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The Blueprint: Edizione italiana
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E-book365 pagine5 ore

The Blueprint: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Kelly Cannon è soddisfatto della sua vita. Ha degli amici, una famiglia fantastica e un buon lavoro. La sua vita amorosa, però, fa davvero pietà. E per quale motivo? Perché il suo cuore ha deciso di infrangere due regole importanti: non innamorarsi di un etero e, soprattutto, non innamorarsi del proprio migliore amico.
Il campione di football Britton “Blue” Montgomery è sotto pressione. Suo padre è interessato solo alla sua carriera di giocatore. I suoi allenatori vogliono che giochi senza infortunarsi di nuovo. E poi ci sono i tifosi, il suo agente e infine sua madre, che è ricomparsa dopo aver lasciato la famiglia anni prima. Come se non bastasse, il suo rapporto con Kelly si fa sempre più incerto, e questo lo spaventa più di qualsiasi altra cosa.
Quando Kelly ammette di essere innamorato di lui, il loro legame è messo alla prova, e Blue deve decidere cosa conta davvero. Non vuole perdere la persona più importante della sua vita, ma il prezzo per tenere Kelly al suo fianco potrebbe essere più alto di quanto sia disposto a pagare.
Per fortuna, il suo soprannome in campo è Blueprint, il Prototipo: è l’unico che potrà cambiare le regole del gioco.
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2023
ISBN9791220706674
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    Anteprima del libro

    The Blueprint - S.E. Harmon

    1

    KELLY

    Era bizzarro arrivare a comprendere e apprezzare il genio assoluto di Einstein proprio in quel momento. La sua teoria della relatività era reale e tangibile. Ed era infatti l’unica cosa che potesse spiegare come mai un passaggio in auto che di solito durava mezz’ora fosse arrivato ad assomigliare a una marcia di tre ore attraverso l’inferno.

    Mentre guardavo fuori dal finestrino del lato passeggero, notando a malapena il paesaggio che mi scorreva davanti, mi riproposi di scrivere alla mia vecchia professoressa di fisica per informarla della mia recente esperienza nella dilatazione del tempo. Non era più necessario che i suoi studenti perdessero la vista su libri scritti in caratteri minuscoli o redigessero complicate relazioni. Un quarto d’ora in macchina con un ex era un mezzo d’insegnamento più efficace.

    Lanciai un’occhiata al viso arcigno del mio ex fidanzato, Robert, che presto sarebbe stato conosciuto anche come sospettato del mio futuro omicidio. A essere precisi, era il mio ex solo da tre minuti: l’avevo appena lasciato, in pratica.

    Non l’aveva presa bene.

    Allungai una mano per abbassare di una tacca l’aria condizionata, ma lui sbottò: «Non toccare niente nella mia macchina.»

    «È un climatizzatore bizona.» Nonostante la mia obiezione, però, fermai la mano. «Sono un po’ accaldato.»

    «E perché mi dovrebbe interessare?»

    «Ti stai comportando da stronzo,» replicai.

    Si mise a ridere, il suono della sua risata era irritante e sgradevole. «Penso che stasera il titolo spetti a te, Kelly.»

    Lasciai ricadere la mano in grembo.

    Tornai a guardare fuori dal finestrino, ma non vedevo più niente. Invece del paesaggio, nella mia mente, continuavo a rivivere come fosse un filmato trasmesso di continuo l’epica proposta di matrimonio di Robert. E intendo epica nel senso letterale del termine, perché un attimo prima mi stavo riempiendo la bocca di popcorn, completamente preso dalla partita degli Heat, e l’attimo dopo ero sul maxischermo del palazzetto.

    Con le guance gonfie come uno scoiattolo accaparratore compulsivo di ghiande, avevo sentito la voce dell’annunciatore echeggiare per il palazzetto blaterando sull’amore, sul per sempre e… non so. Sul futuro senza fine? E vabbè, denunciatemi. Non me lo ricordo. Ero troppo impegnato a chiedermi come si attivasse il teletrasporto.

    Avevo strizzato gli occhi, poi li avevo riaperti e… cazzo, ero ancora lì. Solo che Robert si stava abbassando su un ginocchio. «Sposami, Kelly Holden Cannon, e fai di me l’uomo più felice sulla faccia della Terra.»

