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Grazie, Obama: I miei anni alla Casa Bianca. Memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi
Grazie, Obama: I miei anni alla Casa Bianca. Memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi
Grazie, Obama: I miei anni alla Casa Bianca. Memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi
E-book377 pagine5 ore

Grazie, Obama: I miei anni alla Casa Bianca. Memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi

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Info su questo ebook

Avete presente quando i presidenti si esprimevano con frasi elaborate anziché con tweet frizzanti?
David Litt, scrittore di discorsi, se lo ricorda bene... e in questo divertente memoir riporta il lettore agli anni della presidenza di Obama e traccia il percorso verso l’era di Trump.


Come molti ventenni, David Litt si è spesso sentito in imbarazzo davanti al capo del suo capo. A differenza degli altri coetanei, però, il capo del boss di Litt era il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.
A soli ventiquattro anni, Litt è diventato uno dei più giovani autori di discorsi della Casa Bianca che la storia ricordi. Oltre ad aver affrontato nei suoi scritti questioni importanti come il cambiamento climatico e la riforma della giustizia penale, è stato la “musa comica” del presidente, artefice di numerose battute argute e di frasi scherzose entrate nella storia.
Con l'occhio dell'umorista per i dettagli e lo zelo di un neo-convertito, Litt conduce il lettore attraverso i suoi otto anni in prima linea nell’Obamaworld. Nella sua storia personale di crescita politica, passa da essere uno studente universitario sognatore – un vero "Obamabot", come si è autodefinito – al giovane e nervoso autore di discorsi dello staff senior della Casa Bianca.
I suoi aneddoti sul dietro le quinte rispondono a domande che non avremmo mai pensato di farci: qual è il bagno degli uomini più elegante della Casa Bianca? Qual è la vita sociale sull’Air Force One? Come si può costringere il Consiglio di Sicurezza Nazionale a smettere di fare “reply-all” a tutte le e-mail?
Insieme a queste osservazioni spensierate, Litt usa la sua esperienza per affrontare una delle questioni più importanti di oggi: l'eredità e il futuro del movimento di Obama nell'epoca di Donald Trump.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2018
ISBN9788858984093
Grazie, Obama: I miei anni alla Casa Bianca. Memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi
Autore

David Litt

David Litt è entrato alla Casa Bianca nel 2011 come assistente speciale del presidente e scrittore dei suoi discorsi ufficiali, e ci è rimasto fino al 2016. Definito dalla stampa "la musa comica del presidente", ha contribuito con le sue battute argute a ogni discorso di Obama fin dal 2009 ed è stato per quattro volte il principale artefice di quelli tenuti alla Cena dei corrispondenti della Casa Bianca. Ha scritto per The Onion, per il sito umoristico McSweeney’s Internet Tendency, e per importanti quotidiani e riviste tra cui Cosmopolitan, Vanity Fair, The Atlantic e New York Times. Vive a Washington, DC con la sua ragazza e due pesci rossi.

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    Anteprima del libro

    Grazie, Obama - David Litt

    ugualmente

    Una nota sui fatti

    Non ho tenuto un diario mentre lavoravo alla Casa Bianca – non volevo dare al Congresso la possibilità di querelarmi. Questo libro è basato sui miei ricordi, su un uso smodato di Google, e su storie dette e ripetute a familiari e amici. È stato, per quanto possibile, sottoposto ad attente verifiche. Ogni citazione è fedele all’originale che conservo nella memoria e non ha comunque perso il senso di ciò che è stato detto. (Ho cercato di essere il più possibile accurato quando sono citazioni del presidente Obama.) Nel caso di figure pubbliche ho mantenuto i loro veri nomi; per la maggior parte degli altri ho usato degli pseudonimi.

    Introduzione

    Rucola Sull’Air Force One

    «Quel figlio di buona donna sbanda!»

    Il tizio che si sta sporgendo fuori dal finestrino non si rende conto di gridare al corteo presidenziale. Probabilmente non gliene importa granché. È il 20 gennaio del 2016 e sul distretto di Columbia sono caduti quasi tre centimetri di neve. Quanto basta a far precipitare la capitale del paese nel caos. Siamo tra Frozen e Mad Max.

