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Notte selvaggia
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E-book225 pagine3 ore

Notte selvaggia

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Info su questo ebook

"“Vi invidio, se ancora non lo avete letto” - JO NESBØ

“Jim Thompson è senza alcuna eccezione il più grande scrittore di suspense di sempre” - NEW YORK TIMES

“I suoi romanzi proiettano una luce abbagliante sulla condizione umana” - WASHINGTON POST

Se un grande autore come Joe R. Lansdale si scomoda per dire che Notte selvaggia è uno dei suoi romanzi preferiti nella produzione dell’'matissimo Jim Thompson, una ragione dovrà pur esserci.
In effetti, la figura tormentata del protagonista, Carl Bigelow, il killer assoldato dall’Uomo, un misterioso mandante, avvince dalla prima pagina.
In un perfetto e maligno gioco delle scatole cinesi, due donne di malaffare mandano in tilt le convinzioni dell'efficiente sicario chiamato a uccidere Jake Winroy, testimone scomodo in un processo imminente che rischia di mettere in crisi l’impero del male dell’Uomo. Ma far fuori qualcuno in una sonnolenta cittadina di provincia, facendolo sembrare un incidente, non è per niente facile.
Per riuscirci, Bigelow fa leva sul suo ascendente sul gentil sesso e circuisce Fay, la moglie della vittima, impresa non complicata dato che la donna attende da tempo la chance di farsi una nuova vita. Peccato che di mezzo ci sia Ruth, la ragazza delle pulizie di casa Winroy, alle cui avance spietate Carl non può che cedere. Colto fra due fuochi, Bigelow sente cedergli la terra sotto i piedi.
Le sue certezze si sgretolano e i dubbi lo tormentano: e se fosse stato l’Uomo a mettere tutti quegli ostacoli sulla sua strada per farlo vacillare e portarlo alla follia? È una caccia shakespeariana al proprio fantasma in cui Bigelow dovrà scegliere tra il diavolo che ha in sé e il demone occulto sotto cui si cela l’Uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2020
ISBN9788830517721
Notte selvaggia
Autore

Jim Thompson

Jim Thompson è nato a Anadarko, in Oklahoma, nel 1906. Ha cominciato a scrivere molto giovane, vendendo il suo primo racconto a True Detective quando aveva solo 14 anni. Ha scritto 29 romanzi e ha sceneggiato Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, capolavori di Stanley Kubrick. Da molti suoi libri sono stati tratti dei film, sia negli Stati Uniti sia in Europa. È morto a Hollywood nel 1977. Nonostante la sua opera abbia ricevuto sin dall’inizio alcuni riscontri critici positivi, la sua statura letteraria è stata pienamente riconosciuta solo a partire dagli anni ’80 del Novecento, quando si è affermato come uno dei grandi scrittori statunitensi e uno dei massimi maestri mondiali del noir e del genere hardboiled.

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    Anteprima del libro

    Notte selvaggia - Jim Thompson

    1

    Mi ero preso un leggero raffreddore quando avevo cambiato treno a Chicago, e i tre giorni a New York – tre giorni di pupe e sbornie in attesa di incontrare l’Uomo – non avevano certo migliorato la situazione. Mi sentivo uno schifo quando arrivai a Peardale. Per la prima volta dopo anni, nella mia saliva c’era una lieve traccia di sangue.

    Attraversai a piedi la piccola stazione ferroviaria di Long Island e mi fermai a guardare la via principale di Peardale. Si estendeva all’incirca per quattro isolati e divideva la città in due metà irregolari. Terminava all’altezza della facoltà di Magistero, una mezza dozzina di edifici in mattoni rossi sparsi su una dozzina di acri di campus maltenuto. La palazzina più alta era di tre piani. Le abitazioni avevano un’aria un po’ cadente.

    Mi venne un accesso di tosse e accesi una sigaretta per calmarla. Mi domandai se potevo arrischiarmi a bere un paio di bicchierini per tirarmi fuori dai postumi della sbornia. Ne avevo bisogno. Sollevai le mie due valigie e mi incamminai.

