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Claimed by Gods: Edizione italiana
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E-book255 pagine3 ore

Claimed by Gods: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Loki, Thor, Baldur, Hod.
Il loro sovrano è scomparso e gli dèi mi hanno evocata per ritrovarlo.
Le prime tre valchirie che si sono lanciate in questa ricerca non sono mai tornate indietro.
I nemici degli dèi sono più subdoli del previsto e dovrò attingere a tutto il mio potere per salvarci tutti.
Il mio nome è Aria Watson, e il Valhalla non ha ancora visto niente.




Pensavo di essere già sopravvissuta a tutto ciò che la vita aveva in serbo per me. Non volevo fare altro che mantenere le distanze dai criminali per cui lavoro e salvare il mio fratellino dall’inferno che è la casa di nostra madre.
Ma poi sono morta, e mi sono risvegliata davanti a quattro bellissimi dei che mi hanno detto che ora sono una valchiria.
C’è Loki, furbo e acuto. Il gioviale ma feroce Thor. Baldur, sognante e compassionevole. Il cupo e riservato Hod. Hanno tutti qualcosa da insegnarmi. E da quando sto con loro, ho iniziato ad abbassare le difese.
Ma gli dèi non mi hanno evocato solo per farsi due risate. Il loro sovrano è scomparso, e per ritrovarlo hanno bisogno di me. Le prime tre valchirie che si sono lanciate in questa ricerca non sono mai tornate indietro.
Dentro di me si sta risvegliando un potere che non avrei mai creduto possibile… ma i nemici degli dèi sono più subdoli di quanto immaginassimo. Dovrò usare tutti i trucchi a mia disposizione per salvare me stessa, mio fratello e questi uomini divini, per cui inizio a provare affetto ma anche qualcosa di più.
Il mio nome è Aria Watson, e il Valhalla non ha ancora visto niente.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mag 2023
ISBN9791220705912
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    Anteprima del libro

    Claimed by Gods - Eva Chase

    1

    ARIA

    Mi piacerebbe tanto dirvi che sono morta in maniera epica, a causa dei colpi di pistola partiti nel bel mezzo di una rissa di strada. O quantomeno che sia successo in una situazione piccante, tipo cadendo da un balcone mentre facevo il sesso più incredibile della mia vita. Ma la verità? Sono morta in modo tremendamente banale.

    Dopo essere saltata giù dal motorino, su quella schifezza di Philly Street, avevo attraversato a grandi passi la strada, diretta alla pensione per cani dove mi aspettava un cliente. Il sole cocente di luglio faceva puzzare l’asfalto, e avrei potuto scommettere che il gruppo di ragazzi all’angolo avesse crack e pistole, sotto quelle maglie larghe. Difficile dire quale fosse la cosa più pericolosa: l’intero vicinato o il pacco che tenevo nascosto nella mia borsa a tracolla. Ma un corriere ben pagato non fa domande su quello che trasporta; deve solo consegnare la merce in tempo.

    Uno dei soliti tipi loschi, di cui non avevo mai dovuto imparare il nome, era in piedi dietro la reception, e Gene era appoggiato al muro proprio lì vicino. Oddio. Si era raddrizzato e mi aveva rivolto un sorriso viscido nel momento in cui tiravo fuori dalla borsa il pacco sigillato.

    «Ari. È sempre un piacere.»

    «Vorrei poter dire lo stesso, Gene,» gli avevo risposto allegramente, consegnando il pacco all’altro tipo. Lui lo aveva esaminato con un rapido cenno del capo e poi aveva allungato una mano sotto il bancone per prendere i miei soldi. Dalla sala interna, dove tenevano i pochi cani che ospitavano, quelli che gli fornivano una copertura per qualunque fossero i loro veri affari, provenivano lamenti e guaiti. Io non avevo fatto domande.

    Gene mi aveva strizzato l’occhio. E io avevo imparato, ormai già da molto tempo, che con lui potevo anche essere onesta e insultarlo, a patto che le mie parole risultassero abbastanza allegre. Le menti come la sua non erano in grado di elaborare sia il significato che il tono di una frase.

    Per mia sfortuna, però, il suo cervello poco illuminato pensava anche di poter continuare a provarci con me, anche se era abbastanza grande da essere mio padre e così viscido che dubito avrei mai potuto essere interessata, nemmeno quando aveva vent’anni. Ma era anche il cugino di uno dei miei clienti più importanti, quindi non potevo fargli arrivare il messaggio con un paio di coltellate, per quanto a volte avrei voluto.

    Niente di fatale, è ovvio. Però in un punto abbastanza doloroso perché capisse bene.