    Almeno mi sembrava che avesse detto così. All’improvviso le cose avevano cominciato a muoversi al rallentatore. E chi diavolo gli ha detto il mio secondo nome? Lottai per ingoiare i popcorn che avevo in bocca, mentre i miei occhi dardeggiavano a destra e a sinistra, come se fossero palline di un flipper. Avevo cercato di ricordare cosa mai avessi fatto in passato per trovarmi ad assistere in prima fila – addirittura come ospite d’onore – a quell’orrendo spettacolo. Era difficile scegliere un episodio specifico.

    C’era stata quella volta, alle elementari, che avevo rubato dei dolci – parecchi dolci – dal negozio vicino a casa, per poi spartire il bottino con mia sorella Kennedy e il mio migliore amico Blue. Avevamo fatto una scorpacciata e poi li avevamo vomitati per tutto il tragitto fino a casa. Era così che avevamo scoperto che Blue era allergico alle arachidi. Mia madre aveva dovuto portarlo all’ospedale e lì avevamo dovuto spiegare come mai avesse nello stomaco etti di M&M’s. Non era stato il mio momento migliore, e neanche il suo. Non lo era stato nemmeno per il dottore, soprattutto quando il vulcano Blue aveva eruttato all’improvviso riversandogli bile colorata sulle scarpe. Blue odiava ancora gli M&M’s con le arachidi e io mi assicuravo sempre di comprargliene un pacco gigante per il compleanno.

    Poi c’era stata quella volta che Kennedy aveva rotto la mia PlayStation, senza dimostrare un minimo di pentimento. Per vendetta io e Blue le avevamo preparato dei biscotti con scaglie di cioccolato aromatizzati da qualche goccia di lassativo. E poi c’era stata quell’altra volta, quando io e Blue… A quel punto avevo ingoiato l’ultimo popcorn. Tutto considerato, bisognava ammettere che senza l’influenza di Blue sarei probabilmente stato un bambino più bravo.

    Più riconsideravo il mio passato e più mi rendevo conto che sì, ero una persona orribile e meritavo l’umiliazione di una proposta di matrimonio in pubblico.

    Avevo guardato Robert negli occhi e mi ero accorto che nello stadio era sceso il silenzio. Forse avevo tergiversato un po’ troppo. A un certo punto della nostra vita, la comunicazione tra noi doveva essersi seriamente interrotta, un’interruzione seria come un autoarticolato mastodontico senza freni che ti piomba addosso. Forse ero talmente abituato al nostro tran-tran che non avevo colto i segnali.

    L’unica risposta che avrei dovuto dare era un no. Perciò, essendo io un uomo di incredibile intelligenza, avevo detto di sì.

    Ora, prima che ve la prendiate con me, lasciatemi dire che l’avevo fatto per il bene di Robert. L’unica cosa peggiore dell’essere scaricati è essere scaricati di fronte all’intero palazzetto BankAtlantic. Quindi, per cortesia, avevo risposto di sì e, Gesù, Giuseppe e Maria, ne era seguito un vero spettacolo. Il maxischermo si era illuminato come un albero di Natale sotto steroidi. La folla aveva ruggito. Le cheerleader si erano messe a ballare scuotendo i pompon e lanciando su e giù le gambe inguainate nelle calze elasticizzate.

    Robert mi aveva afferrato e per un attimo avevo sperato che mi buttasse giù dagli spalti, concedendomi una morte veloce e pietosa. Invece voleva solo stringermi in un energico abbraccio euforico. Anche gli spettatori intorno a noi erano venuti ad abbracciarci e congratularsi. Un tizio con la pancia da birra e il classico aspetto di un omofobo mi aveva dato un pugno sulla spalla così forte che avevo rovesciato la birra sulla mia felpa preferita dei Miami Heat.

    Ed eccoci tornati al viaggio in macchina verso casa. Avevo aspettato di arrivare al parcheggio per rompere con lui, in modo da spiegargli in privato perché sposarsi fosse una cattiva idea. Robert era passato dall’imbarazzo alla recriminazione e infine alla gelida rabbia. Intanto io mi chiedevo per quanto sarei sopravvissuto se avessi aperto la portiera dell’auto e mi fossi lanciato. Se fossi saltato giù da un’auto in corsa, credo che mi sarei messo a rotolare sul terreno. Non ne ero del tutto sicuro, però, quindi restai al mio posto.

    Premetti la lingua contro i denti, facendo scorrere avanti e indietro la pallina del piercing e riflettendo sul modo migliore per affrontare la questione. Decisi di farlo con delicatezza. Sì, delicatezza era la parola chiave. «Forse dovremmo parlare…»

    «Ti rendi conto di quanto sarà imbarazzante?» esplose lui.