    Non è previsto che un presidente resti bloccato nel traffico. È uno dei vantaggi del mestiere. Quella sera, tuttavia, è un’eccezione. L’improvvisa tempesta di neve che ha gettato nello scompiglio le strade di Washington ha costretto a terra l’elicottero del presidente. E non c’è stato nemmeno il tempo di ripulire una strada per far transitare la sua auto. L’esercito non ha potuto offrirgli di meglio che un upgrade. Di norma POTUS* viaggia sulla Bestia, un carro armato travestito da limousine, ma con tutto quel ghiaccio sulle strade hanno pensato che fosse preferibile una buona aderenza alla spessa corazza d’acciaio. Barack Obama è pur sempre il comandante supremo. I mercati si muovono in base alle sue decisioni. E a un suo ordine una nazione può essere rasa al suolo. Ma quella sera Barack Obama è solo un padre di famiglia su un SUV che cerca di tornare a casa in tempo dopo una giornata di lavoro.

    Per fortuna ha un mezzo dotato di quattro ruote motrici. I membri meno importanti del suo staff come me viaggiano su normali pulmini da quindici posti. Slittiamo come matti.

    Non mi ero aspettato di lasciare la base aerea di Andrews per finire a piè pari in una metafora, ma è andata proprio così. Washington è sempre intasata, non c’è scampo. Procediamo con esasperante lentezza. Sembra la perfetta conclusione per il mio ultimo viaggio con POTUS: sono sicuro che stiamo andando nella giusta direzione ma temo che le ruote possano staccarsi dal pulmino. Mentre caramboliamo verso una fila di macchine parcheggiate, sento il nostro esperto improvvisato dire la sua senza farsi troppi problemi.

    «Quel figlio di buona donna adesso sbanda

    Malgrado tutto, riprendiamo il controllo. Procediamo, lenti ma inesorabili.

    Imbarcandomi sull’aereo, quella mattina, pensavo più agli snack che al simbolismo. Un tempo salire sull’Air Force One era come entrare in un armadio e ritrovarsi nel fantastico mondo di Narnia. Ma nel momento in cui stavo per affrontare il mio ultimo volo era diventata pura routine. Sali sulla scaletta, attraversi la sala riunioni, prendi una manciata di uva dalla ciotola piena di frutta. Appendi la giacca nell’armadietto, tiri fuori il cavo Ethernet, freghi una confezione di M[AMP];M’s presidenziali. Ordini un caffè freddo, estrai il poggiapiedi, ti appunti la spilla smaltata per ricordare agli agenti del Secret Service** che non ti devono sparare. A quel punto cerchi di dare una sistemata finale al discorso prima di pranzo.

    Ogni volta che vedevo POTUS mangiare sull’aereo aveva sempre davanti qualcosa di sano, in genere petto di pollo e verdura. Noialtri, invece, mangiavamo cibo che immaginavo preparato da cannibali con l’intento di farci ingrassare. Erano pasti ipercalorici, i menu erano pieni di aggettivi. Quella mattina, nel breve volo fra Andrews e Detroit, ci avevano servito un brie cremoso con pancetta croccante su fette tostate di pane all’aglio. Mentre la rucola fresca era ricoperta di pepe e scaglie di parmigiano.

    Una volta avevo sollevato l’argomento con Ted, uno dei membri dell’equipaggio. Perché anche i piatti leggeri venivano coperti di bacon fritto o cosparsi di formaggio fuso?

    «Un esercito marcia con quello che ha nello stomaco» aveva risposto.

    Cosa forse vera per un vero esercito, soldati in carne e ossa che coprono grandi distanze e bruciano calorie ammazzando gente. Ma io, che scrivevo solo discorsi, non marciavo. Le pallottole del nemico non erano una mia preoccupazione. Semmai lo erano la pesantezza e il torpore della digestione. A bordo dell’aereo presidenziale mi rimpinzavo di cotolette di maiale e tartine di granchio, o enormi vasetti di crema di formaggio che, sorprendentemente, venivano considerati degli snack. Dopo aver dato gli ultimi ritocchi al discorso, mi sarei premiato con uno di quei Twix o Snickers ridicolmente grandi che stavano in bella mostra sul vassoio dei dolci vicino al finestrino. Ma poi c’erano anche i veri dessert. Chi può dire quanti semifreddi alla fragola, quante torte di noci o di mele, quanti brownie strepitosi mi sono spazzolato mentre ero al servizio del mio paese?