    Forse in parte era una conseguenza del mio umore, ma più mi inoltravo in Peardale, meno mi piaceva. Tutto quanto il posto aveva un’aria vagamente decaduta, prematuramente morta. Non c’erano industrie, in apparenza; solo agricoltura. E non ci sono pendolari, in una città a novantacinque miglia da New York City. Senza dubbio frequentare la facoltà di Magistero aiutava un tantino, ma nulla di più, pensai. Aveva qualcosa di triste, qualcosa che mi ricordava quegli uomini mezzi calvi che si pettinano col riporto.

    Camminai per un paio di isolati senza avvistare un bar, né sul corso né nelle vie laterali. Sudando, tremando un poco internamente, posai le valigie e accesi un’altra sigaretta. Tossii ancora un po’. Imprecai tra me contro l’Uomo, coprendolo di tutti gli epiteti che mi vennero in mente.

    Avrei dato tutto quel che avevo solo per trovarmi di nuovo alla stazione di servizio in Arizona.

    Ma questo non era possibile. O me e i trenta testoni dell’Uomo, o niente più me, anzi, niente di niente.

    Mi ero fermato davanti a un negozio, un negozio di scarpe, e mentre mi raddrizzavo vidi di sfuggita il mio riflesso nella vetrina. Non ero un granché, come aspetto. Si poteva affermare, senza mentire, che ero migliorato del cento per cento negli ultimi otto-nove anni; ma nel complesso continuavo a non essere un granché. Non che il mio muso fermasse gli orologi o roba simile, sia chiaro; era per via della mia taglia. Sembravo un ragazzino che cerca di sembrare un uomo. Ero alto appena un metro e cinquantadue.

    Voltai le spalle alla vetrina, poi mi girai di nuovo. Dovevo dare la sensazione di non avere molta grana, ma non c’era bisogno che nuotassi nell’oro per portare buone scarpe. Le scarpe nuove mi avevano sempre fatto un certo effetto. Mi facevano sentire qualcuno, anche se non era previsto che ne avessi l’aspetto. Entrai.

    C’era una piccola teca piena di calzini e giarrettiere vicino alla vetrina e un tipo paffuto di mezza età, il proprietario, immagino, ci stava appoggiato sopra a leggere un giornale. Alzò a malapena gli occhi su di me, poi puntò il pollice dietro la spalla.

    «Laggiù in fondo alla strada, figliolo» disse. «Quegli edifici di mattoni rossi che vedi.»

    «Cosa?» feci. «Io…»

    «Esatto. Basta che vai là e ti sistemano. Ti dicono in che pensionato andare e tutto quel che ti serve sapere.»

    «Senta» dissi. «Io…»

    «Dammi retta, figliolo.»

    Se c’è una cosa che non mi piace sentirmi dire è figliolo. Se c’è una stramaledetta cosa al mondo che non mi piace sentirmi dire è figliolo. Sollevai le valigie più in alto che potevo e le lasciai cadere. Atterrarono con uno scossone che quasi gli sbalzò gli occhiali dal naso.

    Tornai al seggiolino di prova e mi sedetti. Lui mi seguì, rosso in faccia e con aria offesa, e sedette sullo sgabello di fronte a me.

    «Non c’era bisogno di fare così» disse in tono di rimprovero. «Cercherei di controllarmi, se fossi in te.»

    Aveva ragione: avrei dovuto provarci. «Certo» sorrisi. «Solo che mi manda in bestia esser chiamato figliolo. Probabilmente per te è lo stesso quando ti chiamano trippone.»

    Fece per accigliarsi, ma poi si mise a ridere. Non era cattivo, credo. Solo un signor so tutto ficcanaso e provincialotto. Chiesi un paio di trentasette e mezzo a pianta stretta con alzatacco interno e lui cominciò a tirarla per le lunghe in modo da infilare più domande possibile.

    Avrei frequentato il Magistero? Non era già cominciato da un po’, il semestre? Mi ero già trovato un posto dove stare?

    Dissi che ero arrivato in ritardo per colpa di una malattia e che avrei alloggiato da J.C. Winroy.

    «Da Jake Winroy!» Alzò bruscamente gli occhi. «Perché non… Perché vuoi stare lì?»

    «Per via del prezzo, soprattutto» risposi. «Sulla lista dell’università era il più economico, per vitto e alloggio.»

