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Alle Porte del Caos
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E-book449 pagine12 ore

Alle Porte del Caos

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Info su questo ebook

Il gioco si fa duro per l'agente dell'Aise Elena Soldati ed lo spetsnaz del GRU Viktor Lisin, inviati rispettivamente in Libano per investigare sulle minacce che gravano sul contingente UNIFIL ed in Siria per mettere in sicurezza le testate chimiche della Repubblica Araba Siriana. Dal passato emergeranno l'assassinio politico del premier libanese Rafiq Hariri e la guerra al terrore di George W. Bush, saldandosi in maniera perfetta con la cosiddetta “Primavera Araba”. Quale disegno è in serbo per i Paesi Arabi?

Secondo capitolo della trilogia dello spetsnaz Viktor Lisin, che più avanza nel labirinto mediorientale e più torna indietro nel tempo, verso il fatidico Undici Settembre.
LinguaItaliano
Data di uscita7 feb 2014
ISBN9788868857004
Alle Porte del Caos

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    Anteprima del libro

    Alle Porte del Caos - Federico Dezzani

    ALLE PORTE DEL CAOS

    di Federico Dezzani

    Antefatto

    Parte I

    Marzo 2009, Londra.

    Pronto?

    La disturbo, Signora?

    Professore, è lei? No, no. Non mi disturba: mi ero già alzata. Ma qui sono le sette di mattina, credevo che lei fosse negli Stati Uniti.

    Infatti, in Pennsylvania sono le due di notte: se in futuro sarà scelta per lavorare con noi, imparerà i miei orari. Mi bastano poche ore di sonno per notte, grazie ad una dieta ricchissima di zuccheri, tanta caffeina, un po’ di tabacco e la saltuaria assunzione di qualcosa di più stimolante...

    Non è la prassi chiamare un ufficiale del MI6 a casa senza un’urgenza. A cosa devo la sua telefonata?

    Parte col piede sbagliato, temo: se mi serve un’informazione non ci sono né orari, né impegni famigliari, né costrizioni. Ho saputo che ha parlato con Roland Dumas: cosa ha raccontato quel vecchio socialista francese?

    Mi è sembrato tutto meno che entusiasta alla proposta. Anzi, ho percepito una certa ostilità. Ha espressamente negato qualsiasi suo futuro contributo al progetto.

    Sono uomini che hanno fatto il loro tempo: ci sarebbe stato utile per le conoscenze di alto livello che ha accumulato come Ministro degli Esteri, ma non si può chiedere troppo a chi si è formato politicamente con François Mitterrand. Si parla di epoche in cui si nazionalizzavano le banche per motivi ideologici.

    Sarà di ostacolo per la collaborazione con i francesi?

    No, non cambia nulla. Non ci sono più né gollisti alla Chirac né socialisti alla Mitterand che abbiano desiderio di intralciarci. Dopo 43 anni, i francesi sono rientrati nel comando integrato della NATO con un’unica finalità: assisterci nel riassetto. Piaccia o meno a Dumas.

    Devo confessarle che qualche volta anch’io sono colta dalle vertigini per la vastità dell’impresa.

    Se ognuno porterà a compimento la propria parte, diventerà esso stesso l’ingranaggio di una grandiosa e inarrestabile macchina...

    Anche lei si reputa un componente di tale meccanismo, Professore?

    No, mia cara. A pochi eletti tocca l’onore e l’onere di dirigere le leve di comando ed imprimere una direzione a questa macchina. Ecco perché dormo poche ore per notte, Signora. Non crederebbe alla mole di lavoro che richiede ridisegnare il Medio Oriente.

    Spero che avremo maggiore fortuna di quanta avuta in Iraq o Afghanistan...

    Una parte degli obbiettivi che ci eravamo prefissati in quelle aree è stata comunque raggiunta.

    I cinesi si stanno accaparrando quasi la metà della produzione di greggio iracheno, se non sbaglio.

    Il soldato combatte per la paga, l’ufficiale per la carriera, il re per i gioielli della corona. La percezione dei fini di azioni così complesse, cambia in base alla distanza di ognuno dal vertice della piramide. Addio Signora.

    Professore? Professor Oswood? Bastardo. Ha riattaccato.

    Parte II

    Novembre 2010, Piattaforma semisommergibile Sedco Express, 130 km a largo di Haifa, Israele.

    E due. Due mogli in poco più di quattro anni. Della prima, francamente, gli era importato ben poco già prima di firmare il divorzio. Se non fosse stato per il bambino, sarebbe già stata sepolta in quella parte oscura della memoria da cui riaffioravano spiacevoli ricordi solo nei momenti di depressione.

    Il lucido barometro in ottone sul tavolo indicava alta pressione. Era appartenuto al nonno paterno, lupo di mare del Maryland.