    Il fiato mi sibilò tra i denti. A quanto pareva, non si poteva nemmeno parlare. Allora ci saremmo messi a urlare. «Rob, mi dispiace, ma pensavo fossimo sulla stessa lunghezza d’onda. Mi hai preso un po’ alla sprovvista.»

    «Alla sprovvista? Dove pensavi stesse andando questa relazione? Ci frequentiamo da due anni.»

    «Certi periodi sì e certi no,» puntualizzai, sulla difensiva.

    «Più sì che no,» ribatté lui. «Hai conosciuto i miei genitori. Siamo andati in vacanza insieme. Mi hai persino detto che, se fossi sposato, per te sarebbe più facile ottenere la cattedra.»

    «Questo non significa che intendo farlo,» obiettai. Sì, lavoravo in un college privato, esclusivo e legato ai valori familiari. E sì, essendo single venivo escluso da molte cose, ma non prendevo il matrimonio alla leggera e mai l’avrei usato per un avanzamento di carriera. «Non abbiamo mai detto di voler fare sul serio.»

    Robert mi ignorò e la sua guida si fece più nervosa. «Cazzo, Kelly, avresti potuto dirmelo…»

    «Non sapevo volessi fare una cosa del genere. Credimi, te l’avrei impedito se l’avessi saputo.»

    «Fantastico. Proprio fantastico. È una consolazione saperlo ora che l’intera contea e quelle confinanti si preparano a ridere fino alle lacrime di me.»

    «Per l’amor del cielo, Rob, nessuno si ricorderà di noi. Tra poche settimane spiegheremo tranquillamente alle nostre famiglie che abbiamo deciso di non…»

    «C’è gente che ci aspetta a casa tua. Per una festa di fidanzamento.» Percorse la galleria a più di novanta chilometri all’ora, stringendo forte il volante. Le luci gli illuminarono il viso, rendendolo chiaramente visibile per la prima volta da quando avevamo lasciato il palazzetto. L’irritazione gli distorceva i lineamenti. «Ci aspettano per augurarci un felice cazzo di fidanzamento.»

    Mi ci volle qualche secondo per rendermi conto che lo stavo fissando a bocca spalancata. La chiusi di colpo. «Magari potremmo fargli credere…»

    «Non me ne frega un cazzo di nessuno, Kelly!»

    Non parlammo più finché non inchiodò davanti a casa mia, facendo stridere in maniera fastidiosa le ruote posteriori. Sotto le luci dei lampioni, le sue guance erano rosse di emozione. «Pensavo fosse quello che volevi.»

    No, non è vero.

    Avevo capito che non eravamo fatti per stare insieme dopo appena due settimane che la nostra relazione era iniziata. Robert era arrogante ed era convinto di avere sempre ragione. Criticava tutto, dalle dimensioni del mio appartamento al mio modo di vestire, e se proponevo idee mie ne era irritato.

    Per lui non ero abbastanza ambizioso e gli dava fastidio che mi piacesse insegnare in un piccolo college privato invece di usare il mio dottorato per lavorare in un’università dell’Ivy League. L’autorevole programma scientifico di Westbrook, però, mi attirava, e mi piaceva che il dipartimento spronasse i professori a ritagliarsi del tempo per fare ricerca. Il campus, con la sua grande comunità LGBT, incoraggiava la diversità in tutte le sue forme, e l’enfasi data alla tolleranza era la ciliegina sulla torta. Ma nulla di tutto ciò era importante per Robert.

    Avevamo priorità diverse e a volte lui dava l’impressione di essere un po’… superficiale. Teneva alle apparenze. Al denaro. Alla sua remunerativa carriera da architetto. Ogni volta che uscivamo con i suoi amici cercava di vestirmi come il suo bambolotto Ken personale, il che si traduceva nel cercare di coprire i miei tatuaggi e piercing.

    Non sapevo perché non l’avessi mollato prima. Forse non ero abbastanza coinvolto da farmi toccare dai suoi difetti. Forse volevo solo qualcuno che riempisse il vuoto nella mia vita creato dalla solitudine e non qualcosa di doloroso o impegnativo come l’amore. Mentre osservavo il suo viso che diventava sempre più rosso, capii anche un’altra cosa.