    Ecco perché, quando si era avvicinato furtivamente e aveva cercato di mettermi un braccio intorno alla vita, mi ero dovuta limitare a schivarlo e a sorridere forzatamente. Poi avevo infilato la mano nella tasca dei jeans, cercando conforto nel sentire la sagoma del coltello a serramanico che avrei usato, se davvero fosse stato necessario.

    «Oh, andiamo, tesoro,» mi aveva allora detto Gene. «Non puoi venire qui vestita così e negare a un ragazzo un po’ di divertimento. Ti assicuro che ti piacerà.»

    Indossavo i jeans, che erano aderenti ma non così attillati, e una maglietta bianca larga, con lo scollo che mi sfiorava appena la clavicola. Niente trucco, e avevo i capelli, biondi e lunghi fino alle spalle, arruffati dal viaggio in motorino. Con vestita così si riferiva al fatto che esistevo ed ero una ragazza.

    «Ne sono certa, Gene,» avevo risposto, sempre sorridendo. «Io invece ti assicuro che sentirai il ​​mio pugno che ti spacca il naso. Penso che forse sia meglio se evitiamo tutta la situazione e restiamo amici, che ne pensi?»

    A quel punto, Gene aveva assunto un’espressione perplessa. Poi aveva di nuovo provato ad avvicinarsi, ma io avevo alzato il pugno, inarcando un sopracciglio.

    «Sono stata tre volte campionessa di boxe alle superiori,» avevo aggiunto. «Vuoi davvero mettermi alla prova?» Avevo mantenuto un tono di voce dolce, lasciando che il mio sguardo si indurisse un po’.

    Gene allora mi aveva guardato, decidendo che fare marcia indietro fosse la cosa migliore, per mantenere l’illusione che presto avrei ceduto al suo fascino.

    In vita mia non avevo mai fatto boxe, però avevo messo a segno un buon numero di pugni, quindi non era una vera e propria bugia.

    Alla fine il tipo losco mi aveva consegnato quella cavolo di busta. Io avevo contato al volo le banconote, gli avevo lanciato un «Grazie!» e avevo infilato i soldi nella borsa mentre uscivo.

    Era un compenso niente male, e quella settimana avevo già messo da parte un bel po’ di contanti. Avrei anche potuto comprare qualcosa per Petey. Non avrei potuto prendere nemmeno la metà delle cose che volevo, visto che doveva trattarsi di cose abbastanza piccole perché la mamma non se ne accorgesse. Magari un pacchetto di quelle figurine che gli piacevano tanto e alcuni snack. Oppure un paio di scarpe migliori, per sostituire quelle logore, da ginnastica, ormai troppo piccole? Avrei potuto sporcarle un po’ prima, così la mamma non si sarebbe accorta che erano nuove…

    Immaginare la faccia sorridente del mio fratellino era il miglior antidoto per le attenzioni indesiderate di Gene. Un vero sorriso mi era spuntato sulla faccia, ma allo stesso tempo avevo anche sentito il cuore stringersi.

    Le figurine e un paio di scarpe non erano sufficienti. Niente sarebbe bastato, dal momento che la mamma era… così com’era. Se la vita di Petey si fosse trasformata anche solo nella metà dell’incubo che era stata la mia…

    Avevo scacciato quei pensieri. Stavo facendo tutto il possibile, nonostante i suoi comportamenti. Non avrei permesso a nessuno di fargli del male. E non appena avessi messo da parte abbastanza denaro per una bella casa e il miglior avvocato della città, avrei iniziato una battaglia legale per farlo vivere con me.

    Il ritmo allegro di una canzone pop si era riversato in strada dalla porta aperta del minimarket accanto. E io avevo iniziato a muovermi quasi ondeggiando, mentre raggiungevo il motorino. Forse quella sera sarei potuta andare a ballare, per sfogarmi un po’ prima di tornare per strada. Era da un po’ che non ci andavo.

    Avevo attraversato senza guardare a sinistra, perché era un senso unico. E proprio nel momento in cui mi trovavo in mezzo alla strada, una jeep gialla aveva svoltato l’angolo rombando, più veloce di quanto qualsiasi persona sana di mente avrebbe fatto, anche andando nella direzione giusta.

    L’autista aveva urlato. Le gomme avevano fatto un rumore stridente. Io mi ero lanciata verso il marciapiede opposto.

    Il che avrebbe anche potuto salvarmi, se il tipo al volante non fosse stato così intelligente da decidere di evitarmi sterzando proprio nella stessa direzione.