    Ma la seconda, no. Su lei aveva puntato molto: molto aveva già investito perché il rapporto rimanesse saldo e altrettanto sarebbe stato disposto a spendere in futuro. Dannazione.

    Ma forse non era anche quella una prova di affetto? Perlomeno l’amore c’era stato. Se fosse stata una di quelle donne che si accontentavano di spendere il denaro sul conto corrente, il rapporto non si sarebbe interrotto, a causa della ripetuta assenza del coniuge, oltre i limiti pattuiti negli accordi prematrimoniali.

    Oltre l’oblò incrostato di salsedine si intravedeva la bandiera liberiana, simile in tutto a quella americana tranne per la presenza di una sola stella, sventolare placida sul pennone.

    D’altronde, cosa aspettarsi quando si trascorreva quasi nove mesi all’anno su una piattaforma galleggiante? C’era da stupirsi che l’incidenza di omosessuali fosse relativamente bassa.

    Gli sembrava di aver letto da qualche parte che la Royal Navy avesse avuto problemi in questo senso. Com’era quel celebre e caustico aforisma di Wiston Churcill sulle tradizioni della regia marina? Nient’altro che rum, sodomia e frustate, o qualcosa di simile.

    Sentì qualcuno salire veloce i gradini della scala metallica. Anzi, dovevano essere più persone a giudicare dallo scalpiccio. Sperò che l’elica dello scafo 2 non desse di nuovo rogne.

    Un brasiliano dalla tuta unta di grasso entrò togliendosi l’elmetto bianco. Alle sue spalle c’era un capannello di operai: Comandante, ce l’abbiamo fatta! Sono stati superati i 5.000 metri di profondità: abbiamo già intaccato le sabbie terziarie!

    E...

    C’è gas! Senza alcun dubbio, c’è gas! Potremmo anche superare le stime iniziali di 16 trilioni di metri cubi!

    Quelli della Noble Energy hanno davvero una fottuta fortuna. Dopo il giacimento Tamar, ora anche il Leviathan sembra gonfio come un ubriaco. Avranno tanto di quel gas da sommergere Israele. Non vedo l’ora di passare a loro le operazioni e staccare la piattaforma di qui. Detesto restare in posti che mi ricordano le ex-mogli.

    Ed ora, per festeggiare, andiamo a gustarci le bistecche più succose del Texas. Tutti da Virgie!

    Così dicendo la riunione dei maggiore azionisti si sciolse ed i presenti si incamminarono verso l’uscita dell’ampia sala, tra pacche sulle palle, strette di mano, compulsazioni dei cellulari e sommesse proteste dei vegetariani.

    Rimasero nella stanza solo due uomini: il primo era sulla quarantina, con una corona di capelli che gli cingeva la testa pelata ed un paio di leggeri occhiali da vista tondi; il secondo era sulla settantina, dai folti capelli bianchi tagliati corti e dai sottili e severi occhi azzurri.

    L’uomo dagli occhiali tondi si alzò in silenzio e si accostò alla spessa vetrata: da quel piano del grattacielo era possibile osservare il traffico delle sei di sera defluire dal centro di Houston, lungo il groviglio di autostrade.

    Sai quanto costerà sviluppare il giacimento, Herbert?

    L’anziano dagli occhi azzurri sfregò per qualche secondo la lingua sui denti prima di rispondere: Quattro. Forse quattro miliardi e mezzo.

    Sono tanti soldi. Tanti, Herbert.

    Con un misto di linee di credito e capitali freschi, non dovrebbe essere difficile racimolarli. Cercheremo di fare entrare nuovi investitori a lavori avviati.

    L’uomo dagli occhiali tondi staccò gli occhi dalle autostrade che si tingevano di rosso nel tramonto autunnale e fissò l’interlocutore: Sai benissimo che la mia preoccupazione non è trovare i soldi, Herbet. Ma la sicurezza del posto in cui verranno messi.

    Lo sforzo di concentrazione rese ancora più severi gli occhi azzurri: Domani vedo quelli del Foreign Affairs. Farò presente la situazione e chiederò loro di interessarsene.

    L’uomo dagli occhiali tondi annuì e tornò a fissare le autostrade.

    Le auto avevano già acceso i fari.

    Parte III

    Novembre 2010, uffici della Deutsche Bank, Chicago.

    Man mano che l’ascensore saliva, ripeteva mentalmente il discorso. Ogni fermata al piano serviva a ripassare un passaggio del ragionamento. Avrebbe dovuto essere lucido, cristallino, convincente. Realisticamente non avrebbe avuto più di cinque minuti a disposizione con il capo: il lunedì mattina era sempre caotico.

    L’ascensore fermò al suo piano. Gonfiò il petto, riempì i polmoni d’aria ed espirò ripetendo: palladio, palladio, palladio!

