anche tu e il tuo amico contate come cibo.»

    «Cosa?!» gracchiai incredula. Non poteva aver detto quello che avevo capito, non poteva essere vero.

    John, per favore alzati! Tu sapresti cosa fare adesso. Lui era abilissimo nel comprendere le situazioni e gestirle nel modo migliore, mentre io con la mia impulsività e le mie decisioni a volte irrazionali facevo solo casini.

    Ma John rimase immobile e, per la prima volta, mi permisi di prendere in considerazione l’idea che fosse morto. Oddio... Il mio migliore amico forse era morto, o stava per morire, quei due uomini non avevano alcuna intenzione di lasciarci andare e noi ci trovavamo in una simile situazione solo per colpa mia. Per colpa di quell’impazienza che John mi aveva sempre rimproverato. Gli lanciai ancora un’occhiata e desiderai avergli dato retta, per una volta, ma pensai che anche lui sarebbe stato d’accordo sul fatto che la logica, a quel punto, non ci sarebbe stata d’aiuto.

    D’impulso, prima di cambiare idea, mi puntai con i piedi e feci un salto all’indietro con tutta la forza che riuscii a raccogliere. Un dolore lacerante mi attraversò la schiena quando le braccia si liberarono dalla presa, ma almeno raggiunsi lo scopo di mettere al tappeto il mio aguzzino senza volto. In tutta fretta mi alzai in piedi e mi girai, assestandogli un sonoro calcio in faccia appena fece per tirarsi su, e poi un altro, e un altro ancora, ignorando lo scricchiolio ripugnante del suo naso che soccombeva sotto il mio anfibio. Canalizzai in quei calci tutta la rabbia e la paura che mi avevano aggrovigliato le budella fino a farmi venire la nausea, e funzionò. La suola dei miei Dr. Martens lasciò una bella impronta sulla sua faccia sanguinante, e lui non cercò più di rialzarsi. Stavo per passare a occuparmi di Berretto Blu quando lo sentii afferrarmi da dietro.

    «Brutta puttanella» mi ringhiò nell’orecchio, mentre cercavo di rimanere in piedi e di liberarmi da quella stretta d’acciaio che mi bloccava le braccia sui fianchi. Il piumino ingombrante non era d’aiuto. Avrei dovuto tenere lo spray al pepe ancora a portata di mano come avevo fatto nella parte iniziale del tragitto, prima che ci addentrassimo in quella zona meno popolata che mi aveva fatta sentire più al sicuro.

    Mi prese il panico al solo pensiero di finire a terra con quell’uomo sopra di me, così mi sforzai di restare in piedi. Con la sua forza bruta, però, ebbe la meglio: mi arpionò le gambe da sotto e mi fece cadere in avanti. La gravità fece il resto. Colpii violentemente la faccia contro i frammenti ghiacciati di neve e Berretto Blu mi cadde addosso con tutto il suo peso, togliendomi il fiato. Per un terribile e interminabile attimo, con i polmoni schiacciati e doloranti, mi sentii soffocare.

    Ma poi riuscii a tirare un respiro, e dopo un altro più lungo. Il trauma dell’impatto si affievolì e cominciai a dimenarmi come un pesce all’amo che non ha la minima intenzione di diventare la cena di nessuno. Non riuscivo a neutralizzare quella presa di ferro o a scappare dall’odore acre dei suoi capelli, né da quello rancido del suo alito. Ansimava per lo sforzo e ogni fetida nuvola di condensa mi ricordava cosa mi avrebbe fatto se mi fossi arresa. Lottai, spinta da una nuova ondata di panico, ma stavolta invano: in quella posizione non c’era nulla che potessi fare per sfuggire alla sua morsa.

    «Lasciami andare!» urlai sollevando la testa, nella speranza di coglierlo di sorpresa. La mia voce risuonò nel silenzio di quegli alberi coperti di neve per poi dissolversi, senza sortire in lui alcun effetto. Al contrario, mi voltò sulla schiena e si mise a sedere sopra di me, comprimendomi i polmoni e il petto già indolenziti. Con le ginocchia mi immobilizzò le braccia e quando, nonostante il suo peso, tentai di urlare ancora, mi colpì così forte che vidi le stelle. Sentii divampare e sovrapporsi nel cranio un doppio dolore: uno si irradiava dalla mascella, l’altro proveniva dalla nuca, nel punto in cui aveva appena sbattuto per terra. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, che si gelarono prima ancora di solcarmi le guance.

    «I piccoli sono sempre i più ostinati» disse ridacchiando, poi sollevò il pugno e mi colpì di nuovo. «E adesso piantala di contorcerti, se non vuoi che te ne tiri un altro.»

    Incombeva su di me, stagliandosi in controluce nel cielo invernale che imbruniva. Un ghigno di scherno gli deformava la bocca, ma i suoi occhi brillavano di una luce che pareva quasi di piacere. Mi vennero in mente alcuni esperimenti di cui avevo letto: si diceva a una persona che se avesse premuto un bottone avrebbe provocato un dolore estremo a qualcun altro in un’altra stanza, e sembrava che tantissima gente apparentemente normale avesse schiacciato quel pulsante ripetutamente, traendone godimento.

    Mi dispiace, John. Forse è meglio se non ti svegli.

    Gli occhi di Berretto Blu si spostarono dal mio viso al boschetto da cui John e io eravamo spuntati. Sentii un rumore, uno scricchiolio sordo di pesanti scarponi sulla neve, poi una voce profonda, intensa, con una punta d’orrore, risuonò da qualche parte al di fuori del mio campo visivo.