    La griglia anteriore mi aveva colpito in pieno, provocando uno scricchiolio nei miei fianchi di cui avevo sentito perfino il rumore. L’agonia allora mi era esplosa in tutto il corpo. Le mie gambe si erano accartocciate. L’angolo del paraurti mi aveva colpito la testa con uno schiocco tale da spaccare un cranio.

    I rumori confusi intorno a me erano stati inghiottiti da un’ondata di dolore. Mentre la mia vista si riduceva a un foro di spillo, facendo sparire anche tutta la luce, ero rimasta cosciente abbastanza per pensare: Questo cazzo di idiota e la sua cazzo di jeep. E poi: Ora chi si prenderà cura di Petey? Non saprà nemmeno perché me ne sono andata.

    Un dolore più acuto e disperato, provocato dall’angoscia, aveva sostituito per un istante quello fisico. Ma non era stato abbastanza per tenermi in vita.

    L’onda allora mi si era schiantata addosso, sovrastandomi, e mi aveva trascinato giù, nel buio, dove semplicemente non c’era nulla.

    Le palpebre si contrassero.

    Le mie palpebre si contrassero.

    E quella consapevolezza iniziò ad attraversarmi tutto il corpo, una sensazione pungente che risvegliava l’intorpidimento sulle guance e sulla fronte, lungo il collo, sul petto e sugli arti.

    Avevo degli arti. Avevo un petto. Un petto che non era più una massa infuocata di dolore.

    Con la testa ancora annebbiata, sbattei le palpebre, e i colori iniziarono a nuotarmi davanti agli occhi. Sentivo la pelle formicolare e la schiena stranamente pesante, ma per il resto non mi sembrava di essere in cattive condizioni. Qualcuno mi aveva portato in ospedale? Forse era per via delle medicine che avevo la mente e la vista così sfasate.

    Sbattei di nuovo le palpebre e da tutti quei colori iniziarono a prendere forma delle sagome. E le sagome si muovevano. Ne misi a fuoco due, le più vicine.

    Erano due uomini, entrambi alti e in forma, anche se uno era molto muscoloso, con i capelli castano scuro, e l’altro più magro, con i capelli di un rosso chiaro. E i loro volti erano perfettamente cesellati, uno con la mascella squadrata e l’altro graziosamente spigoloso… più che un ospedale, sembrava un set cinematografico di Hollywood.

    Mi scrutavano entrambi con intensità. Quello muscoloso fece un passo avanti, tendendo verso di me un lenzuolo bianco. Verso di me? Perché mai…

    La mia consapevolezza iniziò ad affilarsi, e la mia mente prese di nuovo posto dentro il mio corpo. Sotto la pelle appena fredda, che era così perché non avevo niente addosso. Ero sdraiata, completamente nuda, su una specie di superficie imbottita al centro di una grande stanza gialla, con due strani uomini enormi che incombevano su di me.

    Una gelida ondata di panico mi attraversò. Cercai di riprendermi dallo stordimento e di controllare di nuovo le braccia e le gambe, facendole muovere piano. Allora strisciai sul pavimento, allontanandomi dai due uomini.

    No, non erano soli. Ce n’erano altri due in piedi, più indietro, e anche una donna. Mi guardavano tutti. Quello strano trascinarmi sulla schiena mi fece traballare un po’, mentre tiravo su le ginocchia e appoggiavo mani e piedi sul pavimento.

    «Ehi, tu,» disse il Muscoloso, con un rombante tono baritonale, scuotendomi il lenzuolo davanti come per cercare di tentarmi. Come se io fossi un cane, e lui mi stesse attirando con un bocconcino. «Va tutto bene. Nessuno qui ti farà del male.»

    Sì, certo. Perché ci si può sempre fidare di quelli che fanno promesse del genere.

    «Che cazzo sta succedendo?» chiesi, piegandomi su me stessa per coprirmi. «Dove accidenti sono?»

    «Ha avuto un’esperienza piuttosto diversa dalle altre, vero?» Il Magro lanciò un’occhiata agli altri, con voce leggermente divertita. Tornò con lo sguardo su di me e inclinò la testa. «È un po’ più piccola di quanto immaginassi. Una normale fata.»

    Non avevo idea di cosa diavolo stesse parlando, ma sapevo che quel commento non mi piaceva. Strinsi i denti, drizzando le spalle. «Ora vi faccio vedere io.»

    «E che spirito!» Mi sorrise, come se si aspettasse che mi unissi a lui.

    «Dalle il tempo di adattarsi,» disse allora il Muscoloso. «Dobbiamo farla sentire a suo agio.» Aggrottò la fronte, muovendo di nuovo il lenzuolo. «Sei sicura di non volerlo?»