    Il senior manger Tim Cornie, da cinque anni presso gli uffici dell’investment banking di Deutsche Bank, non si riferiva al celebre architetto Andrea Palladio nato a Padova nel ‘500, ma al metallo omonimo, di grande valore, utilizzato nella gioielleria e per svariate applicazioni industriali.

    Il prezzo del palladio era salito di molto negli ultimi mesi, troppo secondo Tim Cornie. Aveva passato tutto il fine settimana davanti al computer analizzando grafici, volumi medi di scambio, oscillatori stocastici e oscillatori RSI: era giunto alla conclusione che il palladio aveva toccato il valore massimo raggiungibile nel breve periodo.

    Era tempo di scommettere, e forte, su una discesa del prezzo. Se fosse riuscito a convincere quel grassone tedesco del suo capo ad aprire una posizione ribassista sul palladio, attorno ai 300-400$ milioni, era certo di poter fare guadagnare alla banca molti soldi. Molti.

    Il successo dell’operazione gli avrebbe consentito anche di intascare un lauto bonus con cui dimezzare il mutuo sulla casa. Oltre a conseguire un probabile scatto di carriera.

    Appoggiò la scheda magnetica al lettore e salutò le segretarie oltre le porte vetri che si aprivano.

    Tim, Herr Stockem ti vuole vedere subito nel suo ufficio. C’è Rodney con lui incalzò secca una segretaria dopo un accenno di saluto.

    Rodney? Che ci faceva quel fighetto moccioso nell’ufficio del tedesco alle nove di lunedì mattina? Che avesse fatto qualche cazzata e che finalmente avessero deciso di licenziarlo?

    Tim Cornie entrò nell’ufficio di Herr Stockem: a giudicare dall’aria di allegria e complicità che si respirava, il licenziamento era da escludere.

    Herr Stockem sorrideva compiaciuto sotto i baffi castani: Tim, benarrivato! Prego, accomodati ed ascolta la storia incredibile che ha da raccontare il buon Rodney.

    Buon Rodney? Da quando il tedesco conosceva quel fighetto? Da quando lo chiamava per nome di battesimo? E da quando quell’incapace era diventato pure buono?

    Rodney, che in clima di famigliarità si era anche allentato la cravatta, cominciò a parlare. Il viso era rivolto verso Tim Cornie, ma gli occhi non si staccavano dal tedesco che lo ammirava compiaciuto.

    Venerdì sera ho finito di lavorare verso mezzanotte o l’una: volevo portarmi avanti già per il lunedì successivo. Fatto sta che, quando ho finito qui, mi sono detto: è pur sempre venerdì sera!

    II tedesco sorrise: evidentemente conosceva già la storia, pensò Tim.

    Ho deciso quindi di fare un salto al Funky Buddha Lounge, per bere due drink e incontrare due amici. C’è davvero della bella musica al Funky Buddha Lounge!

    Il tedesco scuoteva la testa in senso di approvazione: quel vecchio crucco era mai stato al Funky Buddha Lounge?

    Rodney proseguì: E chi non ci incontro? Gary Johnson! Un mio grandissimo amico fin dall’infanzia, con cui ho studiato anche ad Harvard! Grandissima famiglia del Maine!

    Il tedesco sembrava interessato a questi dettagli dinastici.

    Gary Johnson da tre anni lavora niente meno che nell’investment banking di Goldman Sachs: carriera fulminante. Era già un genio da bambino. Fatto sta che venerdì sera Gary era completamente ubriaco. Completamente ubriaco! L’ho trovato che stava succhiando la tetta di una modella messicana ad un tavolo privato.

    Succhiare una tetta? Tim era sconcertato: eppure il tedesco aveva pure riso divertito all’espressione.

    Gary festeggiava perché aveva incassato un bonus da due milioni ed era sicuro che presto ne avrebbe fatti altrettanti...

    Il tedesco si fece improvvisamente serio, si parlava di soldi, e approfittò della sospensione di Rodney per intervenire: Ecco, veniamo al punto. Illustra a Tim, come il tuo amico conta di fare molti soldi.

    Rodney sorrise e agitò la testa impomatata in segno affermativo: stava per svelare la sua perla.

    Tim era roso dall’odio: a quel coglioncello era cascata in mano una dritta come una pera matura.

    Grano. Scommettendo sul rialzo del grano!

    Rodney tacque soddisfatto, osservando ora il tedesco, ora Tim.

    Tim era allibito: "Fammi capire, vuoi puntare sul rialzo del prezzo del grano perché un tuo amico d’infanzia, ubriaco fradicio, ti ha detto che il valore aumenterà, mentre stava succhiando le tette ad una messicana in discoteca?

    Il tedesco intervenne piccato. Non gli piaceva che si ridicolizzasse la sua giovane promessa: Rodney, finisci il discorso. Il tuo amico ti ha anche detto PERCHE’ il prezzo salirà.