    «Ah» assentì. «E sai perché è economico, figl… giovanotto? Perché non c’è nessun altro disposto a starci.»

    Mi costrinsi a spalancare la bocca. Stavo seduto lì a fissarlo con aria preoccupata. «Gesù» esclamai. «Non vorrai dire che è quel Winroy?»

    «Sissignore!» Fece su e giù con la testa, trionfante. «Proprio lui, in carne e ossa! Il tipo che ha fatto saltare quel grosso giro di scommesse sui cavalli.»

    «Gesù» ripetei. «Ma come, credevo fosse in galera!»

    Mi rivolse un sorriso di compassione. «Decisamente non sei al passo coi tempi, fi… Come hai detto che ti chiami?»

    «Bigelow. Carl Bigelow.»

    «Be’, decisamente non sei aggiornato, Carl. Jake è fuori da… be’… sei, sette mesi ormai. Si è stufato della galera, penso. Non la sopportava proprio, anche se i pezzi grossi lo pagavano caro e salato per restarci e tenere la bocca chiusa.»

    Continuai a fare la faccia preoccupata e un po’ spaventata.

    «Non fraintendermi, non dico che non starai benone, là da Winroy. Hanno un altro pensionante, non uno studente, un tipo che lavora giù alla panetteria, e pare vada tutto bene. Attorno alla casa non si vede un detective da settimane.»

    «Detective!» esclamai.

    «Certo. Per evitare che Jake venga ammazzato. Vedi, Carl» si mise a sillabare, quasi stesse parlando con un bambino deficiente, «vedi, Jake è il testimone chiave in quel grosso processo sulle scommesse. È l’unico che possa far incriminare tutti quei politici e giudici corrotti eccetera, che prendevano le mazzette. Perciò, da quando ha accettato di collaborare con la giustizia e l’hanno fatto uscire di galera, gli sbirri hanno paura che possa essere ucciso.»

    «Qu-qualcuno…» Mi tremava la voce; parlare con quel buffone mi stava facendo un mondo di bene. Era l’unica cosa che potessi escogitare per trattenermi dal ridere. «Qualcuno ci ha già provato?»

    «Uhm… Alzati un momento, Carl. Te la senti bene? Okay, proviamo l’altra scarpa… No, nessuno ci ha mai tentato. E più ci pensi, più è facile capire perché. Alla gente non interessa tanto vedere questi allibratori sotto processo, ora come ora. Non vedono perché sia così sbagliato scommettere con un allibratore, visto che scommettere all’ippodromo è perfettamente legale. Ma accettare scommesse è una cosa e l’omicidio è un’altra. Questo alla gente non va giù, e ovviamente tutti saprebbero chi è stato. Quegli allibratori resterebbero disoccupati. Scoppierebbe un casino tale che i politici dovrebbero per forza fare pulizia, per quanto detestino la cosa.»

    Annuii. Aveva fatto centro. Jake Winroy non poteva essere assassinato. Per lo meno, non in modo tale che sembrasse un omicidio.

    «Cosa pensi che succederà, allora?» domandai. «Lasceranno semplicemente che Ja… il signor Winroy vada a testimoniare?»

    «Certo» sbuffò, «se vive abbastanza. Lo lasceranno testimoniare quando la causa arriverà in tribunale, tra quaranta, cinquant’anni… Vuoi tenerle?»

    «Sì. E quelle vecchie puoi buttarle via» dissi.

    «Già, è così che funziona. Temporeggiare. Rimandare il processo. L’hanno già fatto due volte e continueranno a farlo. Sono disposto a scommettere cento dollari che la causa non arriverà mai in tribunale!»

    Avrebbe perso i suoi soldi. Il processo era fissato fra tre mesi e non sarebbe stato rinviato.

    «Be’» commentai, «così vanno le cose, suppongo. Sono lieto di sentire che non avrò problemi a stare dai Winroy.»

    «Certo» mi strizzò l’occhio. «Potresti perfino divertirti un po’. La signora Winroy è alquanto spigliata… Non voglio dire niente contro di lei, sia chiaro.»

    «Certo che no. Alquanto… ehm… spigliata, eh?»