    «Voglio che mi diciate che ci faccio qui e cosa cazzo credete di fare,» risposi.

    Il mio sguardo sfrecciò oltre di loro e si posò su una porta in fondo alla stanza. Forse ce l’avrei fatta a scappare. Erano più forti e più grossi di me, certo, ma io ero veloce. E non sembravano aspettarsi la mia fuga, quindi avrei avuto la sorpresa dalla mia.

    «È un po’ complicato,» disse il Magro. «Perché non ti rilassi e cerchi di orientarti per un minuto, così poi possiamo parlare dei dettagli?»

    Dalla gola mi uscì una risata ruvida. Rilassarmi? Stava scherzando?

    Guardai di nuovo la donna: era alta quasi quanto i ragazzi e dall’aspetto altrettanto sorprendente, con il viso liscio come quello di una top model incorniciato da onde di capelli color miele. Chi accidenti erano quelle persone?

    Mi avrebbe aiutato o aveva intenzione di lasciarmi alla mercé degli uomini? O addirittura avrebbe partecipato a qualunque cosa avessero in mente?

    Lei mi fissò di rimando, con le labbra serrate. Mi sembrò di vedere compassione nel suo sguardo, ma non parlò e non si mosse nemmeno di un centimetro.

    Quindi ero da sola.

    Gli altri due uomini erano rimasti in disparte, vicino alle grandi finestre ad arco. Ma non troppo vicini alla porta. Il Muscoloso fece un altro passo verso di me.

    Entro quanto tempo avrebbero iniziato a forzare la mano? Dovevo uscire di lì, e dovevo farlo adesso. Mi spinsi in avanti, sul pavimento di legno duro levigato.

    Se il mio corpo avesse funzionato correttamente, quello sforzo mi avrebbe fatta arrivare a metà della stanza in pochi rapidi passi. E invece sentii un dolore alle scapole, come se qualcuno me le stesse strattonando, e un peso sulla schiena mi fece cadere di lato. Che accidenti mi pendeva?

    Sbattei la spalla contro il muro. Il Magro mi fu davanti in un istante, bloccandomi la strada. E stava ancora sorridendo, cazzo.

    Sfoderai i miei pugni, più per istinto che perché pensavo di avere qualche possibilità, in una lotta corpo a corpo, e lui scoppiò a ridere. Barcollai all’indietro, armeggiando dietro la mia schiena nel tentativo di staccare qualunque cosa mi stesse trascinando giù. Con le dita sfiorai qualcosa di leggermente increspato, a cui la mia mente non riusciva a dare alcun senso.

    Il Muscoloso mi si avvicinò dall’altra parte, brandendo ancora quel cavolo di lenzuolo. «Vaffanculo!» dissi, in pratica ringhiando. Mi scansai di lato e il Magro si mosse con me, con gli occhi scintillanti di divertimento.

    «È molto diversa dalle altre,» mormorò. «Bene, bene.» Lanciò un’occhiata alle sue spalle. «Beh, nipote mio, penso che faresti meglio a calmarla per un po’, così possiamo fare un altro tentativo per presentarci più tardi.»

    Calmarmi? Uno degli altri uomini, un po’ più basso del Magro e del Muscoloso ma sempre piuttosto piazzato, attraversò la stanza e ci raggiunse. Sotto una cascata di arruffati capelli biondo chiaro, i suoi occhi erano di un azzurro cristallino, e stranamente sognanti. Li fissò nei miei, ma dalla sua espressione avrei detto che non aveva notato quanto fossi spaventata. Fui percorsa da un brivido.

    No. Non potevo lasciare che mi intrappolassero. Non sarei rimasta così impotente.

    Mi lanciai di nuovo verso la porta compensando meglio il peso sulla schiena, ora che mi stavo abituando. Il Magro mi afferrò. Ma senza toccarmi, o almeno senza toccare niente di quello che faceva parte del mio corpo. Una scossa mi attraversò la schiena, come se si fosse aggrappato a un arto che non sapevo di avere. Mi fece fermare.

    Mi girava la testa. Niente di tutto ciò aveva senso. «Cosa cavolo mi hai fatto?» urlai, sferrando un altro pugno.

    Il Magro si scansò abilmente, ancora aggrappato a quella parte del mio corpo che non sarebbe dovuta esistere, che non era mai esistita prima. Mi fece un sorriso più contenuto.

    «Ti abbiamo riportata in vita, fatina,» disse. «Ti abbiamo trasformata in una valchiria.»

    Strattonò quell’arto alieno, e allora lo vidi con la coda dell’occhio: il dispiegarsi di un’enorme ala piumata bianco-argento. La teneva stretta tra le dita, e io sentivo benissimo la pressione, fino al punto in cui era attaccata alla carne della mia schiena.