    Se dieci anni prima mi aveste domandato cosa avrei fatto a ventinove anni, di certo non vi avrei risposto: ostruirmi le arterie sull’Air Force One. Sono andato a Yale, una di quelle università prestigiose alle quali un cospicuo numero di studenti si è candidato fin dalla nascita. Ma non io. Avevo immaginato di passare i miei vent’anni a spremere ogni goccia di avventura dalla vita. Avrei attraversato a piedi remoti paesaggi, avrei imparato nuove lingue e sviluppato degli addominali da urlo. Avrei fatto tremare le istituzioni. Le avrei sovvertite o trascese. Ma non ne avrei mai fatto parte. Sarebbe stato patetico.

    Eccomi dieci anni dopo. Non ho fatto neanche un viaggio alla scoperta di me stesso. In compenso possiedo una cospicua collezione di cravatte, tengo nel portafoglio una spessa pila di biglietti da visita e una pila di riserva ancora più spessa in valigia. Ogni volta che volo per lavoro un ufficiale dell’aviazione mi porge un asciugamano caldo e si rivolge a me, senza ironia, dicendo «sir».

    Se mi distraggo comincio anche a pensare che me lo merito.

    Ma gli eventi trovano sempre il modo di far abbassare la cresta ai membri dello staff presidenziale. Due mesi prima del viaggio a Detroit andai a vedere il presidente Obama che registrava il messaggio settimanale alla nazione. In genere me ne stavo in disparte in un angolo, ma quella volta, per ragioni che ora mi sfuggono, mi sedetti in prima fila e al centro. Quando POTUS lanciò un’occhiata al gobbo incrociammo casualmente lo sguardo.

    Poche cose sono più spiacevoli che fare a gara con il presidente a chi distoglie per primo lo sguardo. In quel momento però, avendo iniziato, non sapevo come uscirne. Pensai di abbassare gli occhi, come una timida fanciulla in un romanzo di Jane Austen, ma questo avrebbe solo fatto crescere l’imbarazzo. Continuai a guardare il presidente Obama. E il presidente Obama continuò a guardare me. Alla fine, dopo un lasso di tempo che a me parve infinito, mi parlò.

    «Cosa ci fai tu qui?» Non era propriamente infastidito. Sembrava solo che non si aspettasse di vedermi lì, un po’ come uno può sorprendersi nel trovare il cane in salotto anziché nella sua cuccia.

    Qualsiasi altro mio collega avrebbe gestito la situazione con scioltezza. Magari avrebbe tentato un nobile approccio: «Sono qui per servire il mio paese». O l’avrebbe buttata sul ridere: «Spero di beccare i refusi».

    Invece andò così: dapprima, sforzandomi malamente di sembrare disinvolto, rivolsi al leader del mondo libero il sorriso di un serial killer quando capisce che la festa è finita. Poi dissi: «Oh, sto solo guardando».

    POTUS inspirò brevemente dal naso, poi inarcò le sopracciglia, guardò il cameraman e sospirò.

    «Mi mette ansia avere Litt fra i piedi.»

    Sono quasi sicuro che il presidente Obama stesse scherzando. Eppure due mesi dopo, nel mio ultimo viaggio al suo fianco, con lo stomaco pieno di rucola e brie, feci ancora attenzione a evitare il suo sguardo. A Detroit, dietro le quinte, POTUS si comportò come faceva sempre prima di un discorso, stringendo le mani agli addetti al gobbo e scherzando con gli assistenti personali. Poi salì sul palco per ricordare a una sala gremita di operai dell’industria automobilistica come aveva salvato il loro settore sette anni prima.

    Avevo scritto parecchi discorsi sull’industria automobilistica per il presidente Obama, e in quest’ultimo non c’era nulla di particolarmente nuovo. Ma mentre POTUS si avvicinava all’ultimo paragrafo, i miei occhi si riempirono di lacrime. Avevo cercato di prepararmi a ogni momento importante: gli ultimi discorsi per il presidente, il mio ultimo corteo di auto, l’ultimo volo sull’Air Force One. Ma la nostalgia prese il sopravvento e mi sentii barcollare. Lasciai l’area riservata allo staff presidenziale e cercai una toilette. Con la mano sinistra mi appoggiai al lavandino mentre con la destra tenevo stretta la prima pagina del mio discorso.

    Dovresti essere un adulto, mi dissi. E un adulto non piange davanti al capo del suo capo.