    «John?»

    Appena Berretto Blu cominciò ad alzarsi, avvertii l’aria inondarmi i polmoni e una strana sensazione di libertà aleggiare tra le braccia e il petto. Udii prima armare il cane di una pistola, e subito dopo esplodere un colpo. Berretto Blu fece un volo e atterrò ai miei piedi nella neve. Si dimenò un po’ nel tentativo di portarsi le mani al foro che aveva nel torace, poi le braccia gli caddero lungo i fianchi e rimase immobile. Il suo compare tentò goffamente di mettersi a sedere e di raggiungere una tasca, ma mentre armeggiava, un altro colpo lo stese per sempre.

    Le mie orecchie ronzarono nel silenzio che seguì agli spari e tentai di reprimere il piagnucolio terrorizzato che minacciava di uscirmi dalla bocca. Volevo allontanarmi dal corpo senza vita del mio rapitore, ma mentre strisciavo via le sue gambe si intrecciarono con le mie, come se non volesse lasciarmi andare.

    Guardai l’uomo che ci aveva salvati da ignoti orrori. Era smilzo, ma con le spalle larghe, completamente vestito di nero e con la faccia coperta da una maschera da sci che lo faceva sembrare cento volte più spaventoso di Berretto Blu e del suo amico. Poi, però, abbassò la pistola e si tolse il passamontagna mostrando un volto tanto simile a quello di John da farmi restare a bocca aperta. Aveva qualche anno in più dei suoi ventiquattro e i lineamenti erano più duri, ma gli occhi leggermente allungati erano gli stessi, così come la fossetta che anche a John si formava tra le sopracciglia quando era preoccupato. I suoi capelli neri erano più corti di quelli del mio amico, ma lunghi abbastanza perché gli cadessero disordinati sopra le orecchie, e mossi, anziché lisci come spaghetti. Non poteva che essere suo fratello.

    Corse verso John che giaceva a terra bocconi, e gli si inginocchiò accanto. «Merda, non può essere vero. Non posso perdere anche te, cazzo» mormorò.

    Qual era il suo nome? Gabriel? La mia memoria vacillava, ma poi ricordai. Sì, c’erano Gabriel, che era stato via due anni per la scuola di medicina ed era sempre troppo impegnato per tornare a trovarli, e poi una sorella, Maggie, una ragazzina al terzo anno di liceo.

    Questo significava che eravamo vicini alla nostra destinazione. John me lo aveva detto, ma io, dopo avergli chiesto: «Siamo arrivati?» per la centesima volta, non gli avevo creduto. Anzi, avevo portato entrambi dritti dritti nella tana del lupo.

    Gabriel afferrò il polso di John per sentirgli il battito, poi si diresse svelto verso di me. «Stai bene? Hanno ferito anche te?» Aveva gli occhi spalancati, le pupille che guizzavano da una parte all’altra come se stesse facendo una sorta di scansione medica nella sua mente.

    Da vicino non somigliava al fratello poi così tanto come avevo creduto. Aveva una corporatura atletica e non semplicemente esile. Il suo viso, fresco di rasatura, era tutto uno spigolo: zigomi alti e mascella squadrata. Aveva un’aria quasi da predatore, in forte contrasto con quella da ragazzino di John.

    La differenza maggiore, però, stava negli occhi. Il mio amico li aveva di un marrone scuro, quasi come i miei, ma quelli di Gabriel erano di un marrone così chiaro che sembravano dorati, con l’iride bordata di nero.

    «Ho preso qualche botta, ma sto bene, grazie a te» dissi, anche se mentre mi aiutava a rialzarmi sentii il dolore irradiarsi in tutto il corpo. Mi passò le mani sulle guance, poi mi tastò la mandibola. La pressione dei suoi polpastrelli freddi dava sollievo alla mia povera faccia malconcia. Sapevo che era del tutto fuori luogo, date le circostanze, eppure non potevo farci niente: quel tocco mi trasmetteva brividi di piacere. Forse la mancanza per settimane di un contatto umano, a parte John, mi aveva segnato. Senza pensarci, gli premetti il viso contro la mano, alla ricerca del naturale benessere di quella vicinanza.

    I suoi occhi fissarono i miei per un lungo istante, e qualcosa brillò in quelle profondità color del miele, ma le sue labbra rimasero tese in una linea di preoccupazione. «Sembri a posto. Puoi prendere una sciarpa di quei tizi o qualcosa del genere e portarla qui?» chiese interrompendo bruscamente il contatto con me per tornare da John. Era più un comando che una richiesta; sembrava a suo agio nell’impartire ordini e, a quel punto, ero felice di eseguirli.

    Corsi verso Berretto Blu. Con le mani tremanti, cercando di non guardare i suoi occhi vitrei, gli presi la sciarpa che si era srotolata un po’ durante la lotta. La pozza di sangue che si stava formando attorno a lui era molto più larga di quella intorno a John, e fu solo allora che notai che il mio giubbotto grigio scuro, sul davanti, era tutto schizzato di rosso. Sembrava un’opera di Jackson Pollock in miniatura. Capii quindi che prima Gabriel, quando mi aveva accarezzato il viso, mi aveva ripulito dal sangue. Sangue che non era mio. Sentii la testa girare e le gambe quasi cedere;

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