    Rodney, indifferente all’attacco dell’ormai probabile suo ex-superiore, finì il discorso: "Il prezzo del grano salirà, perché DEVE salire. È stata presa una decisione dai capi, dei capi, dei capi di Gary. Il prezzo del grano e degli alimenti deve aumentare in concomitanza di qualcosa di molto grosso che si sta preparando in Medio Oriente. Si interverrà sul mercato dei future fino a fare salire il prezzo alle stelle."

    Perché il prezzo degli alimenti deve salire? Cosa c’entra il Medio Oriente? chiese Tim Cornie.

    Il tedesco intervenne: Sai durante quale evento Maria Antonietta pronunciò la frase: -se non hanno pane, mangino brioches-?

    Parte IV

    Gennaio 2011, Tirana, Albania

    I primi disordini erano scoppiati un mese prima: Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Giordania, Siria, Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait e Oman.

    Le proteste erano divampate nell’intero Grande Medio Oriente. La situazione era tutta in divenire ed era impossibile ai più azzardare quale piega avrebbero preso gli avvenimenti.

    Le proteste avrebbero dovuto attecchire però anche sulla sponda nord del Mediterraneo, replicando quel caos che nel 1997 aveva travolto l’Albania, già minata da una serie di fallimenti finanziari. Nell’anarchia che si era impadronita del Paese, la caserme dell’esercito era state prese d’assalto e svuotate di armi, esplosivi e munizioni. Almeno 200.000 Kalashnikov sottratti alle forze armate riapparvero a Pristina, alimentando le attività del neonato UÇK, l’esercito di liberazione del Kosovo. Si sperava che anche questa volta uscissero dai depositi altrettante armi.

    La tensione a Tirana era alta il 21 gennaio.

    La manifestazione contro il governo di Sali Berisha, accusato di presunti brogli elettorali dall’opposizione, aveva raccolto molti manifestanti. Le forze dell’ordine stimavano fossero 20.000, ma gli organizzatori delle proteste sostenevano fossero dieci volte tanti.

    La tensione nell’aria era palpabile. I manifestanti si erano ammassati attorno alla sede del governo, difesa dalla Guardia Repubblicana. Avevano cominciato a volare bottiglie incendiarie e pietre. La Guardia Repubblicana era asserragliata dietro i cancelli dell’edificio ed i manifestanti erano già riusciti a sfondare un ingresso, da cui si lanciavano in breve incursioni.

    Era un crescendo di agitazione. Correva voce che fossero morti già due manifestanti negli scontri con le forze dell’ordine. Sarebbe bastato un niente perché la situazione precipitasse.

    L’agente che fungeva da palo era appostato in prossimità del cancello sfondato: da lì poteva osservare il cortile ed i poliziotti che arretravano sotto i lanci delle pietre. Il momento sembrava propizio. Fece un segno d’intesa al sicario.

    Il killer, un uomo non più giovane dai capelli bianchi, annuì. Si guardò attorno. Pochi passi più in là un ignaro manifestante era fermo ad osservare la pioggia di sassi verso la polizia.

    Il sicario estrasse dalla tasca sinistra del giaccone l’arma, nascondendola con un berretto tenuto con la mano destra. Si avvicinò al manifestante.

    Dalla folla uscirono due complici dai giubbotti neri, si avvicinarono al sicario in modo da impedire la visuale a potenziali osservatori. Il manifestante era sempre fermo in prossimità dei cancelli.

    Il sicario si avvicinò con discrezione al manifestante, tenendolo a pochi centimetri dal suo fianco destro. Attese un paio di secondi e sparò un colpo: l’uomo si accasciò a terra urlando.

    La confusione esplose.

    Approfittando del caos, il sicario si avvicinò ai cancelli dove l’agente che fungeva da palo attendeva. Gli consegnò l’arma nel berretto e si dileguò nella ressa.

    L’hanno ammazzato! È stata la Guardia Repubblicana. L’hanno ammazzato loro!: le grida si alzavano cariche di odio, invocando vendetta.

    Un uomo, il cui volto era coperto dal cappuccio di una felpa, fumava placidamente sotto un lampione osservando la folla scemare dal luogo degli incidenti: per lui la giornata era stata proficua.

    L’uomo col cappuccio era un militante del MJAFT!, una ONG albanese il cui obbiettivo officiale era sensibilizzare i cittadini sulle tematiche sociali e politiche del Paese.

    La MJAFT! era dotata di personale che vi lavorava a tempo pieno, i propri attivisti viaggiavano dentro e fuori l’Albania, intesseva i rapporti con la diaspora albanese e curava un sito web per mantenere i rapporti con i simpatizzanti.

    Una parte cospicua delle spese sostenute dalla La MJAFT! erano coperte direttamente dagli Stati Uniti d’America, che ne avevano anche incentivato la nascita sul modello della Otpor!.