    Cercai di riprendermi, feci un respiro profondo e andai ad aspettare nella saletta riservata. I viaggi presidenziali sono così. Per un attimo il tuo destino è inestricabilmente legato all’uomo più importante della terra. Un istante dopo stai solo ammazzando il tempo in un’aula di liceo abbandonata o in un ufficio vuoto. Trascorsero cinque minuti, poi dieci. A quel punto mi sentii chiamare dall’atrio.

    «Litt!»

    Era POTUS. Nella mano sinistra stringeva la prima pagina del discorso, che ora recava la sua firma inconfondibile, e mi porse la destra col palmo sollevato.

    «Non mi hai detto che te ne stai andando» disse.

    «Be’, in realtà volevo uscire senza farmi notare.» Una battuta in sé mediocre, ma buona per uno come me. Il presidente mi rispose a tono.

    «Allora non sei stato tanto bravo. Ti ho scoperto.»

    Fece per chiedermi qualcosa ma uno dei suoi assistenti gli indicò la telecamera per l’intervista programmata dopo il discorso. «Non importa» disse. «Avremo modo di parlare sull’aereo.»

    Non andò così, ovviamente. Durante il volo di ritorno il presidente fu impegnato a fare il presidente, mentre io ero alle prese con un picadillo cubano e un’insalata verde, e cercavo di tenere a bada le emozioni. Mancava appena mezz’ora all’atterraggio quando annunciarono «cattive condizioni meteo a terra». Poco dopo toccammo suolo nel pieno di una tempesta di neve. E in pochi minuti il corteo di automobili si avviò lungo una strada intasata di macchine.

    E ora non stiamo andando da nessuna parte. Il semaforo diventa rosso. Il corteo è di nuovo costretto a fermarsi, questa volta davanti a un Chick-fil-A. Un’altra metafora. Sono in ansia e irritato, mi chiedo se qualcuno abbia in mente di fare qualcosa.

    Con perfetto tempismo nella testa mi rimbalza la voce di Sarah Palin. Fa sempre così, salta fuori non appena sono di pessimo umore. È come avere una fata madrina che mi odia.

    «Allora» chiede, «signor speranza e cambiamento, come vi sta andando?»

    È una battuta che ha cominciato a usare nel 2010, quando l’indice di gradimento del presidente Obama stava crollando e il Tea Party era in piena ascesa. Il fatto è che, tralasciando il suo tono strafottente, è una buona domanda. Ho passato la maggior parte dei miei vent’anni a Obamaworld. Dal punto di vista della carriera mi è andata bene. Ma più in generale? Come è successo a molte persone che si sono innamorate di un candidato poi eletto presidente, gli ultimi otto anni li ho praticamente passati sulle montagne russe. Un’elezione che aveva portato un vento di novità rovinata dalla batosta delle elezioni di medio termine. L’esaltazione di fare approvare una legge sulla sanità pubblica seguita dalla sfiancante necessità di difenderla. Il nostro primo presidente di colore aveva reso il paese quasi perfetto per il solo fatto di essere entrato alla Casa Bianca, ma dopo un anno avrebbe lasciato il posto a Donald Trump, l’incarnazione di tutti i nostri difetti.

    Le auto del corteo continuano a slittare. Per una trentina di chilometri sbandiamo a destra e a sinistra rischiando di scontrarci finché alla fine arriviamo davanti al South Lawn. Anche qui ho una routine da seguire: scendere dal pulmino, attraversare la West Wing e andare nel mio ufficio dall’altra parte della strada. Un tragitto che ho fatto migliaia di volte. E che non farò più. Mentre attraverso il Rose Garden, con il lastrico della colonnata che preme sulle suole delle mie scarpe in pelle, la domanda di Sarah Palin resta sospesa nell’aria di gennaio.

    Com’è andata veramente?

    * Acronimo di President Of The United States. (N.d.T.)

    ** Il Secret Service non va confuso con i servizi segreti. Si tratta in realtà di un’agenzia federale preposta alla sicurezza delle più alte cariche dello Stato. (N.d.T.)