    «O comunque avrebbe potuto esserlo, a quel che si dice, se ne avesse avuto l’occasione. Jake l’ha sposata dopo che era andato via di qua e si era trasferito a New York, quando tutto gli andava a gonfie vele. Dev’essere un bel passo indietro per lei, vivere come le tocca fare adesso.»

    Mi spostai con lui verso l’ingresso del negozio per prendere il resto.

    Svoltai a sinistra al primo angolo e percorsi una via laterale non lastricata. Non c’erano case, solo il retro del fabbricato d’angolo da un lato del vicolo e un giardinetto cintato dall’altro. Il marciapiedi era un viottolo stretto di mattoni grezzi, ma lo sentivo piacevole sotto i piedi. Mi sentivo più alto, più in armonia con il mondo. Il lavoro non mi sembrava più tanto schifoso. Non lo avevo voluto e continuavo a non volerlo. Ma adesso era soprattutto per via di Jake.

    Quel povero bastardo era un po’ come me. All’inizio non era nessuno, ma si era dannato l’anima per diventare qualcosa. Si era levato da questa città di bifolchi e si era trovato un posto da barbiere a New York. Era l’unico lavoro che conoscesse – l’unico di cui sapesse qualcosa – sicché aveva fatto quello. Si era trovato proprio il negozio giusto, giù dalle parti della City Hall. Si era accattivato proprio i clienti giusti, ridendo alle loro battute trite e ritrite, leccandogli il culo, guadagnandosi la loro fiducia. Quando arrivò la stangata erano anni che non toccava un rasoio, e stava gestendo un giro di pagamenti da un milione di dollari al mese.

    Il povero bastardo, senza attrattiva, senza istruzione, senza niente… Ma si era arrampicato fino in cima. E adesso era di nuovo sul fondo. A mandare avanti quella bottega di barbiere con una poltrona sola da cui era partito, cercando di fare un po’ di grana con la residenza di famiglia dei Winroy, troppo fatiscente per poterla vendere.

    Tutti i soldi che aveva fatto col racket erano svaniti. In parte erano stati confiscati dallo Stato, un’altra grossa fetta l’aveva presa il governo federale e il resto se l’erano mangiato gli avvocati. Tutto ciò che gli restava era sua moglie, e girava voce che da lei non gli venisse mai una parola gentile, figurarsi il resto.

    Continuavo a camminare pensando a lui, provando pena per lui; e proprio non mi accorsi della grossa Cadillac nera accostata al marciapiedi né dell’uomo che c’era seduto dentro. Stavo per oltrepassarla quando udii un «Psst!» e vidi che era Barattolo.

    Mollai le valigie e scesi dal marciapiedi.

    «Brutto scimunito» lo apostrofai. «Che ti sei messo in testa?»

    «Calma e gesso.» Mi sorrise mostrando i denti e stringendo gli occhi. «Che ti sei messo in testa tu, figliolo? Il tuo treno è arrivato da un’ora.»

    Scossi la testa, troppo indispettito per rispondergli. Sapevo che non era stato l’Uomo a mettermelo alle calcagna. Se l’Uomo avesse temuto una fuga, non sarei stato qui.

    «Fila» dissi. «Maledizione, se non te ne vai fuori città e non ci resti, lo farò io.»

    «Ah sì? E cosa pensi che dirà l’Uomo?»

    «Parlagliene tu» risposi. «Digli che sei venuto quaggiù su un carrozzone da circo e mi hai fermato per strada.»

    Si umettò le labbra, a disagio. Io accesi una sigaretta, misi il pacchetto in tasca e tirai fuori la mano. La feci scorrere sullo schienale del sedile.

    «Non c’è bisogno di scaldarsi» borbottò. «Arrivi in città sabato? L’Uomo sarà tornato e… oof!»

    «È un coltello a scatto» dissi. «Hai circa tre millimetri di lama nel collo. Ne vuoi un pochino di più?»

    «Pazzo bast… oof!»

    Risi e lasciai cadere il coltello sul sedile.

    «Tienilo tu» dissi. «Avevo intenzione di buttarlo. E di’ all’Uomo che non vedo l’ora di incontrarlo.»

    Mi imprecò contro, mettendo bruscamente in moto l’auto. Partì così veloce che dovetti fare un salto indietro per non venire trascinato.