    Otpor! era un’organizzazione serba che aveva coordinato e capeggiato dure manifestazioni contro Slobodan Milosevic, fino alla sua deposizione nel 2000 e l’estradizione alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

    Il movimento Otpor! aveva funto da modello non solo per le proteste in Albania, ma anche per quelle di Libia, Egitto, Algeria, Siria e gli altri paesi interessati dalla Primavera Araba.

    Otpor! ed un’analoga ONG serba denominata CANVAS (Centre for Applied Nonviolent Action and Strategies) potevano essere considerate a tutti gli effetti la scuola dei rivoluzionari europei, mediorientali e sudamericani a libro paga degli americani.

    Parte V

    Marzo 2011, Il Cairo Egitto

    Serpeggiava un clima pesante attorno al tavolo circolare che riuniva i 22 aderenti della Lega Araba, riunitisi nella sede che affacciava sulle acque del Nilo.

    L’oggetto della votazione era la richiesta alle Nazioni Unite di imporre una No-fly zone sopra la Libia, fino a quel momento caldeggiata solo da due Paesi europei: Regno Unito e Francia. Gli Stati Uniti avevano preferito mantenere un basso profilo, sebbene alti funzionari del governo paragonassero la reazione del Colonnello Gheddafi contro i rivoltosi agli episodi di violenza che nel 1995 avevano indotto la NATO ad intervenire in Bosnia.

    Si erano tenuti i consueti colloqui precedenti alla votazione ed era emerso subito che il giudizio non sarebbe stato unanime. Esistevano profonde e insanabili divergenze. Ma a creare reciproca freddezza e diffidenza era stata la percezione che quei colloqui fossero dialoghi tra sordi: la decisione era stata presa in anticipo, in altri sedi ed in altri tempi, grazie ad un’intensa attività di lobbying.

    In un voto senza precedenti, l’intera Lega sembrava invocare l’intervento militare straniero in terra araba, eccezion fatta per Algeria e Siria.

    L’ambasciatore siriano Youssef Ahmed decise di prendere pubblicamente la parola per stigmatizzare il comportamento dei colleghi. Si alzò e parlò senza ricorrere ad appunti o note: Signori, prima di procedere alla votazione, vi chiedo di esaminare con cura le ragioni che guideranno la vostra scelta, interrogando le vostre coscienze: gli stati arabi dovrebbero opporsi a qualsiasi azioni che violi la sovranità, l’indipendenza o l’unità del territorio libico. Dov’è finito l’orgoglio panarabista che ha formato intere generaz...

    L’ambasciatore del Qatar interruppe con veemenza il discorso: Si sieda e taccia! In questa sala sappiamo tutti che la Siria e l’Algeria forniscono armi al Colonnello per reprimere la gloriosa rivoluzione libica, per cui si sono immolati già molti martiri!

    L’ambasciatore algerino alzò gli occhi da un foglio su cui stava scrivendo, gettò un’occhiata al qatariano, e tornò al suo lavoro.

    Youssef Ahmed sorrise ed alzò le mani come per abbracciare l’intera sala: Che dire allora delle gloriose rivoluzioni soffocate nel sangue nella Penisola Araba? Tutti i presenti sanno che è imminente un’invasione del Bahrein da parte dell’Arabia Saudita, per schiacciare la maggioranza sciita che invoca riforme e diritti.

    In sala scoppiò il putiferio.

    L’ambasciatore saudita, paonazzo in viso, si mise a urlare: Voi siete la prossima Libia! Voi siete i prossimi! Preparatevi!

    Trascorse parecchio tempo prima la confusione in sala scemasse a livelli accettabili e si potesse procedere con la votazione.

    Non ci furono sorprese: 20 favorevoli e due contrari affinché si domandasse all’ONU di tenere a terra gli aerei del Colonnello.

    La Casa Bianca, in una breve nota, dichiarò di accogliere con favore la votazione della Lega Araba e, come già detto a inizio marzo, il Segretario di Stato Hillary Clinton ribadì che per gli Stati Uniti l’imperativo strategico era sostenere le rivolte arabe.

    Parte VI

    Giugno 2011, Asalūyeh, 300 km a sud di Busher, Iran

    Accordi o convenzioni di grande rilevanza non potevano essere siglati in un qualsiasi posto. Era necessaria una località ricca di significati per sigillare un patto di storica portata.

    Maestri in quest’arte furono i tedeschi ed i francesi che si massacrarono vicendevolmente e periodicamente tra ‘800 e ‘900. Cominciarono i tedeschi nel 1871 che, sull’onda della schiacciante vittoria ottenuta a Sedan, vollero siglare l’armistizio con la Francia niente meno che a Versailles, simbolo del potere imperiale francese. Toccò quindi a Parigi che, su un vagone ferroviario nascosto dai boschi della Piccardia, fin dove si era spinta l’avanzata tedesca, volle siglare l’armistizio del 1918. Su quello stesso vagone, 22 anni dopo, la Francia avrebbe firmato la propria resa di fronte alla guerra lampo del 1940.