    Lo sapeva anche lui, bene quanto me. Lo sapeva benissimo.

    Non avevo mai ingannato Rob su chi fossi o cosa volessi. Era chiaro che non ero stato l’unico a sentire aumentare la distanza tra noi. A quanto pareva Rob, invece di rompere, aveva deciso che il matrimonio ci avrebbe riavvicinati.

    Strinse le labbra. «Si tratta di lui, vero?»

    Evitai a entrambi una perdita di tempo chiedendo Lui chi?. Immagino che Blue fosse sempre stato tra noi, fin dall’inizio. E peggio ancora, neanche lo sapeva. Per lui ero solo il suo migliore amico, il vicino di casa, il ragazzo con cui era cresciuto. Quello che certamente non ci avrebbe mai provato con lui.

    «E pensare a quanto ero entusiasta quando ho scoperto che era il tuo migliore amico. Il grande Britton Montgomery.» Robert rise con amarezza. «I miei amici erano così invidiosi che potessimo guardare la partita nei salotti della skybox o avere i posti a sedere sulla linea delle cinquanta yard. Ma sai cosa ti dico? Puoi tenerti tutti i gadget gratuiti, se è questo il prezzo da pagare.»

    Cominciai a sentirmi un po’ meno in colpa. Parlar male di Blue era il modo migliore per finire sulla mia lista nera. «Lascialo fuori da questa storia,» ringhiai.

    «Finalmente. Una cazzo di emozione.» Mi lanciò un’occhiata derisoria. «Lo sa che lo vuoi? Che non lo ami solo come un amico? Che il suo innocuo miglior amico gay non desidera altro che farsi scopare dalla grande star del football?»

    Lo fissai, cercando di trattenermi. Lui sorrise del mio silenzio incavolato. «Lo sa che lo ami? Che vuoi stare con lui?»

    Digrignai i denti. Credo sarebbe stato scortese rifiutare una proposta di matrimonio di qualcuno e tirargli un pugno in faccia. «Penso sia ora che tu te ne vada.»

    «Avremmo potuto avere qualcosa di reale.» Scosse la testa. «E tu vuoi buttare via tutto per qualcuno che non sa neanche che esisti.»

    «Ho l’impressione che tu stia esagerando un po’.»

    «Oh, adora quando sei sugli spalti. Adora venire a casa tua, buttarsi sul tuo divano, mangiare il tuo cibo e prendere in prestito la tua roba. Adora quando lo guardi come se venerassi la terra su cui cammina.»

    «Robert.»

    «Come se fossi disposto a succhiargli l’uccello se solo ti desse uno straccio di…»

    «Robert, smettila.» Lo fissai con un’espressione che lasciava intendere chiaramente quanto fossi serio. «Prima di dire qualcosa che non potrò perdonarti.»

    Tacque, ma era chiaro che aveva ancora molto da dire. Si strofinò il collo e aggiunse: «Avremmo potuto avere qualcosa, sai. Avremmo potuto essere felici

    C’era qualcosa di vero in quello che diceva. Se mi sforzavo, riuscivo quasi a immaginare la nostra vita insieme. La sua arroganza mi avrebbe evitato di dover prendere decisioni importanti. Avremmo vissuto nella sua costosa casa in centro, con la sua splendida vista sulla città. Avremmo avuto dei cani, probabilmente dei terrier scozzesi. Rob adorava quella razza.

    Avremmo fatto del sesso piuttosto soddisfacente, anche se lui non mi avrebbe mai permesso di scoparlo, perché odiava dover cedere anche solo un millimetro del suo prezioso controllo. E ogni tanto avrei soddisfatto quella sua piccola perversione di essere chiamato paparino: se uno mi scopa come si deve, posso anche chiamarlo paparino di tanto in tanto, se è quello che lo fa eccitare.

    Tra il mio lavoro di professore e il suo di architetto non avremmo avuto problemi di soldi. Avremmo avuto amici. Una famiglia. Foto delle vacanze con indosso costumi dai colori sgargianti, a bere margarita e brindare all’obiettivo in posti esotici ed esclusivi. Saremmo stati bene insieme. Saremmo stati felici insieme. Saremmo stati a nostro agio insieme.

    E fanculo l’amore.