    PRIMA PARTE

    OBAMABOT

    1

    L’assunzione in cielo

    Il 3 gennaio 2008 ho promesso di impegnarmi anima e corpo per Barack Obama. Non c’è stato bisogno di una formale dichiarazione d’amore. Nessuno mi ha tatuato sul petto il manifesto HOPE con la sua immagine. Eppure la mia trasformazione è stata immediata e totale. Prima ero un tipico studente all’ultimo anno di università poco interessato alla politica. Un istante dopo avrei dato tutto, ma proprio tutto, per un senatore neoeletto dell’Illinois.

    Non ero un tipico candidato a una simile conversione. L’estate prima che cominciassi a lavorare per Obama avevo fatto uno stage presso un giornale satirico, The Onion, dove il mio capo indossava scarpe da ginnastica con le rotelle e vendeva prodotti per l’igiene femminile da un banchetto alla sua scrivania. Era un lavoro da sogno. Portavo i caffè e mi davo un gran da fare. In cambio mi venne concesso di partecipare a una riunione di redazione e di vedere un caporedattore avvicinarsi pericolosamente a una crisi psicotica. «Siamo un giornale satirico, non un giornale stupido!» gridò, prima di uscire precipitosamente dalla stanza. Non avevo mai partecipato a un evento così importante.

    C’era solo un problema: non riuscivo a integrarmi. Essendo uno stagista, i miei compiti principali erano la correzione delle bozze e scrivere battute sul meteo. Le seconde, però, interferivano con la prima attività. Ogni mattina entravo in ufficio e pensavo: Nuvoloso con possibili rovesci di polpette! Mi rendevo conto che non era affatto divertente, ma quella frase mi si era infilata nella testa come un mantra, o come un tumore. Quindi i refusi rimanevano tali. E così le frasi illeggibili.

    Nuvoloso con possibili rovesci di polpette. Nuvoloso con possibili rovesci di polpette. Nuvoloso con possibili rovesci di polpette.

    Ma non era assolutamente un lavoro come un altro. Adoravo The Onion. Sono cresciuto a Manhattan e non dimenticherò mai i titoli sulla prima pagina di un numero uscito qualche settimana dopo l’11 settembre, quando ero ancora convinto che al-Qaida mi avrebbe ucciso prima che finissi il biennio del liceo.

    DIROTTATORI SORPRESI DI TROVARSI ALL’INFERNO

    _______________________________________________

    NON SAPENDO COSA FARE, LE DONNE

    INFORNANO UNA TORTA A STELLE E STRISCE

    In quel terribile momento un piccolo giornale satirico era tutto ciò che amavo del mio paese. Ribelle. Orgoglioso. Ottimista a dispetto di tutto. The Onion mi diede la speranza che non sarei morto vergine. Cosa poteva esserci di più edificante?

    Ma se la satira rappresentava il lato migliore dell’America, la politica ne rappresentava quello peggiore. La mia famiglia è la classica espressione del sogno americano. I miei bisnonni furono costretti a fuggire dalla Russia per evitare di essere uccisi a causa della loro religione. Due generazioni dopo i miei genitori fuggivano da New York per trascorrere i weekend nella loro casa di campagna. Non mi sono mai sentito in colpa per questo. Sono stato cresciuto nella convinzione che l’America ricompensa chi lavora sodo. Ma anche nella certezza che la fortuna ha un ruolo fondamentale nel decretare il successo di chi ce l’ha fatta da solo. Mi hanno insegnato che il prezzo da pagare per realizzare quel sogno è il dovere di renderlo sempre più possibile ad altri. È un prezzo più che giusto.

    Eppure chi governava il paese non la vedeva in questo modo. Con George W. Bush alla Casa Bianca milionari e miliardari erano stati favoriti da consistenti tagli alle tasse. Mentre alle scuole erano stati ridotti i fondi. Ponti e strade si deterioravano. Il reddito medio delle famiglie languiva. Il deficit si gonfiava a dismisura.

    E l’America era entrata in guerra. Il presidente Bush aveva invaso l’Iraq per distruggere le armi di distruzione di massa, una campagna finita male quando si scoprì che quelle armi non esistevano. Ma a quel punto era troppo tardi. Avevamo distrutto un paese e dovevamo accollarci le disastrose conseguenze. Colin Powell definì tutto questo la regola del Pottery Barn,* un’espressione onestamente non priva di una certa astuzia. Anche se è difficile immaginare una visita da Pottery Barn che costi migliaia di miliardi e migliaia di vite americane.