    Quale accordo di importanza strategica poteva essere firmato a Asalūyeh, porto industriale nella regione di Busher, nota quest’ultima soprattutto per il primo reattore nucleare iraniano?

    La città di Asalūyeh era il fulcro della Pars Special Energy Economic Zone, un’area industriale che si estendeva per oltre 100 chilometri quadrati nell’entroterra a ridosso del Golfo Perisco e da cui si innalzavano infinite torri di acciaio per il frazionamento del petrolio e bruciatori a perdita d’occhio, da cui zampillavano qua e là alte fiammate. Il paesaggio racchiudeva tanto l’industriosità necessaria a strappare alle viscere della terra le ricchezza nascoste, quanto la maestosa violenza che quelle stesse ricchezze avrebbero scatenato una volta liberate dall’uomo.

    Asalūyeh ospitava i terminali delle condotte del South Pars, il più grande giacimento di gas al mondo fino a quel momento scoperto.

    Le tre Mercedes nere Classe E parcheggiarono di fronte ad un anonimo ufficio pubblico sul lungomare. Un cordone di paracadutisti della Repubblica Islamica Iraniana, dal basco verdone, si strinse attorno alle vetture fornendo copertura agli illustri ospiti. Scrutavano le strada e gli edifici antistanti, con il dito sui grilletto dei fucili d’assalto Vepr, alla ricerca di qualsiasi minaccia.

    Dalla prima Mercedes uscì un uomo con un vestito grigio senza cravatta e un paio di occhiali da sole che si tolse entrando nell’edificio. Aveva un folta capigliatura grigia, una carnagione olivastra e una curata barba bianca che gli cingeva il mento. Ingegnere, 54 anni, aveva gli occhi duri di chi nella vita aveva già visto tutto: era Mohammad Aliabadi, ministro iraniano del petrolio.

    Dalla seconda Mercedes uscì un uomo con un elegante spezzato antracite dalle sottili righe grigie, sopra una camicia bianca ed una cravatta granata. I dritti capelli bianchi erano agitati dalla brezza marina ed un sicuro sorriso illuminava il paffuto viso. Ingegnere, 52 anni, sciita di Baghdad, aveva gli occhi smaliziati di chi conosceva ogni scherzo che poteva riservare la vita: era Abdul Karim Luaibi, ministro del petrolio iracheno.

    Dalla terza Mercedes uscì un uomo dal vestito blu scuro e dalla cravatta marrone. I radi capelli grigi sormontavano una testa tonda dominata da un grande naso schiacciato. Ingegnere, 67 anni, siriano nato sul confine iracheno, aveva lo sguardo assente di chi è assorbito da tanti e diversi problemi: era Sufian Allaw, ministro del petrolio siriano.

    Furono accompagnati in una sala dalla boiserie color castagno e illuminata a giorno dalle luci artificiali. Sotto una grande mappa appesa alla parete raffigurante il Golfo persico, correva un lungo tavolo di legno laccato di nero, alle cui estremità erano posti due pennoni da cui si adagiava la bandiera iraniana.

    I funzionari stavano preparando la cerimonia, chi dando un’ultima scorsa ai documenti, chi ordinando i dossier, chi sistemando le penne, chi disponendo i fotografi.

    Un lieve chiacchiericcio si alzava dalla sala.

    Nell’attesa, l’iraniano Mohammad Aliabadi prese in disparte l’omologo siriano e gli espresse la propria certezza sulla capacità di Damasco di domare con celerità le insurrezioni: erano passati quasi sei mesi da quando erano scoppiati i primi disordini ma, col pugno di ferro, rassicurava Mohammad Aliabadi, le autorità avrebbero scacciato senza problemi quella feccia.

    Fu comunicato che i documenti erano pronti: si poteva procedere.

    Il primo a sedersi fu Mohammad Aliabadi: firmò senza sorrisi né cerimoniali, sicuro e deciso.

    Il secondo ad accomodarsi fu Abdul Karim Luaibi: si guardò attorno, sorridendo alla sparuta platea, e siglò con una certa solennità.

    L’ultimo ad occupare lo scranno fu Sufian Allaw: firmò con la gravità di chi sapeva di rischiare tutto nel gioco.

    I tre si raggrupparono ancora una volta stringendosi la mano a vicenda: era fatta, il progetto era nato, almeno sulla carta.

    1500 km.

    300 km in Iran. 500 km in Iraq. 700 km in Siria.

    Dal giacimento più grande del mondo, il South Pars, verso est fino a Damasco, poi a nord verso la Grecia, per raggiungere infine il mercato europeo.