    Amore o non amore, questo è il dilemma. Nonostante il mio disincanto, immagino che in fondo fossi in attesa dell’uomo dei sogni, nella speranza che si realizzasse qualcosa di impossibile, perciò non volevo accettare compromessi. Sospirai tra me e me. Ero un illuso ottimista come qualsiasi principessa Disney. Sul mio profilo eHarmony avrebbe fatto un figurone. Avrei usato Biancaneve come avatar. Lei aveva trovato sette uomini. Di certo ne avrei raccattato almeno uno.

    Non c’era nient’altro da fare, per cui scesi dall’auto e chiusi la portiera. Mi fermai sul marciapiede, con le mani nelle tasche dei jeans. Era un paio così vecchio e consumato che dal tessuto sbucò un dito.

    «Robert.» Fissai la sua espressione irritata, sentendomi impotente. «Voglio che tu sappia che mi dispiace davvero. Scusami.» In realtà non sapevo per cosa mi stessi scusando. Per la mia incapacità di amarlo? Per aver rifiutato la sua proposta di matrimonio? Perché amavo qualcun altro?

    Avrei dovuto risparmiare il fiato.

    Si staccò dal marciapiede con un tremendo stridio di pneumatici, poi frenò di colpo. Quando gli stop si accesero e fece retromarcia, il cuore prese a martellarmi in petto.

    Santo cielo. Doveva aver deciso che urlare non era abbastanza. La mia foto sarebbe apparsa su tutti i notiziari. Probabilmente quella sul tesserino del college, che mi avevano scattato dopo una sbronza a metà di uno starnuto. I notiziari usano sempre le foto peggiori che riescono a trovare.

    Si fermò davanti a me, facendo ondeggiare la Lexus. Con un’occhiataccia tirò fuori la mano. Per un attimo lo guardai confuso, poi capii cosa voleva.

    «Oh. Scusa.» Mi tolsi l’anello dal dito con una smorfia, facendo un po’ di fatica quando mi si bloccò intorno alla nocca. Glielo poggiai sul palmo della mano e lui se lo mise in tasca.

    «Spero che fare l’unico cheerleader maschio di Montgomery per il resto della vita ti renda felice.»

    «Siamo solo amici

    «Ma sì, continua a bussare alla porta sbagliata, se ti va di perdere tempo,» disse accigliato, e ripartì a tutta velocità.

    Me ne restai lì, esausto per l’accaduto. La serata non poteva di certo andare peggio. Percorsi il viale di casa e aprii la porta usando il codice elettronico. Avrei ucciso per una doccia fredda e una Diet Coke altrettanto fredda. E poi…

    «Sorpresa!»

    Sbattei gli occhi alla vista dei nostri amici. Merda. Avevo già dimenticato la festa a sorpresa. Mi guardai intorno a bocca aperta, notando le stelle filanti colorate e lo striscione con la scritta Congratulazioni in lettere fluorescenti.

    «Ehi, fratello.» La voce che parlò alla mia sinistra mi fece voltare immediatamente.

    «Kennedy? Che ci fai qui?» boccheggiai.

    Mia sorella si avvicinò e mi diede un pizzicotto sulla spalla. «Sono qui per il vostro bel fidanzamento gay.» Quando non risi, il suo sorriso scomparve. «Che succede?»

    Che succede? Avevo appena lasciato fuggire via la mia unica possibilità di trovare l’amore e un marito su una Lexus argentata con la targa di Georgetown. A giudicare dalla fretta con cui Rob era ripartito, doveva aver già raggiunto la velocità supersonica. Avrebbe lasciato la nostra atmosfera sul razzo alimentato dalla sua incazzatura.

    Sospirai depresso e osservai la stanza decorata. Si erano dati molto da fare e, nonostante la prostrazione, ne fui toccato. Il tavolo del buffet cigolava minacciosamente sotto il peso di quel cibo delizioso e il mio sguardo abbattuto si animò alla vista di una torta gigantesca che s’intravedeva dietro due vassoi dai coperchi argentati.

    Mi brontolò lo stomaco, che chiaramente non era stato turbato dagli orribili eventi di quella serata. Già, la vita faceva schifo e io ero ormai deciso a morire da solo. Forse ero un po’ innamorato del mio migliore amico, che era etero e, grazie a Dio, del tutto ignaro dei miei sentimenti. Però c’era la torta, una torta di cioccolato con una morbida glassa di crema al burro al doppio cioccolato.

    A volte le piccole cose erano le più importanti.

    2

    KELLY

    La festa fu una schifezza, non ci sono altri termini.