    In altre parole, i nostri leader avevano fatto scelte sbagliate. Quindi sarebbero stati sostituiti da leader migliori. È così che funziona il sistema, come mi avevano insegnato all’AP Government.** Di fatto, tuttavia, l’invasione dell’Iraq divenne il pretesto per un’oscura svolta antidemocratica. Chi contestava la guerra, le torture a cui venivano sottoposti i prigionieri – o anche solo la riduzione delle tasse – veniva accusato di qualcosa di simile al tradimento. Non si faceva più distinzione fra sostenere la politica del presidente e difendere le truppe americane. Era una strategia elettorale cinica e pericolosa. E funzionò.

    Come si vede, non sono cresciuto con un’alta considerazione dei politici. Ma sono cresciuto in un ambiente dove le persone mi ripetevano di continuo che avrei potuto cambiare il mondo. E nel 2004, ansioso di dimostrare che avevano ragione, feci il volontario nella campagna per le presidenziali di John Kerry.

    In teoria stavamo dalla parte giusta della Storia. Per l’uguaglianza! Per dare a tutti un’opportunità! Per i deboli! In pratica, tuttavia, essendo etichettati come antiamericani, i Democratici finirono per diventare miti ed esitanti, come i Munchkin del Meraviglioso Mago di Oz (The Wonderful Wizard of Oz) prima che arrivi Dorothy. Non avevo dubbi che Kerry sarebbe stato un presidente migliore di Bush, anche se non si mostrava mai del tutto sicuro delle sue possibilità. Era come se avesse avviato una campagna per dimostrare che il membro dei Beatles di maggior talento fosse Ringo. Rimasi sconvolto quando venne sconfitto. Ma più di tutto ero imbarazzato. Mi ero permesso di credere che il mio minuscolo intervento avrebbe potuto modificare il futuro della nazione. Che follia. Che ingenuità.

    Avevo chiuso con la politica. E avevo smesso di credere nei cliché. Cambiare il mondo era roba da ipocriti, quel genere di persone che si indignano davanti a un pomodoro non biologico ma non si sono mai fatti una domanda sull’erba che fumano. Riprenderci il nostro paese era uno slogan buono per quei criminali impiegatizi che si mettevano in giacca e cravatta per andare a lezione.

    E io? Una volta capito che non potevo cambiare il mondo, raddoppiai gli sforzi per scherzarci sopra. La mia grande passione all’università era stato il gruppo d’improvvisazione teatrale. Al secondo posto c’era una rivista umoristica. Quando arrivai a The Onion e scoprii che i miei colleghi più felici erano dei nichilisti goffi e stupidi non provai alcuna delusione. Provai anzi una specie di eccitazione. E il desiderio intenso di essere un cinico affascinante. Sognai di trovarmi un giorno coinvolto in estenuanti riunioni e di uscire come una furia dalla stanza. Ero maledettamente determinato a scrivere le migliori battute sul meteo che il giornale avesse mai pubblicato!

    Nuvoloso con probabili rovesci di polpette. Nuvoloso con probabili rovesci di polpette. Nuvoloso con probabili rovesci di polpette.

    A volte è difficile distinguere tra la mancanza di talento e la presenza di un destino. Quando iniziai l’attività che avevo sognato mi immaginai di comprare una quantità industriale di bloc-notes e di seguire le orme o, se aveva le scarpe con le rotelle, la traiettoria del mio capo. Ma quando fummo di nuovo in agosto Mariana, l’altra stagista, aveva già pubblicato sei battute sul meteo. Io neanche una.

    Sai, mi dissi, forse questo lavoro non è poi così importante, dopotutto.

    Per la prima volta nella mia vita cercavo uno scopo più nobile, ma dopo l’esperienza nella campagna elettorale di Kerry non pensavo assolutamente alla politica. Feci invece domanda per entrare nella CIA. Avendo studiato storia come prima materia all’università e avendo fatto esperienza di leadership nel mio gruppo teatrale, immaginavo di essere la persona più adatta per assicurare Osama bin Laden alla giustizia.

    Non ricordo dove mi trovassi quando ricevetti la telefonata della CIA. Essendo al mio ultimo anno di università, è molto probabile che mi stessi riprendendo da una sbronza o che me la stessi procurando. Non ricordo nemmeno come si chiamasse il mio interlocutore: era un nome tipicamente americano, come Chip o Jimmy. E aveva un’aria sorprendentemente allegra, come se stesse vendendo casalinghi porta a porta o appartamenti in multiproprietà.