    Inizio dei lavori nel 2014. Capacità giornaliera stimata superiore ai 100 milioni di metri cubi. Investimento previsto pari a 10 miliardi di dollari.

    Erano state gettate la basi del gasdotto sciita, che avrebbe segnato la morte del gasdotto Nabucco ed un durissimo colpo al gasdotto sunnita.

    Tutti e tre i ministri del petrolio erano convinti, chi più velatamente, chi più palesamene, che quegli schizzi d’inchiostro avrebbero reso ancora più cruenta la Primavera Araba, imprimendo maggiore violenza agli avvenimenti.

    O forse, con quella firma, dichiaravano solo di accettare una sfida già lanciata?

    Parte VII

    Settembre 2011, quartiere Zeyntiburnu, Instanbul

    La Ford Mondeo nera era parcheggiata sul lungomare Kennedy Caddesi o Viale Kennedy.

    Alexander Zharkov abbassò il finestrino posteriore sul lato passeggero: il sole picchiava ancora forte sul tetto della macchina in sosta.

    Abbassate anche i vostri, così circola l’aria.

    Il conducente obbedì senza distogliere lo sguardo dal Bosforo: all’orizzonte, sullo sfondo di un azzurro indefinito in cui cielo e mare erano un tutt’uno, un folto numero di petroliere e navi cargo si allargava nel Mar di Marmara dopo le costrizioni dello stretto del Bosforo.

    Il conducente si sfilò gli occhiali da sole e fissò lo specchietto retrovisore, scrutando il viso di... Qual era il suo attuale nome? Ah sì. Alexander. Alexander Zharkov. Ad ogni modo il nome cambiava ad ogni missione, ma il viso era sempre lo stesso: il duro, inscrutabile, freddo volto di un uomo sulla fine dei quaranta, che aveva già speso troppe emozioni per provarne ancora.

    L’uomo che attualmente si faceva chiamare Alexander Zharkov era un membro del Gruppo di Berlino: così era soprannominata un’organizzazione di assassini professionisti con sede nella capitale tedesca. Il Gruppo di Berlino riceveva le direttive dai servizi segreti russi e neppure i sicari dell’organizzazione, che lavoravano sempre in squadre formate dagli stessi tre elementi, sapevano quanti e chi fossero i loro colleghi.

    La specialità della squadra di Zharkov erano i ceceni. Sul passaporto c’era un altro nome che neppure più ricordava quando nel 2004 si era spinto fino in Qatar. La sua squadra aveva piazzato una bomba sotto il fuoristrada di Zelimkhan Yandarbiyev, leader ceceno ospite dell’emiro. La squadra di Zharkov era stata così discreta che i Qatariani, presi dalla disperazione, avevano arrestato tre russi a caso che lavoravano all’ambasciata.

    Quanti sono? chiese il terzo uomo sul sedile anteriore del passeggero.

    Questa mattina si parlava di tre. L’ultimo aggiornamento dice cinque rispose Zharkov, passandogli alcune foto che teneva sul sedile.

    Nomi?

    L’obbiettivo principale è Berg-Khazh Musayev: si occupa di raccogliere fondi per l’organizzazione e di reclutamento. Il secondo è Rustam Altemirov: è quello che ha piazzato la bomba all’aeroporto Domodedovo a gennaio. Trentasette morti. Il terzo è Zaurbek Amriyev. Degli altri due non so i nomi.

    Tutti ceceni?

    Per quanto ne so sì, tranne Amriyev che è inguscio.

    Una foschia grigia si stava addensando sul mare. Nel tardo pomeriggio avrebbe potuto piovere.

    Il telefono nella tasca del giubbotto di Zharkov vibrò. Lo estrasse e lesse il testo di un messaggio.

    Andiamo. Stanno uscendo dalla moschea.

    La Ford Mondeo si mise in moto, percorse un breve tratto lungo Kennedy Caddesi, quindi mise la freccia a destra e svoltò in Turan Gunes Caddesi.

    Li vedo. Trenta metri davanti a noi.

    Dove? Io non vedo niente disse Zharkov.

    Supera il bus ordinò secco il terzo al conducente.

    La Ford Mondeo superò un vecchio bus Honda azzurro.

    Eccoli là, venti metri prima dell’insegna del bar. Accosta! Sono cinque in effetti: chi cazzo è il gigante? Ce la fai con cin..

    Zharkov era già sceso dalla Mondeo.

    Oltrepassata una fila di auto in sosta, aveva raggiunto il marciapiede di sampietrini su cui il via e vai del primo pomeriggio scorreva spensierato.

    Camminava con le mani nelle tasche del giubbotto scamosciato. Si alzò in punta dei piedi per osservare il gruppo di ceceni, che aveva superato i clienti di un venditore ambulante di gelati.

    Accelerò il passo. Lanciò un’occhiata lungo la strada: niente polizia o militari. Mancavano quindici metri.