    A essere onesti, probabilmente è quello che succede quando si dà una festa di fidanzamento senza fidanzamento. Se fossimo stati in un film, magari una coppia che speravamo si mettesse insieme avrebbe sfruttato la festa per fare il suo annuncio e tutti avrebbero applaudito felici. Ma ero nella vita reale, quindi puntai dritto al buffet, seguito da preoccupati cenni del capo e sussurri soffocati come fossero la scia di un motoscafo.

    Stavano cercando di cogliere da me qualche segnale su come procedere, tentando allo stesso tempo di sondare il mio stato d’animo. Purtroppo per loro, nemmeno io sapevo come sentirmi, ma avevamo la birra, la torta e gli spuntini al bacon, per cui demmo il via alla testa.

    Con l’avanzare della notte, capii dalla pochezza dei miei discorsi e dal volume sempre più alto della mia voce che ero sulla strada buona per ubriacarmi. Mi era rimasta tuttavia abbastanza presenza di spirito da sostituire la birra con l’acqua. L’unica cosa più infernale di insegnare fisica il lunedì mattina presto era insegnarla con il mal di testa da dopo sbornia e con occhiali da sole giganteschi calcati sulla faccia come una rock star che sta invecchiando. Mi diressi verso il patio sul retro per prendere un po’ di aria fresca e mi chiusi piano la porta alle spalle.

    Il patio era piccolo, come il resto dell’appartamento, e c’era spazio solo per due sedie e qualche pianta. Erano tre gigli, che secondo mia madre avrebbero ravvivato l’ambiente. Ci teneva molto all’arredamento degli spazi esterni. Il mio appartamento si estendeva più in altezza che in larghezza e compensava la scarsa superficie calpestabile con un secondo piano che usavo di rado. Lo spazio era più che sufficiente per me.

    Per me solo.

    Serrai le mascelle, mi sedetti su una delle sedie e tirai su i piedi. Mi circondai le ginocchia con le braccia, lasciando penzolare la bottiglia dalle dita. L’appartamento avrebbe continuato a essere solo per me, ormai era chiaro, perché, per quanto odiassi ammetterlo, in un certo senso Robert aveva ragione.

    Ero innamorato di Blue.

    Mi stavo struggendo per qualcosa che non sarebbe mai successo, e lo facevo da tantissimo tempo. Era stupido e non avrebbe portato a niente. Inoltre, ero certo che quella cotta avesse rovinato ogni relazione che avevo avuto da quando avevo sedici anni.

    Avevo conosciuto Blue alle elementari, quando si era trasferito vicino a noi con la sua famiglia. All’inizio l’unica cosa che avevamo in comune era l’età, perché per Blue il massimo del divertimento era giocare all’aperto, mentre io aborrivo il sole e il sudore. Poi le nostre mamme ci avevano costretti a giocare insieme e alla fine avevamo trovato un interesse condiviso per i videogiochi: la PlayStation, lo strumento di unione.

    Nel giro di poco tempo lui aveva cominciato a dormire a casa mia e io da lui. Andavamo e tornavamo da scuola insieme. Il resto era accaduto di conseguenza.

    Il resto.

    Emisi un profondo sospiro. Era un termine generico per definire un’amicizia che durava praticamente da sempre e comprendeva tutto. Io che lo aiutavo con i compiti di scienze, e lui che copriva le mie carenze in educazione fisica. Noi che cercavamo modi per vendicarci di suo fratello o di mia sorella. Che ci accampavamo in giardino, sotto le stelle, e condividevamo tutto, qualsiasi cosa ci venisse in mente. Sembrava tutto così facile. Tu piaci a me e io piaccio a te. Tu rendi la mia vita migliore e io voglio esserti amico per sempre. Cose semplici.

    Cose da ragazzini.

    Quando sua madre se ne era andata non sapevo cosa fare. Non sapevo come comportarmi con un Blue che non era allegro e sorridente. Per la prima volta nella mia giovane vita provavo frustrazione per il suo silenzio. Sentivo i miei genitori parlarne sottovoce, con mio padre che si arrabbiava con i genitori di Blue e mia madre che cercava di calmarlo.

    Una sera Blue si era fermato a dormire da me e mia madre era stata molto premurosa con lui. Gli aveva dato una fetta di dolce in più e poi lo aveva mandato via dalla cucina quando aveva cercato di aiutarla a sparecchiare. Avevo proposto un videogame, e lui aveva giocato, ma non ci aveva messo impegno. Poi, quella notte, dal mio letto a castello, l’avevo sentito piangere.