    «Molto bene» disse Buddy, o forse Tex. «Giusto per sgombrare il campo, hai assunto sostanze proibite nell’ultimo anno?»

    Se avessi mentito alla CIA forse avrei superato l’esame. E invece di scrivere un libro sulla Casa Bianca ora starei avvelenando un boss della droga con un fucile a freccette nascosto in un fucile a freccette più grande, o facendo l’amore con una modella eccitata per la difesa della sicurezza nazionale. Non lo saprò mai. Ammisi di avere fumato qualche spinello due mesi prima.

    L’allegria improvvisamente sparì dalla voce dell’intervistatore. «In genere ci piace la gente che infrange le regole» disse Skipper, «ma non possiamo prendere in considerazione chi ha fatto uso di sostanze illegali negli ultimi dodici mesi.» E con queste poche parole mise fine alla mia carriera di cacciatore di terroristi.

    Pensai che il desiderio di darmi uno scopo più nobile sarebbe svanito insieme al sogno di entrare nella CIA, proprio come un contenitore di polistirolo segue il cibo cinese della sera prima nella spazzatura. Ma con mia grande sorpresa quel desiderio rimase vivo. Nelle settimane successive mi immaginai in ogni genere di identità: hipster, viaggiatore, banchiere, giovane bianco chitarrista blues. Ma erano tutte figure simili a un paio di jeans di una misura più stretti. Provarli mi dava una sensazione spiacevole allo stomaco, metteva in evidenza i miei difetti. La mia ricerca di un’identità diversa era iniziata a novembre. E alla vigilia di Capodanno ero impantanato in quel genere di depressione che porta la gente a scoprire Gesù, o la dieta Paleo, o Ayn Rand.

    Il 3 gennaio, invece, trovai un candidato.

    Ero su un aereo quando successe, mentre iniziava la discesa all’aeroporto JFK. Da poco si poteva vedere la TV in diretta su un aereo di linea e stavo passando dallo Home Shopping Network a un canale sportivo quando mi imbattei in un servizio sulla campagna elettorale in Iowa. Era appena terminata una riunione del partito per scegliere il candidato alle elezioni presidenziali e stavano per essere fatte le prime dichiarazioni. Non avendo niente di meglio da fare, mi assicurai di avere allacciato bene la cintura di sicurezza e di aver chiuso saldamente il tavolinetto. A quel punto, nel piccolo schermo inserito nello schienale della poltrona davanti, vidi un omino di cinque centimetri che cantava vittoria.

    Non è che Barack Obama mi fosse del tutto ignoto. Avevo ascoltato il suo intervento di apertura alla convention dei Democratici nel 2004. La sua campagna per le presidenziali aveva dato nuova energia ai miei amici più appassionati. Ma io ero troppo maturo per prenderli sul serio. Sostenevano la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d’America di un politico il cui secondo nome era Hussein. Perché allora non votare la Fatina dei denti? Perché non proporre Whoopi Goldberg come papa?

    E poi lo sentii parlare.

    Ripensandoci a molti anni di distanza, dopo avergli scritto dozzine di discorsi, sarebbe stato impossibile ascoltarlo senza fare mentalmente un po’ di editing. In quella storica serata nell’Iowa, Obama iniziò dichiarando: «Dicevano che questo giorno non sarebbe mai arrivato». A rileggere oggi quelle parole mi sorgono delle domande. Chi esattamente lo diceva? E dicevano davvero mai? Perché se erano veramente convinti che un candidato contrario alla guerra, e capace di mettere in atto una solida campagna di raccolta fondi, non avrebbe mai potuto prevalere in un Partito democratico diviso in tre correnti – con John Edwards che pescava nella base elettorale di Hillary Clinton, cioè i bianchi della classe operaia – voleva dire che non sapevano di cosa stavano parlando.

    Sono, tuttavia, considerazioni che feci più tardi, quando ormai soffrivo d’insonnia per lo stress e avevo accesso al ristorante della Casa Bianca gestito dalla marina. A quell’epoca ero affascinato. Il senatore proseguì: «In questo cruciale momento della nostra storia avete fatto ciò che i più cinici dicevano che non sareste stati capaci di fare». Parlava come i presidenti nei film. Sembrava più giovane di mio padre. E credevo senza remore o retropensieri a quel che diceva.