    Aprì completamente la cerniera del giubbotto. Mancavano dieci metri.

    Dal chiosco di un kebab uscì una comitiva di studenti. Crearono un improvviso muro tra Zharkov ed i ceceni. Mancavano cinque metri.

    Levatevi dal cazzo! esclamò in russo Zharkov, mentre con il braccio sinistro spintonava via un ragazzo e con la destra estraeva la MP-443 Viking. Sulla pistola era avvitato un lucido e sinistro silenziatore.

    I cinque ceceni furono immediatamente allarmati dalle parole in russo. Si voltarono di scatto, ma per tre dei cinque non ci fu più scampo.

    A distanza di pochi metri Zharkov esplose due colpi da 9 mm nel volto di Rustam Altemirov: l’occhio e lo zigomo sinistro furono asportati di netto. Due secondi.

    Rivolse la pistola verso Zaurbek Amriyev il cui volto inorridito era stato imbrattato dagli schizzi di sangue di Rustam: un proiettile alla gola ed uno nell’osso frontale del cranio. Zaurbek crollò scompostamente a terra. Quattro secondi.

    Berg-Khazh Musayev era scattato dal marciapiede verso le auto in sosta. Il russo sparò al bersaglio in movimento. Tre proiettili si conficcarono nel baule di un Fiat Fiorino. Il quarto fece esplodere il vetro posteriore.

    Quel bastardo gli era sfuggito.

    Zharkov saltò sul cofano di una Opel Astra, osservando la fila delle vetture posteggiate.

    Dove si era nascosto?

    ISA! ISA! VIENI! DI QUA!

    Si guardò attorno. Chi aveva gridato in ceceno? Non aveva il tempo di occuparsene. Doveva rimanere focalizzato sull’obbiettivo principale. Quindici secondi.

    Il russo vide una sagoma sporgere da un furgone. Aprì il fuoco.

    Berg-Khazh Musayev crollò a terra colpito al ginocchio ed alla spalla. Il russo saltò giù dal cofano e si avvicinò al ceceno che strisciava sui gomiti.

    Abbiamo i mezzi, le capacità e la volontà di trovarvi. Nessuno rimarrà impunito.

    Il russo sparò ancora un colpo silenziato in pieno petto ed un secondo in mezzo agli occhi di Musayev. Una chiazza di sangue si allargò sull’asfalto nero. Trenta secondi.

    Alzò gli occhi. Ne mancavano ancora due. Dov’erano il gigante e l’altro?

    La Ford Mondeo nera inchiodò alle sue spalle: Andiamo! Andiamo! Andiamo! Non c’è più tempo!

    Slittò sulle gomme anteriori e ripartì a tutta velocità.

    Prima qualcuno si riaffacciò dai negozi. Poi furono le persone a bordo delle vetture rimaste bloccate a scendere in strada. Infine si rialzò chi si era gettato a terra. Passò un minuto abbondante prima che si levassero grida di paura e terrore.

    La velocità dell’azione era stata tale che, se non fosse stato per i tre cadaveri sfigurati, avrebbe potuto non essere mai avvenuta.

    Da quel punto della passeggiata era possibile osservare la Torre di Leandro, edificata dai bizantini per serrare all’occorrenza l’ingresso del Bosforo con una lunga catena metallica, da un’estremità all’altra dello stretto.

    Il cielo era sempre più scuro e giungeva già l’eco lontana di tuoni.

    Zharkov si avvicinò al fotografo che stava aggiustando il treppiede.

    Tutto bene? chiese il fotografo.

    I tre concordati sono andati. I due che si sono aggiunti all’ultimo...No.

    Colpa nostra. Abbiamo saputo che sarebbero stati in cinque solo all’ultimo minuto: avresti dovuto organizzarti in un altro modo. Cosa sai dirmi di loro?

    Uno era un gigante. Enorme. Due metri di altezza per almeno 110 kg. Completamente rasato in testa con una lunga barba quasi rossa. L’altro era mingherlino ed aveva lunghi capelli castani. Ho anche un nome: Isa. Ma non so se fosse del gigante o dell’altro.

    Bene così.

    Il fotografo scrutò il cielo: nubi nere ribollivano sopra il Bosforo.

    Fra poco farà temporale. Passa ancora in albergo e lascia lì tutto: pistola e passaporto.

    L’uomo il cui attuale nome era Zharkov annuì: Sappiamo cosa facevano a Istanbul questi papaveri ceceni?

    Mercoledì si sono visti con un occidentale. L’abbiamo seguito fino all’aeroporto Sabiha Gökçen. Si è imbarcato sul volo Istanbul-Adana.

    Zharkov rimase interdetto: averebbe dovuto essere una spiegazione esauriente quella?

    E con ciò?

    Il fotografo guardò in volto Zharkov per la prima volta da

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