    Sorridendo, tornai sul marciapiedi.

    Era un po’ che aspettavo una scusa per mettere a posto Barattolo. Fin dall’inizio, la prima volta che era entrato in contatto con me in Arizona, mi aveva sempre stuzzicato. Non gli avevo fatto niente, ma aveva cominciato subito ad affliggermi, a chiamarmi ragazzino e figliolo. Mi domandavo cosa ci fosse dietro.

    Barattolo aveva bisogno di grana come un cinghiale delle tette. Era uscito dal giro del contrabbando di alcolici prima della guerra e si era buttato nel ramo delle auto usate. Adesso gestiva saloni a Brooklyn e Queens e faceva più soldi legalmente (ammesso che vendere auto usate si possa definire legale) di quanti ne avesse mai fatti coi liquori.

    Ma se non aveva voluto entrarci, come mai ora ci si stava infilando molto più di quanto dovesse? Non c’era bisogno che venisse quaggiù, oggi. In realtà, all’Uomo non sarebbe piaciuto nemmeno un po’. Allora… Allora?

    Stavo ancora pensando quando arrivai alla residenza dei Winroy.

    2

    Se avete passato un po’ di tempo sulla costa atlantica, avrete visto molte case come questa. A due piani ma all’apparenza molto più alte, perché sono molto strette; tetto spiovente con un comignolo a ciascuna estremità e un paio di finestre del solaio incorniciate circa a metà della facciata. Sono case che si possono dipingere d’oro e sono una favola, ma di solito sono dipinte a colori che le fanno sembrare brutte il doppio del normale. Questa era di un verde orrendo con rifiniture color vomito marroncino.

    Quasi smisi di compatire Winroy, quando la vidi. Uno che abitava in un posto come quello, aveva quel che si meritava. Vedete – forse sono un po’ fissato con l’argomento – vedete, queste cose non hanno proprio senso. Avevo comprato una baracchetta in Arizona, ma non è rimasta una baracca a lungo, poco ma sicuro. L’ho dipinta di un bianco avorio con finiture blu, e l’intelaiatura delle finestre l’ho laccata di rosso brillante… Graziosa? Sembrava una di quelle immagini che si vedono sulle cartoline natalizie.

    … Aprii con una spinta il cancello semisprofondato. Salii gli scalini traballanti fino alla veranda e suonai il campanello. Lo pigiai un paio di volte, sentendolo risuonare all’interno, ma non ci fu risposta. Non sentivo muoversi anima viva.

    Mi voltai a guardare il giardinetto spoglio: troppo dannatamente pigro per piantare un po’ d’erba. Fissai lo steccato con la vernice scrostata e metà dei paletti divelti. Poi lo sguardo mi si sollevò e guardai dall’altra parte della strada, e la vidi. Non potevo darlo a intendere, ma sapevo chi era. Anche in jeans e pullover, con i capelli raccolti in una coda di cavallo. Era in piedi sulla soglia di un piccolo bar in fondo alla strada, incerta se fossi uno per cui valeva la pena disturbarsi.

    Ridiscesi le scale e uscii dal cancello, e lei, esitante, cominciò ad attraversare la strada.

    «Sì?» disse forte, ancora a diversi passi di distanza. «Posso aiutarla?» Aveva una di quelle voci roche, impostate, voci addestrate per suonare educate. Uno sguardo a quella sua carrozzeria, e capivi che tipo di educazione avesse avuto: dritta dritta dal materasso a molle Bella Addormentata. Uno sguardo ai suoi occhi, e capivi che poteva dirti più oscenità di quante ne troveresti sulle pareti di mille cessi.

    «Sto cercando il signore o la signora Winroy» dissi.

    «Sì? Sono io la signora Winroy.»

    «Piacere. Io sono Carl Bigelow.»

    «Sì?» Quel sì strascicato cominciava a darmi sui nervi. «E questo dovrebbe dirmi qualcosa?»

    «Dipende» risposi «se quindici dollari alla settimana le dicono qualcosa.»

    «Quin… Oh, certamente!» Si mise improvvisamente a ridere. «Mi dispiace tanto, Car… Signor Bigelow. La ragazza che abbiamo assunto – la nostra domestica, cioè – è

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