    Un grido soffocato mi sfuggì dalle labbra, poi l’uomo dagli occhi sognanti riempì la mia visuale. Mi prese la testa tra le mani. Prima che avessi la possibilità di ribellarmi, un soffice torpore mi avvolse la mente, spazzando via gli uomini, la stanza e tutti i miei pensieri frenetici e trasportandomi in un vuoto caldo e luminoso.

    2

    THOR

    Al tocco di Baldur, la ragazza si accasciò, chiudendo gli occhi di scatto e chinando la testa. Scattai avanti per prenderla prima che raggiungesse il pavimento.

    Un momento prima mi era sembrata così dura – piccola, sì, ma muscolosa e ardente di rabbia – che la morbidezza delle sue braccia rilassate mi sorprese. L’adagiai per terra e le stesi sopra il lenzuolo che avevo cercato di offrirle. Non le era piaciuto stare nuda davanti a noi. Si capiva anche senza che dicesse niente.

    Le ali si stavano già restringendo con un debole fruscio delle piume, contraendosi per tornare nel suo corpo, dove sarebbero rimaste finché non le avesse spinte di nuovo fuori. Se mai fosse arrivata a quel punto. Strinsi le labbra e spostai una ciocca di quei capelli biondo scuro dai suoi occhi chiusi.

    Adesso sembrava serena, ma fino a un minuto prima era terrorizzata, oltre che furiosa. L’avevamo terrorizzata noi. Perché, in nome di Asgard, non ero preparato? Forse le altre erano state quelle strane, immobili nella loro confusione iniziale, abbastanza pazienti da ascoltare la nostra storia e capire chi e cosa eravamo.

    Ma gli umani, tutti quanti, erano i miei protetti, molto più di quanto lo fossero per gli altri. Ero io il guardiano dell’umanità. E gli ultimi cinque minuti erano stati un fallimento piuttosto epico dei miei doveri.

    Loki mi si avvicinò, grattandosi il mento sottile mentre studiava la ragazza. Gli brillavano gli occhi. «Beh, vi avevo promesso qualcosa di diverso, no? È una a cui piace lottare.»

    «E lo fa anche bene,» azzardai. Avevo preso parte a un numero sufficiente di battaglie da riconoscere l’esperienza e l’abilità, quando le vedevo, anche se in una rozza forma mortale. «Il che mi pare molto promettente. Certo, sarebbe stato meglio se avesse mirato a combattere i nostri nemici, invece che noi

    «Sono sicuro che, una volta che le avremo spiegato per bene chi siamo e quali sono i nostri nemici, potremo portarla sulla strada giusta.»

    «Oh, ne sei sicuro, eh?» disse Hod, che era rimasto accanto alle finestre con le braccia incrociate. Era scuro in viso tanto quanto i suoi capelli erano neri. «Proprio come eri sicuro che questa tua nuova brillante idea non avrebbe avuto alcun problema? Da quel che ho visto io, da quando si è svegliata, non ha fatto altro che causare problemi.»

    La luce negli occhi di Loki si infuocò appena, ma lui rispose con il suo solito tono ironico. «Io pensavo che tu non avessi visto proprio niente.»

    Lo sguardo di Hod si fece ancora più torvo. Dopo secoli di pratica, poteva puntare gli occhi ciechi sugli altri con tanta precisione, solo basandosi sul suono della loro voce, da far pensare che ci vedesse, l’imbroglione. «Sai cosa intendo. La semantica non cambia nulla.»

    «Se il successo di ogni impresa venisse stabilito nei primi cinque minuti, la civiltà non avrebbe fatto tanti passi in avanti,» rispose Loki con disinvoltura.

    «Per il momento sta bene,» disse Baldur accanto a me, con la sua voce lenta e melodica. Tanto luminoso quanto il suo gemello era tenebroso. «Le ho infuso un po’ di calma nella mente.»

    «Va bene.» Allontanai i pensieri dai miei fratelli e dal nostro amico imbroglione, tornando alla questione pratica. «Troviamo un modo per metterla più a suo agio, così la prossima volta che si sveglia, sarà di umore migliore.»

    Freya si avvicinò e fece un cenno con il suo braccio aggraziato. «Portala su, nella solita camera da letto. Dobbiamo trovarle dei vestiti. E qualcosa da mangiare. E che ne dite di lasciarla un po’ da sola, prima che vi incontri di nuovo tutti?»

    Loki ridacchiò, ma non si oppose. Hod sembrava abbastanza felice che la soluzione

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