    Barack Obama parlò per i successivi dodici minuti e, tranne un istante, quando vennero estratti i carrelli per l’atterraggio e pensai che stessimo per morire, rimasi inchiodato. Disse che eravamo un unico popolo. Annuii con l’aria di chi la sa lunga al passeggero seduto al centro della fila. Disse che avrebbe voluto estendere l’assistenza sanitaria trovando un accordo fra Repubblicani e Democratici. Ero certo che sarebbe andata proprio come diceva. Poi rivolse lo sguardo alla folla di organizzatori e volontari.

    «Voi avete fatto tutto questo» disse, «perché credete fermamente nella più americana delle idee: anche di fronte alle peggiori avversità, chi ama questo paese è in grado di cambiarlo.»

    Come molti ventunenni, ero stato vittima di improvvise, divoranti infatuazioni. «C’è una ragazza» dicevo entusiasmandomi agli amici che tolleravano questo genere di cose, «una della California, e una volta ho trascorso con lei una settimana a Washington. Non potete immaginare quante cose abbiamo in comune!» Guardando Obama parlare sentivo un’attrazione elettorale, più che fisica. Ma in politica, come in altri campi, al cuore non si comanda.

    Io amo questo paese!, pensai. E posso cambiarlo! È come se mi conoscesse da sempre!

    Mentre ci avvicinavamo alla pista d’atterraggio cercai di dare un senso a ciò che era appena successo. Ero nato negli ultimi anni dell’era Reagan, quando il governo era il problema, non la soluzione. E ho votato per la prima volta nell’era Bush, quando la formula o stai con noi o stai con i terroristi veniva usata indifferentemente con gli oppositori interni e stranieri. Ma ora, sospeso a poche centinaia di metri sopra New York, un candidato alla presidenza mi aveva detto che non eravamo un insieme di stati rossi e blu, eravamo gli Stati Uniti d’America. Insieme avremmo potuto costruire qualcosa di molto più grande di quanto avremmo potuto fare da soli.

    Quando uscii dal finger, ero uno di quelli che non sarebbero rimasti in silenzio a proposito di Barack Obama. Non ero solo. Nei campus, in tutta l’America, si era formato un esercito di idealisti, un’orda di zombie assetata di speranza e cambiamento.

    Chi ci criticava avrebbe presto deriso l’intensità della nostra devozione. Obamabot,*** così ci avrebbero chiamato. Ma non si può dire che avessero tutti i torti. L’ossessione per Barack Obama non era stata una mia scelta. Era stato come ritrovarsi in uno di quei film di agenti dormienti-robot assassini che vengono prodotti ogni due o tre anni. Scatta un interruttore, viene attivato un codice da tempo in stand by, e all’improvviso il mite protagonista è capace di sbudellare i nemici con un cucchiaio. Non ho mai sbudellato nessuno, nemmeno quelli che dicono convinti: «Mi trovi su Linkedin». Resta il fatto che mi identifico con quel robot assassino. Ero stato programmato con la capacità di convincere gli amici a fare una donazione o di telefonare a gente scelta a caso per suggerire come votare. Adesso era scattato il mio interruttore.

    Quando tornai al campus mi iscrissi alla sezione locale di Obama for America. Gli organizzatori distribuivano elenchi di persone a cui telefonare, fogli pieni di numeri e nomi di estranei, e ogni sera digitavo al telefono finché non mi facevano male le dita. Oggi è più probabile che sia io a ricevere quel genere di chiamate. Ma riattacco subito, quasi temendo che qualcuno stia cercando di avvelenarmi al telefono. Nel 2008 invece, in quella stagione politica senza precedenti, i Democratici erano felici di ricevere un consiglio non richiesto da un estraneo che poteva bere legalmente da quattro mesi.

    Arrivai a pensare agli uomini e alle donne che chiamavo come ai miei elettori. Se non rispondevano, lasciavo un articolato messaggio di un minuto nella loro segreteria telefonica. Se rispondevano, ripetevo lo stesso messaggio, lasciando spazio alla fine per le domande. Personalizzavo il discorsetto con piccoli accorgimenti. A Tiffany potevo parlare della grande abilità di Obama nell’unire le persone. Tucker poteva essere informato delle sue radici nel Midwest. A Treshawn potevo ripetere tre o quattro volte la parola storico in una singola frase.

    In verità

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