    All’inizio ero spaventato. Non l’avevo mai sentito piangere, nemmeno quando si era rotto un braccio con lo skateboard credendosi l’erede di Tony Hawk, aveva dovuto essere portato in ospedale, e poi eravamo finiti entrambi in punizione.

    Mi ero girato a pancia in giù e avevo allungato la mano il più possibile. Mi sentivo stupido, in imbarazzo e vulnerabile, ma dopo qualche secondo lui l’aveva afferrata. Già allora la sua mano era molto più grande della mia e me l’aveva stretta così forte che avevo paura mi polverizzasse le ossa. Dopo un’ora avevo il torcicollo, ma eravamo restati così tutta la notte, tenendoci le mani nel buio. In tutta la mia vita, non mi ero mai sentito così vicino a qualcuno.

    Proprio in quel momento, qualcosa dentro di me… era cambiato. Mi ero reso conto che lui mi piaceva in maniera diversa. Volevo prendermi cura di lui, cancellare il suo dolore, anche se, a tredici anni, non sapevo come.

    Ancora non ero attratto da lui da un punto di vista sessuale, anche se era già da un po’ che sperimentavo. Ma ciao, siti porno. Ciao, mano che non giudica e non mi respinge mai. Ciao, ragazzino strano del catechismo a cui piace limonare nello sgabuzzino del bidello. Ma sto divagando.

    Alle superiori aveva iniziato a fare sul serio con il football e dovevamo fare i salti mortali per trovare il modo per continuare a vederci. Di solito uscivo dai club da secchioni che frequentavo e aspettavo che lui finisse di allenarsi per tornare a casa insieme. E che problema c’era se, dalla tribuna, occhieggiavo i suoi compagni di squadra da dietro gli occhiali da sole?

    Anche a ripensarci adesso, non saprei dire di preciso cosa fosse cambiato. Un giorno andava tutto bene e il giorno dopo basta. Cominciai a notare delle cose. Per esempio, il modo in cui si tirava su la maglietta quando aveva caldo e la ammucchiava sotto le imbottiture per rinfrescare la pelle. Aveva addominali davvero ben definiti. Un culo molto, molto bello. E il sudore gli scivolava al rallentatore sulla pelle baciata dal sole e be’, diamine, era stato come se qualcuno mi avesse tirato un mattone in testa.

    Non era nemmeno il mio tipo. Non mi piacevano gli sportivi. Non che ci sia qualcosa di male nell’essere uno sportivo, ma non mi attiravano. Mi piacevano i tipi imbranati, sarcastici e disillusi dal mondo. Se portavano gli occhiali, meglio ancora, e se si vestivano in maniera bizzarra era ancora meglio. Se poi amavano la scienza e si consideravano degli intellettuali, avrei potuto innamorarmi.

    Blue non aveva nessuna di quelle qualità: non era né imbranato, né sarcastico, né bizzarro, ma all’improvviso mi faceva battere forte il cuore e io non potevo farci proprio niente. I suoi occhi non erano più solo azzurri. Erano del colore più bello che avessi mai visto, come il cielo terso in una serena giornata estiva. I suoi capelli non erano più biondo scuro. Erano dorati dal sole. E poi c’era quel sorriso, quel sorriso sexy e incosciente che mi rivolgeva, di solito prima di ficcarci in un mare di guai.

    Cercavo di non pensarci, soprattutto perché non avevo alcuna possibilità. L’universo mi aveva messo in una situazione complicata e non sapevo cosa fare. Il mio affetto per Blue come persona si era mescolato e fuso con il fatto che lui si era trasformato in un autentico fusto, un bel manzo sexy di prima qualità.

    E se il suo bell’aspetto era certamente una cosa positiva, non era per quello che lo amavo. Sotto quell’apparenza da duro giocatore di football era dolce. Quando la mia boccaccia mi metteva nei guai, stava sempre dalla mia parte. E quando aveva iniziato a giocare con la NFL avrebbe potuto montarsi la testa e dimenticarsi di me, ma non lo aveva fatto. Invece, aveva pagato tutti i miei debiti studenteschi e mi aveva aiutato finanziariamente per il dottorato. Senza che glielo chiedessi. E quando gli avevo detto che ero gay non aveva battuto ciglio. Probabilmente non gli era neanche passato per la testa di farmelo pesare.

    Nella trama della nostra vita, i nostri fili erano così

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